(ASI) Nel 2012 il quartiere Giuliano-Dalmata come convive con la sua memoria storica? La mia domanda le fa corrucciare il volto e sentenziare sicura: “Ma quale memoria, questo quartiere sta perdendo la propria identità”.
Come altri anziani abitanti che del quartiere Giuliano-Dalmata furono i pionieri, anche Marisa si sente ferita da un’indifferenza galoppante che sta sfregiando uno dei luoghi di Roma simbolo della storia italiana del novecento, spesso drammatica. Tuffarsi con lo sguardo nei suoi occhi profondi e neri significa ripercorrere l’avventura rocambolesca della sua famiglia, sfuggita alle foibe titine per un soffio, percepire il dolore dell’esilio, la fatica per ricostruire un pezzo della propria terra nella capitale della propria nazione, insieme ad altri 2.500 istriani e dalmati.
Eppure oggi, simili vicende che rappresentano uno spaccato importante della storia recente del nostro Paese, rischiano di venir fagocitate da un individualismo diffuso che sta lacerando il tessuto sociale. Ne è convinta Marisa, che mi parla di una sempre maggiore apatia che con il passare degli anni ha sciupato quasi del tutto quell’aria da paese che un tempo si respirava da queste parti. Ci si conosceva tutti e ci si aiutava, si stava spesso insieme per rivivere le proprie tradizioni o per far comprendere ai romani il dramma di questi connazionali del confine orientale. Poi sono affluiti i “nuovi”, testimoni delle multiformi identità di Roma, coloro i quali ormai rappresentano il 90 per cento degli abitanti del Giuliano-Dalmata. La loro presenza ha smembrato a poco a poco il motivo storico che sta all’origine della nascita di questo quartiere a ridosso della via Laurentina, non distante dall’Eur. “E’ desolante - sospira Guido, un altro abitante storico di origine istriana del quartiere - che molti residenti attuali non sappiano neanche il perché di questo nome; mi è capitato anni fa di ascoltare un giovane che si chiedeva chi fosse mai questo signor Giuliano Dalmata”.
Tutto iniziò a seguito di quel 10 febbraio 1947, quando il Trattato di Pace (per molti sciagurato) che l’Italia firmò a Parigi da Paese uscito vinto dalla seconda guerra mondiale, decretò la cessione alla Jugoslavia di Istria, Fiume e Zara. Circa 360.000 italiani abbandonarono quelle terre, dopo secoli di radicamento, per non subire gli atroci trattamenti dei partigiani del maresciallo Tito, ossia l’esser gettati in profonde cavità carsiche dette foibe. Una parte dei protagonisti di questa diaspora si stanziò a Roma, e in questa piccola collina di periferia riprodusse una miniatura delle amate terre, ormai usurpate da truppe straniere. Ogni angolo di questo grazioso quartiere custodisce una memoria che inorgoglisce quel dieci per cento di popolazione giuliana e dalmata. Marisa mi spiega: “Questo è un museo a cielo aperto: lapidi, cippi, mosaici, targhe. La toponomastica delle vie e della scuola fa riferimento ai personaggi celebri della nostra storia. E ancora, sa che la chiesa a forma di arca è una metafora della nave Toscana, che trasportava i profughi?”. Sono in tanti ad ignorarlo, e l’ignoranza calpesta il ricordo che faticosamente queste genti dalla tempra forte hanno innalzato con tanto amore in questa zona di Roma. C’era un palazzo adibito ad orfanotrofio per bambini rimasti orfani di genitori uccisi dai partigiani jugoslavi, ora c’è in progetto di collocarci degli uffici. “Oggi quei bambini sono vecchi - sbotta Marisa -, ma per coerenza bisognerebbe farne una residenza per anziani e valorizzarne la memoria”. La memoria, concetto che risuona spesso nelle frasi di questi anziani, che si rattristano nel constatare che di questo passo è destinato a rimanere vuoto.
Nel 2004 è stata istituita una legge che fa del 10 febbraio di ogni anno il “Giorno del ricordo” in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Un gesto che tutti gli anziani che ho incontrato da queste parti concordano nel definire un “giusto riconoscimento” della loro sofferenza, per decenni nascosta volontariamente - così coprendo l’Italia di ignominia - da classi politiche incapaci di fare i conti con un certo passato recente. Tuttavia, un riconoscimento di questo tipo resta un atto incompiuto quando si ferma alla sfera formale e trascura l’impegno a diffonderne i contenuti. In questo senso, i rappresentanti della comunità giuliano-dalmata stanno provando a promuovere qualche nuova iniziativa, soprattutto nella scuola elementare, intitolata a Giuseppe Tosi, un insegnante italiano ucciso dai titini. Si commuovono quando vedono che da parte dei bambini c’è ampia curiosità, oltre che una maggiore capacità di assorbire i racconti e farne tesoro. Si rivelano loro, i più piccoli, ancora incontaminati dalle futili ansie degli adulti, gli unici degni alfieri di una memoria nazionale troppo importante per venir consumata dall’incedere del tempo.
Di Federico Cenci, www.agenziastampaitalia.it
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