domenica 31 maggio 2009

Un abuso al giorno.

LONDRA — Il generale An­tonio Taguba giura che le fo­tografie sulle violenze com­messe dai militari americani ai danni dei detenuti di Abu Ghraib in Iraq sono «qualco­sa di orrendo». Complessiva­mente duemila immagini, non solo dall’Iraq ma anche dall’Afghanistan, alla cui di­vulgazione il presidente Oba­ma oppone il veto. In una si vedono i soldati che abusano di una donna incarcerata. In un’altra, un interprete si acca­nisce su un detenuto. Stupri e abusi sessuali, fissati e stampati. Nessuno ha distrut­to le prove. Forse gli autori confidava­no sull’impunità. Ora sono dentro a un dossier la cui pubblicazione è diventata una delicata questione di po­litica interna ed estera. Può Washington dare il via libe­ra? È il quotidiano inglese Daily Telegraph a parlare con l’alto ufficiale statunitense che ha condotto le indagini e ha visionato quel materiale. «La sola descrizione è terribi­le ».



Ma la Casa Bianca, ieri se­ra, ha smentito. «Nessuna delle foto» che il presidente Usa ha deciso di non rendere pubbliche contiene le imma­gini di abusi sessuali, ha det­to il portavoce Gibbs. «Si trat­ta di un articolo dal contenu­to errato che offre una descri­zione falsa delle immagini in questione». Antonio Taguba ha svolto la sua inchiesta nel 2004 e ha firmato un rapporto conclusi­vo. È andato in pensione ma non ha di certo dimenticato e non ha alcuna intenzione di coprire o di negare ciò che ha visto e accertato. «Queste fo­tografie mostrano violenze, torture e ogni tipo di indecen­za », spiega il generale al Dai­ly Telegraph. Documentano almeno 400 casi di violenze compiute sia ad Abu Ghraib sia nel teatro di guerra afgha­no. Episodi disgustosi avve­nuti fra il 2001 e il 2005. Han­no parlato le vittime, hanno confermato i testimoni, infi­ne sono saltate fuori le imma­gini. Il generale Antonio Tagu­ba non si nasconde. «I re­sponsabili sono stati identifi­cati e nei loro confronti abbia­mo adottato tutte le più ap­propriate azioni». In talune ri­prese, ricorda, si vedono mili­tari che strappano le vesti al­le prigioniere e ai prigionieri, le sequenze proseguono con la rappresentazione di atti raccapriccianti durante i qua­li vengono usati tubi, fili, manganelli di acciaio. Prepo­tenze esercitate in violazione dei più elementari diritti, nel disprezzo della persona uma­na.






È giusto che il presidente Obama intenda censurare la divulgazione del dossier con le duemila fotografie? «Non sono affatto sicuro di quale possa essere lo scopo della pubblicazione — dice il gene­rale Antonio Taguba — forse c’è una ragione legale ma le conseguenze sono quelle di mettere in pericolo sia le no­stre truppe delle quali abbia­mo un grande bisogno sia le truppe britanniche che stan­no cercando di costruire una rete di sicurezza in Afghani­stan ». All’inizio Obama aveva pro­messo di rimuovere i veti. Una decina di giorni fa, spin­to dall’azione di persuasione compiuta dagli alti vertici mi­­litari, è ritornato sui suoi pas­si. «Se rendiamo pubbliche quelle foto la vita dei soldati è a rischio». Qualcuno aveva provato a sostenere che in realtà le im­magini fossero simili a quel­le già note e apparse cinque anni fa. In esse si vedevano cani tirati e aizzati contro pri­gionieri ammassati in pirami­di umane. Questo è, invece, un nuovo capitolo. Ancora più imbarazzate, grave, inac­cettabile.


Da: www.corriere.it

mercoledì 20 maggio 2009

DAL POPOLO PER IL POPOLO!







Nel millennio della globalizzazione, mentre tra le grida del potere si innalzano gli sporchi e logori drappi del Capitalismo e del Nuovo Secolo Americano, c’è assoluto bisogno di forze in grado di reggere lo scontro e di fiondarsi sul campo. La priorità di un’alternativa socialista autentica, nazionalitaria, ecologista e comunitaria, è evidente ogni anno che passa. Le forze oscure del Nuovo Ordine Mondiale stanno gettando la loro maschera democratica, per annunciare al mondo la supremazia e il completo controllo gestito dalle loro potenti oligarchie, nel più brutale dei modi.

In questo senso, è sempre più lapalissiano un modus operandi che persegue un unico obiettivo, pur dislocato su diversi piani di esecuzione: la disgregazione etnica e politica delle storiche ed assodate comunità nazionali (micro-nazionali o macro-nazionali che possano essere) va di pari passo con la diffusione di un modello sociale ed economico contraddistinto dallo sfruttamento del lavoro e dall’accentramento di immensi conglomerati apolidi e internazionali e di finanziarie che creano e distruggono, fanno e disfanno, sulla base di ricchezze inesistenti, fondate sul nulla economico. Di fronte ad autentiche tragedie sociali come quelle nelle quali versa da decenni il Terzo Mondo, o ad autentici schiavismi silenti ed invisibili, come il meccanismo del debito segretamente taciuto ai Popoli occidentali, costituito sia dal signoraggio bancario sia dalle erogazioni e dalle derivazioni del credito finanziario, la risposta delle politiche liberal di destra e di sinistra insegue un modello e, dunque, un linguaggio, creato ad arte dalle stesse stanze dei bottoni. Tante opinioni, un’unica e infame regia: produttività, competitività, guadagno, interesse, sono le sole parole che escono dalla bocca di una classe dirigente oramai alla frutta, sconfitta nel momento stesso della rinuncia ad una sovranità che, sbandierata nei suoi meri ambiti esteriori, nella sostanza viene ceduta a forze esterne e settarie. È così che nel mondo globale la realtà del Paese si pone nell’Europa delle Banche, nell’Europa dei burocrati di Bruxelles, un’Europa non Confederazione di Stati nazionali sovrani e popolari ma becero e criminoso agglomerato di istituti di credito privati che legittimano e fanno dell’usura diffusa la loro ragione di esistenza: un’entità che decide ogni mese della nostra stessa possibilità di esistenza, calando normative e convenzioni dall’alto e nel semi-anonimato, strozzando le protezioni sociali dei lavoratori europei, imponendo limiti produttivi ed importazioni, e gestendo centinaia di flussi migratori di nuovi disperati da usare come “risorsa”, come “schiavi a basso salario” del nuovo mondo omologato e livellato ai dogmi del liberismo assassino. Come uscirne? La ricetta è semplice, ma l’applicazione è fattivamente molto più difficile ed ardua. È qui che le realtà territoriali possono venirci incontro. Dimidiate ed abbandonate ad un ruolo di comprimari e figuranti, le amministrazione locali, già pesantemente inficiate da una diffusa corruzione (vedasi le speculazioni edilizie, il buco di bilancio, le infiltrazioni malavitose e “appaltopoli” nella sola Perugia), vengono a perdere di prestigio e di autorità, delegittimate e svuotate, letteralmente allontanate dai cittadini. Le potenzialità dell’ autonomia territoriale, oggi strette nella morsa della blanda fiscalità, attraverso un federalismo finto, servile e di facciata, potrebbero altresì rispondere alle più importanti necessità.


 


IN QUALI MODI ?


1. Mappando il territorio dal punto di vista edilizio e abitativo, attraverso un fondo pubblico interno all’Ente case popolari, che disponga un piano edilizio compatibile e limitato alle necessità sociali, costruendo per chi non ha casa ed espropriando a chi ha più di due abitazioni a suo carico, a partire dalla terza, e che eroghi mutui agevolati senza interesse, prevedendo assistenza regolare, legittima e gratuita per gli anziani o i diversamente abili che ne abbiano necessità.


2. Ricostruendo il settore industriale locale, attraverso una nuova e locale IRI, che gestisca in senso pubblico i settori dell’agro-alimentare e delle risorse energetiche (acqua, rete elettrica, gas ed eolico), ed in senso socializzato gli altri settori, garantendo la libertà nell’iniziativa del singolo ma vincolandola a finalità di cogestione e di redistribuzione degli utili, accorciando le filiere e tutelando l’artigianato locale e il piccolo e medio commercio.


3. Impostando un quadro di mobilità pubblica e di viabilità serio, risultante di analisi tecniche di esperti nel settore, ponendo il rispetto per l’ambiente al centro del sistema dei trasporti e delle infrastrutture, incentivando i mezzi a basso tasso inquinante e la ferrovia, potenziandone i collegamenti fondamentali nella città e verso le altre province.


4. Nominando un quadro logistico tra Comune, Magistratura, Prefettura e Polizie locali, che intervenga e reprima qualunque tentativo di infiltrazione malavitosa nella realtà del Comprensorio, bloccando l’usura, la prostituzione e lo spaccio degli stupefacenti attraverso interventi rapidi di una nuova e più efficiente polizia locale appositamente costituita secondo le più moderne tecniche di azione militare, chiusura coatta ed esproprio forzato dei locali e degli stabili coinvolti nella malavita, prevedendo processi immediati e l’espulsione immediata per i non-autoctoni colti in flagranza di reato penale o contro il patrimonio e l’immagine della Città.


5. Battendo una nuova moneta comunale popolare, a carattere territoriale, in accordo e concerto con tutte le realtà produttive del Comprensorio, sgravata da interessi e concepita come vera cambiale commisurata a produzione reale e necessità sociale, in un provvisorio regime di doppia circolazione che via, via depuri il territorio dalla circolazione della moneta sporca e debitoria chiamata Euro.


 


 


Andrea Fais 


(candidato al Consiglio Comunale per la Lista PERUGIA TRICOLORE)

domenica 17 maggio 2009

Lammer, Comici: la montagna come prova di se'.

Una delle vie conoscitive ancora disponibili per l'uomo 'differenziato' è quella alpinistica. Molti potranno trovare l'accostamento addirittura risibile, vittime di un paradigma modernista che presuppone un'invalicabile separazione tra azione fisica e azione conoscitiva. In realtà, già la conoscenza è una forma di azione o prassi mentre l'azione è la manifestazione di un sapere ad un dato livello. Solo la volgarità dell'epoca presente poteva artificiosamente separare ciò che si dà soltanto unito ed estrarre due tronconi scissi dall'unità originaria: un sapere astratto e intellettualistico, arido e privo di vita interiore, da una parte; ed una attività meccanica e parossistica, cieca e priva di ogni interiore significato, dall'altra. Nell'alpinismo alcuni spiriti tra i più nobili e avventurosi dello scorso secolo, l'epoca in cui con maggior forza si fece sentire la crisi dovuta alla dissoluzione nichilista della civiltà europea, trovarono la via di fuga da un mondo alla deriva e, al contempo, la strada maestra per un ritorno, per la congiunzione di due lembi separati che sembravano per sempre lacerati e irricomponibili: volontà e pensiero, natura e cultura, vita e trascendenza, pericolo mortale e gioia contemplativa.

Due furono a mio avviso gli interpreti di maggior spicco di questa tendenza all'azione eroica e conoscitiva in montagna tra le due guerre: il triestino Emilio Comici (1901-1940) e l'austriaco Georg Lammer (1863-1945). Quest'ultimo, si contrappose decisamente all' "alpinismo delle guide", che ancora interpretava l'alpinismo come privilegio di pochi montanari professionisti accompagnatori di turisti passivi.

L'assalto condotto da Lammer a questa mentalità fu travolgente e si accompagnò ad una pratica spregiudicata, estrema e solitaria della conquista in montagna. A differenza di un Comici, davvero un artista mediterraneo di grazia e arditezza, l'austriaco caratterizzava come una sfida superba il suo rapporto con le vette. Rey, alpinista tipico "delle guide", sosteneva: "La fatica, il modo in cui il povero essere mortale si sforza di arrivare ai monti...mi è parso sempre cosa secondaria." Al contrario, per Lammer, "la cosa secondaria fu la montagna e ciò che soltanto m'importava, fu il modo di dominarla esteriormente e di appropriarmela interiormente. No, non era la montagna che io bramavo, ma il mio sforzo a cercare la via, l'alternativa ostinata tra vittoria e sconfitta, la battaglia leale senza aiuti e assicurazioni di chiodi, il nudo pericolo." La consapevolezza anche filosofica di questi uomini eccezionali è testimoniata da frasi come questa: "Le contraddizioni e le crepe minacciose nella muraglia della nostra cultura e dell'anima moderna non dovrebbero essere cementate e intonacate, ma denudate senza pietà." E ancora: "La nostra vita odierna mi sembra come a Nietzsche sommamente pericolosa e il mio compito finora fu sempre fare del male a me stesso e agli altri, in quanto smuovo sotto i nostri piedi il sasso apparentemente sicuro."

Georg Lammer, sopravvissuto incredibilmente,a differenza di altri suoi discepoli, a numerose catastrofi in arrampicata, è considerato padre spirituale dell'alpinismo estremo e il suo libro-manifesto del 1922 Jungborn (Fontana di giovinezza), fu bollato come un classico maledetto e mai più ristampato in Italia dagli anni Trenta. Fu proprio animato dalla indomita generazione alpinistica germanica successiva alla prima guerra mondiale che prese corpo quel fenomeno affascinante e sulfureo del cinema di montagna tedesco di Arnold Franck, Louis Trenker e Leni Rifensthal, "la regista di di Hitler". Giovani nordici legati al culto della natura e forgiati nella "volontà di potenza" nicciana trovarono, nella sfida alle grandi pareti, un dovere assoluto cui consacrare le proprie più intime energie e degno persino di essere pagato con la vita. Lammer morì vecchio e di stenti negli ultimi durissimi mesi della seconda guerra mondiale. La sua eredità spirituale, che ieri fu raccolta dai "profeti del sesto grado", sopravvive forse oggi nelle grandi imprese dei potenti himalaysti contemporanei, a cominciare da Reinhold Messner.

Emilio Comici fu anch'egli un grande alpinista, un'alpinista dallo stile eccezionale ed ineguagliato: per lui l'arrampicata era una composizione ed un'opera d'arte. Mai egli la ritenne, però, separabile dall'azione 'sacra' della conquista ardita, che in lui si accendeva di una particolare veemenza erotica, di un afflato talvolta davvero mistico con la montagna-Dea.

Per Comici, lo 'sforzo' della conquista non poteva essere isolato da una commossa partecipazione estetica ed emozionale alla maestosa vastità, severa e solare, delle Vette. Comici aveva una consapevolezza profonda della sofferenza, del patimento, del lungo e rischioso assedio alla linea verticale da vincere. La sua stessa scelta di lasciare Trieste e andare vivere a Selva di Val Gardena, dove scontò amaramente una solitudine senza rimedio, fu dettata da una lucida ricerca del compimento del suo destino; che, nel caso del più grande e nobile alpinista italiano di tutti i tempi, dovette essere beffardamente ineludibile. "Noi viviamo solo di sensazioni, intese nel senso più nobile della parola. Ognuno ha le proprie, altrimenti la vita sarebbe inutile e vuota. Ma per vivere compiutamente, bisogna pure arrischiare qualche cosa. Il Duce ha insegnato così". La raccolta Alpinismo Eroico, che contiene la descrizione delle straordinarie imprese di Comici, è una lettura che testimonia la totale alterità dell'alpinismo di quei tempi rispetto al nostro, laddove ci appaiono mondi di una ingenuità cristallina pronti al sacrificio di sè per l'ideale purissimo della Vetta.

Le parole di Comici ne sono una chiara evidenza. In lui si alternano emozioni di oscurità a descrizioni di slanci, da momenti di venerazione incantata si passa ad attimi di stupore euforico tesi fino all' autentico rapimento,fino ad abissi di disperazione risuonanti di incessanti preghiere. Comici era l'uomo "gioioso quando arrampicava, malinconico in vetta", nei bivacchi notturni "parlava con le stelle".

Vittima di un amore non corrisposto decise di arruolarsi volontario in guerra ma la sua domanda fu respinta per rispetto dal Ministero. Partito con alcuni amici ed amiche per una breve e facile arrampicata sui monti vicino casa Emilio Comici si sporge da una cengia legato ad vecchio chiodo con un cordino usurato che si spezza. Muore così, il 19 ottobre 1940, neanche quarantenne, il più prodigioso talento alpinistico italiano forse di sempre.



Articolo di Mario Cecere, www.controventopg.splinder.com

PARTITO IL CONVOGLIO PER GAZA.

E' partito ieri mattina dal porto di Genova, diretto ad Alessandria d'Egitto e poi nella Striscia di Gaza assediata, il cargo della Carovana "Hope" promossa dall'European Campaign to end the siege on Gaza. Il convoglio è composto da 40 automezzi provenienti da tutta Europa (Francia, Germania, Svezia, Austria, Inghilterra, Svizzera, Grecia, Italia, Danimarca, Norvegia, ecc..) e porterà medicinali, stampelle, carrozzelle, lettighe, ambulanze - secondo una lista redatta dal ministro della Sanità di Gaza. Parallelamente, nei prossimi giorni partiranno delegazioni di parlamentari e politici europei che raggiungeranno il convoglio di automezzi davanti al valico di Rafah. Dall'Italia partiranno una decina di persone - politici, attivisti e operatori tv -, tra cui l'on. Fernando Rossi, coordinatore nazionale del Pbc - Per il bene comune- e un rappresentante della Comunità Solidarista Popoli. Dal resto dell'Europa saranno presenti un centinaio tra medici, parlamentari, attivisti. Convoglio e delegazione cercheranno di attraversare il valico per far giungere agli ospedali della Striscia il carico umanitario e per verificare le condizioni di vita della popolazione di Gaza, ancora sotto assedio da parte dell'esercito sionista. "Popoli", che ha contribuito alla raccolta di fondi da destinare alla realizzazione del convoglio, intende, attraverso il lavoro del suo rappresentante, raccogliere tutte le informazioni utili al lancio di un progetto di assistenza alla popolazione palestinese. Terremo informati i nostri sostenitori sugli sviluppi del progetto.



www.comunitapopoli.org

venerdì 15 maggio 2009

Presentazione della Lista Perugia Tricolore.


Il Comitato Perugia Tricolore, decide di prendere vita, attraverso l’incontro e la collaborazione di personalità attive e determinate, che riconoscono nei due poli politici dominanti, un unico Sistema liberale e borghese, destra-sinistra, incapace di qualunque gestione limpida ed anzi artefice dello status-quo. La totale opposizione a questo Sistema, richiede l’incompromissione e la completa pulizia etica, per un risveglio ed una rinascita sotto i vari aspetti, della nostra realtà comprensoriale. Andare a fondo e sostenere la magistratura libera nelle inchieste che coinvolgono i poteri locali, bloccare la speculazione dei pochi ai danni della comunità, impedire la proliferazione di fenomeni indegni come la criminalità, lo sfruttamento e l’usura, anche attraverso la dirompente proposta di adozione di una moneta popolare comunale (sulla linea d’onda del simec auritiano), per liberare Perugia ed il suo Popolo, dal giogo della corruzione e del malaffare.




martedì 12 maggio 2009

Perugia Tricolore.

Proponiamo l'intervista che abbiamo realizzato con Ettore Bertolini, candidato Sindaco per le prossime amministrative di Perugia con la lista "Perugia Tricolore".



Ettore Bertolini, come e perché nasce Perugia Tricolore?



Il nostro Comitato omonimo nasce come unione di personalità dalle diverse esperienze politiche ma tutte accomunate da uno stesso senso di socialità e di appartenenza alla nostra città.



La Lista viene definita come di "estrema destra", è una etichetta ideologica corretta? A quale fascia di elettori si rivolge la sua candidatura?



La parola estrema destra non ha praticamente niente a che fare con le nostre istanze. Letteralmente fa riferimento ad una presunta radicalizzazione dei temi della destra politica attuale, nei confronti della quale noi oggi per diversi aspetti siamo contrapposti. Il Capitalismo e le sue aberannti logiche sociali hanno da sempre rappresentato un nemico per le nostre battaglie, che hanno radici lontane, in grado di affondare senza alcun problema anche nel Socialismo storico. E del resto sono le stesse terminologie politiche, figlie di una semantica anacronistica e obsoleta, a non poterci più appartenere nella dimensione sociale e politica contemporanea.



Perugia Tricolore corre da sola in una competizione comunque affollata di contendenti. Quali le peculiarità della sua lista rispetto a quelle degli altri candidati?



Indubbiamente la nostra visione comunitarista per impostazione culturale medesima, e non per becera e mera convenienza elettorale, è un fattore che ci pone in assoluto contrasto con qualunque altra realtà partitica o settoriale, portatrice, che sia di destra o sia di sinistra, di interessi ristretti e parziali. Noi abbiamo un'idea organica dell'entità sociale, che ponga tutti i nostri concittadini sotto una sola bandiera, quella del nostro Grifone, per costruire una civiltà sociale nuova, all'interno della quale non ci sia più alcuno spazio per la corruzione e per l'ingiustizia, ed in cui tutti, indipendentemente dalle condizioni sociali e dalle opinioni personali, possano ritrovarsi uniti e retribuiti dei propri sacrifici quotidiani.



Sicurezza: il problema è sotto gli occhi di tutti e la questione diventa di conseguenza cavallo di battaglia di molti candidati. Qual'è la proposta di Perugia Tricolore in questo ambito?



Anche qui abbiamo la presunzione di poter avanzare una pretesa di distinzione dal resto delle formazioni in competizione: per noi la sicurezza non è di destra o di sinistra, ma è del Popolo. La sicurezza non è soltanto la salvaguardia di una strada o il controllo all'interno di un parco, ma un dimensione organica che coinvolge l'aspetto legale così come quello sociale-previdenziale e quello sanitario. Realizzare un aggiornamento delle polizie locali, incentivandone l'azione sul campo, per fermare spaccio di droga e prostituzione, deve proseguire parallelamente a riforme e cambiamenti del sistema edilizio abitativo ed occupazionale, che consentano una vita dignitosa a tutti i perugini. La sicurezza è un unico pilastro di civlità ed è la realizzazione delle basi affinchè ogni persona possa vivere e non debba sopravvivere.



Più in generale: quali sono i punti cardine della proposta di Perugia Tricolore per Palazzo dei Priori? Quali secondo lei i problemi di maggiore gravità e quali dovranno essere le priorità per il futuro Sindaco?



Anzitutto ripartire e far emergere quello che in questi anni è stato abilmente taciuto. Si è parlato di buco di bilancio, di speculazione edilizia, di t red, ma nei fatti tutto è rimasto uguale, senza che nessuno all'interno dell'amministrazione comunale abbia risposto in modo sufficiente alle accuse mosse dall'opinione pubblica. La devastazione ambientale sotto la colata cementificatrice delle imprese edili (spesso legate alle mafie) va bloccata immediatamente, così come il sistema di viabilità andrà subito rivoluzionato.



Minimetrò e riorganizzazione del trasporto pubblico, strisce blu, T-Red e relativi problemi giudiziari. Tre questioni di cui molto si è parlato negli ultimi mesi. La vostra opinione.



Come ho detto, tutto andrà rimesso a posto. Abolendo il PUM 2008, si potrà tornare al vecchio sistema di mobilità pubblica, permettendo ai perugini di scegliere attraverso un referendum in merito alla dismissione del Minimetrò. Costruito contro tutti i pareri tecnici discordanti e totalmente contrari, è sotto gli occhi di tutti la sua totale inutilità: l'ingegner Fressoia, che prima dell'incipit dei lavori, aveva bocciato totalmente il Progetto, sta vedendo confermate tutte le argomentazioni tecniche del suo rapporto. Solo con la costrizione l'amministrazione ha potuto leggermente incrementare il flusso di utenti, senza però grandi risultati, come vediamo. Il bilancio del Minimetrò è assolutamente fallimentare e sta mettendo in amabasce la Giunta che ha tentato in ogni modo di recuperare quei soldi buttati, con sistemi poco limpidi come il t red e le strisce blu. Non basteranno i lavori di bitumazione improvvisati all'ultimo momento per accaparrare qualche consenso elettorale qua e la; le strade continuano a versare in pessime condizoni così come la situazione della viabilità nelle arterie della città.



Di fronte ad un ipotetico ballottaggio che non vedesse direttamente coinvolto il candidato Ettore Bertolini, come si comporterebbe "perugia tricolore"?




Vorrei precisare a scanso di equivoci che la nostra Lista si propone in senso civico e apartitico, sotto una sigla ed una denominazione assolutamente inedita, per la prima volta nel nostro comprensorio, nell'ambito di elezioni amministrative e di carattere locale e comunale. Ribadisco la nostra totale estraneità culturale e militante ai due poli politici principali, e la nostra equidistanza dai concetti classici di destra e sinistra, specie nella loro concezione liberal-democratica e partitocratica. Resta il fatto che in caso di remoto ma pur sempre eventuale ballottaggio, la nostra Lista che viene dal popolo e lotta per il popolo, responsabilmente, dovrà necessariamente tenere in considerazione delle giuste istanze che vengono dalla gente di Perugia, la loro grande richiesta di concreto cambiamento e il segnale di discontinuità con il passato, con chi, da molti anni e con arroganza, ha mal governato la nostra città. Per cui, essendo la competizione elettorale comunale e il nostro intento primario quello di risolvere i gravi problemi che ha la nostra città, diventa, in ogni caso, politicamente doveroso, per la nostra comunità umana, razionalmente interrogarsi e lucidamente decidere sul cosa fare in caso di un ipotetico ballottaggio. Questo, per spirito di servizio e senza nessuna abiura lo dobbiamo verso la nostra città e nei confronti di chi sostiene la notra lotta, come è altrettanto opportuno rimarcare che la nostra posizione è chiaramente distante, in alcuni casi a livello nazionale pure inconciliabile, con tutti gli altri 7 soggetti politici.

Quindi è scontato che nel giudizio di merito dovrà essere tenuto in considerazione  tutto ciò che  di negativo è accaduto nel comprensorio cittadino negli ultimi cinque anni a danno di tantissimi perugini. Inoltre, ogni eventuale nostro appoggio sarà condizionato esclusivamente dalla compatibilità progettuale con il nostro programma e dall'impegno scritto da parte del candidato a sindaco che sosterremo, a realizzare alcuni punti importanti del nostro programma. Ritenendo che la cooerenzea ideologica, a livello locale, si dimostra affermando le nostre idee nei fatti, dando, senza demagogia, risposte concrete alle reali emergenze della nostra città.


SOCIALIZZAZIONE - Intervista a Rutilio Sermonti.

Matteo Cavallaro è un giovane studente della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Torino e un militante controverso di Rifondazione comunista. Per la sua tesi di laurea: Il mito della socializzazione, ha realizzato  una serie di interviste a diverse personalità di area, fra le quali Rutilio Sermonti. Nel testo che segue.



Le chiederei proprio al brucio, per iniziare, una descrizione sintetica, tre righe proprio, con giudizio, della socializzazione. La approfondiremo più avanti nell’intervista, ma serve per sottolineare da subito quali sono i caratteri per te davvero importanti di quell’esperienza.




La tua domanda introduttiva è molto opportuna, perchè coloro che scrivono e dibattono della famosa Socializzazione della R.S.I., anche se favorevoli o addirittura fanatici, lo fanno troppo spesso per sentito dire, e da ciò dipende la varietà -da te rilevata - di interpretazioni “ideologiche” di una cosa che , a studiarla seriamente, è di una inequivocabile semplicità.

Socializzare le imprese significa infatti, nè più nè meno che renderle sociali, cioè trasformarle in società. Società, in senso proprio, indica una pluralità di soggetti (soci), che si uniscono per perseguire uno scopo comune (non ho mai capito perchè si continui a chiamare retoricamente società quella degli uomini, i cui rapporti reciproci sono sempre consistiti in parte rilevante nel combattersi e accopparsi a vicenda). Qualcuno potrebbe obbiettare che anche in regime capitalistico quasi tutte le imprese (meno le artigiane) sono società. Ma direbbe una sciocchezza. Non le imprese, oggi, sono società, ma gli imprenditori, e la differenza è fondamentale. La FIAT (exempli gratia) non è una fabbrica di automobili, come il volgo pensa: è una S.p.a. proprietaria di una fabbrica di automobili. Io sono proprietario della mia pipa, ma non per questo sono una pipa, nevvero?

E veniamo all’impresa. La parola impresa, nel diritto positivo pre-bellico e in quello attuale, designa non un soggetto nè un oggetto di diritti: è la semplice indicazione dell’attività dell’imprenditore. Oggetto di diritti è l’azienda, definita ” il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” (art. 2555 cod. civ.). Essa non è quindi che una “universitas bonorum”, e può essere alienata , acquistata o locata come qualsiasi altro bene. Solo per evidenti fini comunitari, la legge stabilisce espressamente che, in caso di cessione di un’azienda, oltre che negli stabili, macchinari, giacenze, ecc., l’acquirente subentri anche nei crediti e debiti gestionali, primi tra i quali le reciproche obbligazioni esistenti coi prestatori di lavoro.

Ma, a parte questa specifica norma protettiva, i lavoratori di tutti i livelli, pur essendo parte fondamentale dell’impresa produttiva, giuridicamente non ne fanno parte. Hanno solo un rapporto esterno, di natura contrattuale, con l’imprenditore-società. Do ut des, fatica contro denaro, interesse contro interesse.

Va, a questo punto, aggiunta la considerazione che, con la generalizzazione della forma di società di capitali (anonime o a r. l.) che caratterizzò l’imprenditoria industriale sin dall’Ottocento, cessò del tutto di sussistere anche quel rapporto personale che era stato invece sostanziale tra l’artigiano e i suoi allievi. Un “grumo” di capitale, diventato imprenditore e “persona giuridica” non ha personalità umana nè affetti: solo aridi interessi. Il “rapporto di lavoro” tese quindi, naturalmente, a diventare conflittuale, con evidente discapito sia della solidarietà nazionale che della produzione.

La grande innovazione dei decreti del ‘44 consistette nel dare struttura sociale alle imprese, e quindi non ai soli imprenditori ma a tutti coloro che collaboravano al processo produttivo, creando così tra loro un interesse comune a migliorarlo e potenziarlo, che faceva passare in secondo piano i problemi di ripartizione (che, peraltro, anche il sistema corporativo “dualistico” aveva giuridicamente risolti, senza il ricorso al rozzo ricatto sindacale a base di scioperi). Quello che occorre capire, però, senza fluttuare tra le rosee nuvolette di “principi” più o meno immortali, è che, per poter “funzionare”, il nuovo sistema esigeva l’acquisizione da parte delle maestranze di una mentalità, ed anche di conoscenze, ben diverse da quelle partorite dal sistema capitalistico e dalla predicazione classista. Cose che si ottengono con un graduale tirocinio, e non con un decreto legislativo, per ben congegnato che sia.

Implicava inoltre, per legislatori saggi e responsabili, che amassero il proprio popolo più che le elucubrazioni di barbutissimi “pensatori” da scrivania, e non procedessero taurinamente sbuffando fumo dalle froge (alla maniera di Lenin), la soluzione di intricatissimi problemi di transizione da un sistema all’altro. Transizione che si doveva operare, si badi bene, senza produrre crisi produttive, il che significava, più o meno, riformare profondamente un motore, mantenendolo sempre in moto. Non era roba da poco, credo. Posso dire che era un autentico prodigio? Tali precisazioni iniziali contengono in nuce, come acutamente hai intuito, tutte le affermazioni che seguiranno.



L’esperienza della socializzazione è a suo dire un patrimonio condiviso da tutta la c.d. “Area”? Sarebbe interessante, se se la sentisse, distinguere tra l’eredità come “immaginario” e l’eredità come “posizione politica”. Quanti cioè la portano “nel cuore” di militanti come uno splendido passato, ma appunto passato, e quanti invece la ripropongono in chiave presente e futura?



Fai bene a distinguere, per quanto riguarda il versante politico cui appartengo, tra socializzazione mitica e socializzazione metodo e criterio operativo. Solo che la prima, con tutti i suoi vezzosi svolazzi utopici, è solo un effetto del comune vizio di “dibattere” su cose di cui non si ha adeguata conoscenza. Ma è un vizio umano innato, molto più antico che i concetti (per me, assai fumosi) di “destra” e “sinistra”, tanto che persino il Corano, quindici secoli addietro, ammoniva: ” Vi siete messi a disquisire su temi di cui eravate a conoscenza, e va bene. Ma perchè vi inoltrate nella discussione di cose di cui siete digiuni ?” (Sura III, 46). Non si tratta di storicizzarla o attualizzarla, la socializzazione delle imprese. Si tratta di studiarla e comprenderla o di acchiappare farfalle.



Quanto è importante nell’immaginario politica d’area il ricordo di questo evento? E quanto nel suo?



“Immaginario politico” è espressione che credo si attagli solo ai cacciatori di farfalle sopra detti. Per me e quelli come me, la socializzazione promulgata e posta in attuazione in R.S.I., come le continue riforme precedenti, non fanno parte di alcun “immaginario”. Sono state cose molto serie, attentamente ponderate da gente estremamente qualificata e attuate col più rigoroso realismo. E con realismo ancora maggiore vanno considerate oggi, in rapporto a una realtà circostante e ad una problematica grandemente diversa da quella in cui furono concepite.



A suo dire questa eredità come si è trasmessa? Più in forma scritta o in forma orale? Più per immagini e suggestioni o attraverso analisi e ricerche?



Si è trasmessa certamente più per immagini e suggestioni, e questo è il guaio a cui io - ed altri meglio di me- cerchiamo in ogni modo di porre rimedio. E, devo dire, non del tutto invano, soprattutto dopo il decesso del’equivoco MSI-DN, che alla formazione dei militanti non dedicò mai la dovuta attenzione.

Nel mio lavoro io parto sostenendo l’idea che la socializzazione, più che come progetto politico, sia passato come “mito” nella c.d. “Destra Radicale”. Tradotto: questa è più il “sogno” di uno stupendo passato, che un ‘obbiettivo per il presente o per il futuro.



Più, ricollegandomi alla domanda prima, una suggestione che un progetto. Si sente di condividere questa mia analisi? In cosa a suo dire pecca o va approfondita?



Anche con questa domanda, mi sembra, tu alludi chiaramente a quella che ho definita socializzazione-mito, che ha ben poco a che fare con quella storica, e ancor meno con quella progettuale. E’ solo effetto della confusione mentale di alcuni bravi ragazzi, che accettano addirittura la ridicola definizione di “destra radicale” e credono di poter combattere il balordo sistema che sta liquidando il poco che resta della nostra Italia, accettandone inconsciamente categorie e parametri. Per fortuna, la loro buona fede, il loro coraggio e il loro intenso desiderio di apprendere (di cui ho ogni giorno testimonianza) sono per me molto incoraggianti.



Per concludere questa parte molto generale, se mi dovesse consigliare due testi, qualsiasi, su questa esperienza, quali sceglieresti?



Testi assolutamente indispensabili sono i decreti legislativi del Duce 22 febbraio 1944, n°375 (istituitivo) e 24.6.1944, n°384 (entrata in vigore), ambo sulla G.U. 151 del 30 giugno succ., e il decreto ministeriale 12 ottobre 1944, n° 861 (norme di attuazione). La serietà , profondità e accuratezza di detti strumenti legislativi non è certo compatibile con l’opinione che la socializzazione sia stata un semplice e abborracciato espediente propagandistico. Quanto ai commenti, allora e in seguito, c’è un vero profluvio di saggi e articoli, alcuni dei quali di alto pregio, ma non mi consta l’esistenza di libri interamente dedicati alla socializzazione. Ciò dipende chiaramente dal fatto che, nel 1944-45, i fascisti repubblicani avevano ben altro da fare che scrivere libri, ed è già mirabile che abbiano trovato la concentrazione necessaria per giungere alle leggi sopra menzionate; e dopo la cosiddetta liberazione la grande editoria si è messa tutta, allineata e coperta, al servizio dei vincitori. Ma dipende anche dalla oggettiva impossibilità di trattare della socializzazione come fatto a sè, avulso da tutta la complessa realtà che fu il fascismo e la sua globale politica socio-economica. Ciò equivarrebbe solo a fraintenderla. Di qualche utilità potrebbe essere il mio Stato Organico (Settimo Sigillo, Roma, 2003), in cui, appunto, tento di collocare la socializzazione nella concezione fascista dello Stato. Per i saggi, sono da segnalare riviste come L’Uomo Libero (Milano), Italicum (Roma), Heliodromos

(Catania), Ordine Nuovo (Roma), L’Officina (Roma), e i “Quaderni di Raido” (Roma).



Approfondiamo ora il discorso sulla socializzazione in senso storico. Siamo nel 1944, c’è la guerra, la RSI, il difficile rapporto con i tedeschi. Viene tuttavia deciso, in questo clima di incertezza e anche un po’ di scoramento di varare il decreto sulla socializzazione? Perché secondo lei? Motivi propagandistici, la voglia di lasciare un testamento, l’idea che la vittoria passasse dal fare un passo aggiuntivo nella “rivoluzione fascista”?



Il motivo fu la certezza, nel Duce come in tutti noi, che il Fascismo fosse l’unica soluzione possibile e secondo natura dei tremendi problemi creati dalle aberrazioni della “modernità”. La sconfitta militare incombente ci appariva quindi come una disgrazia di percorso, che avrebbe solo aggravato quei problemi, ma non avrebbe evitato al capitalismo (privato e di Stato, coalizzati contro di noi) il fallimento, e quindi il mondo avrebbe avuto ancora bisogno (come previde espressamente Mussolini) delle concezioni e dei metodi fascisti, per risollevarsi. Occorreva quindi procedere sino all’ultimo sulla via intrapresa nel 1919, non tanto per “lasciare un testamento”, come tu scrivi, quanto per additare, già parzialmente sperimentato, il successivo passo da compiere. E non puoi negare che- per quanto attiene all’afflosciamento “spontaneo” e inevitabile dei due capitalismi, la nostra previsione fosse azzeccata, anche se in tempi più lunghi dell’allora pensabile, per la tediosa sceneggiata della “guerra fredda” e per la inedita possibilità di narcosi di massa data dalla mai abbastanza maledetta televisione.



Per quale motivo non vi si è arrivati prima ? Non è forse stato un provvedimento “tardivo”?



La domanda mi meraviglia davvero, posta da te, che il fascismo-regime l’hai sentito solo raccontare (malamernte), ma hai bene sperimentato i tempi della legislazione “democratica”. Per rinnovare completamente dalle radici un complesso e articolato sistema, consolidatosi in due secoli negli istituti e nelle coscienze, e, per giunta ( come ho già detto) senza arrestarne il funzionamento, il regime fascista ha avuto a disposizione 15 anni (1925-1940), inframmezzati da due guerre vittoriose (Etiopia e Spagna) e da spietate sanzioni economiche, più altri 5 impegnato allo spasimo in un gigantesco conflitto, nella seconda fase del quale col territorio nazionale progressivamente invaso dal nemico e con gentili connazionali dediti a sparare alle spalle. Si aggiunga che canone fondamentale della rivoluzione fascista fu sempre quello della gradualità, sia per non provocare tragiche crisi, sia perchè innovazioni veramente profonde non possono realizzarsi tirando colpacci all’impazzata (alla maniera bolscevica), ma solo dando modo alla “forma mentis” popolare di evolversi nella direzione voluta. Ora, in vent’anni di cosiddetta pace, i democratici e strapagati legislatori rappresentanti dei partiti sono a mala pena capaci di “partorire”, a base di quinquies e di sexies, il ritocco di qualche articolo di una legge preesistente, consistente regolarmente nello scimmiottamento di norme anglosassoni. Vent’anni addietro, considera, si era nel 1988. Quali “passi” sono stati compiuti? Quali “sviluppi” conseguiti ? Solo negli stipendi da nababbi degli Onorevoli Parlamentari. Per il resto: ZERO: passi indietro e peggioramenti. In compenso, l’economia nazionale è stata ridotta al fallimento, l’agricoltura giustiziata e le “conquiste” del rampante sindacalismo classista vanificate. Esagero, forse ? Non esiste forse un piagnisteo generale? Ed ecco gli antifascisti, e anche solo i non-fascisti come te, rimproverare al passato regime, che sbalordì il mondo per la sua fattività, addirittura la pigrizia ! Evidentemente - devo freudianamente pensare - essi nutrono per il deprecato fascismo una inconscia e latente ammirazione, superiore perfino ai suoi meriti, tale da ritenerlo capace di miracoli a petto ai quali quelli attribuiti a Gesù Cristo sarebbero giochetti da dilettante.



Una domanda se vogliamo banale e scontata: la socializzazione fu una rottura rispetto al corporativismo? O ne fu la legittima continuazione?



Non so perchè tu voglia definire la tua domanda “banale e scontata”. Al contrario: è domanda essenziale, per “pulirsi gli occhiali” dell’indagine storica; tanto che, praticamente, intorno ad essa ruota tutta la presente intervista. Infatti ad essa, in parte, ho già implicitamente risposto, e certamente dovrò tornarci in prosieguo. Chi parla di “rottura”, ovvero di svolta, di resipiscenza, o magari di ritorno a non si sa quali “origini”, può farlo solo per mancanza d’informazione, per superficialità o per partito preso, tanto è evidente e palmare che la socializzazione del 1944 non è che corporativismo puro e distillato, e corporativismo è sinonimo di fascismo, per chi, come me, non ammette separazione tra politica ed economia. Per non essere apodittico in simile affermazione, dovrò dilungarmi in questa risposta più che nelle altre. Ti prego di seguirmi nel mio lineare percorso “transcorporativo”, promettendo la massima possibile concisione:



1^ Fase - Ordinamento sindacale di diritto (Legge 3 aprile 1926, n° 563) Con essa, alle associazioni sindacali riconosciute, sia di imprenditori che di lavoratori, veniva affidata la delicata pubblica funzione di stabilire d’accordo, con effetto legislativo (valide erga omnes) quelle condizioni di lavoro e di retribuzione che erano oggetto di ultrasecolari conflitti. Condizioni per il riconoscimento: l’impegno a subordinare gli interessi di parte a quelli superiori dell’economia nazionale, unitariamente intesa. Nei casi (di fatto, rarissimi) in cui l’accordo non si raggiungesse, era approntata (come una civiltà esige per tutte le controversie) la soluzione giurisdizionale, davanti a una Corte mista di togati e tecnici (la Magistratura del Lavoro)che, udite le ragioni delle parti e considerata la situazione economica del momento, emetteva una sentenza tenente luogo del c.c.l.. Sistema, quello, certamente migliore della tutela attraverso scioperi che, oltre a danneggiare sia la produzione che la pace sociale, non sono che un “braccio di ferro”, e quindi assicurano la vittoria del più forte, non del giusto.



2^ fase: Carta del Lavoro. Emessa il 21 aprile 1927 come dichiarazione programmatica del P.N.F. e divenuta legge dello Stato solo 13 anni più tardi. Importante perchè sanziona solennemente che sia il lavoro in tutte le sue forme (dich. II) che l’iniziativa privata nel campo della produzione (dich. VII) sono doveri e funzioni nazionali, da regolarsi e tutelarsi dallo Stato come tali. Il lavoro è quindi uno strumento della nazione (come anche il capitale), non uno strumento del capitale, come oggi.



3^ fase .Le corporazioni.(Legge fondamentale 3.2.1934, n°136). Erano organi dello Stato, stabiliti per rami produttivi e tutori delle esigenze di essi. Ma erano composte pariteticamente di rappresentanti delle associazioni sindacali (delle due “parti”) interessate al ramo. Loro compito principale (oltre quello di mediazione nelle controversie sindacali) era il controllo della conduzione economica, e il loro Consiglio Nazionale era l’autore di quella programmazione economica unitaria che fu preclara caratteristica del fascismo, e che gli permise, nel 1935-36, di affrontare e sconfiggere quelle pesanti sanzioni economiche, decretatele dalla S.d.N. per volontà brtitannica, che oggi metterebbero l’Italiucola che ci è concessa in ginocchio in tre giorni. Rappresentanti dei lavoratori venivano così quindi a formulare, alla pari con l’imprenditoria, quelle direttive produttive a cui tutte le imprese erano tenute a ottemperare.

L’esaltazione e responsabilizzazione del “fattore lavoro” aveva fatto un bel balzo avanti.



4^ fase- La riforma della rappresentanza politica. (Legge 19 gennaio 1939, n°129 ). Fu il deciso passaggio alla “rappresentanza organica”, e cioè per funzioni e non per consenso generico non qualificato. Per il problema che ci occupa, i Consiglieri Nazionali (che subentravano ai “deputati” (e non si chiamavano onorevoli) erano composti per la metà dai membri del Consiglio Nazionale delle Corporazioni. Significa che i rappresentanti dei lavoratori sedevano come tali e perchè tali, nel massimo organo legislativo. Così ,nel diritto pubblico, qualsiasi subordinazione del lavoro al capitale era definitivamente cancellata.

Restava il diritto privato (commerciale), che riservava ancora all’imprenditore (anche se persona soltanto giuridica) la conduzione dell’impresa, pur con le limitazioni e condizioni sopra accennate. E non v’è dubbio che immettere le maestranze anche nella gestione aziendale era il passo più rischioso. Tale immissione -devo aprire una parentesi- era già prevista nel programma fascista del 1921. ma, con il realismo che sempre ispirò Mussolini, vi si aggiungeva “(lavoratori) che ne siano moralmente e tecnicamente degni”. Non erano parole al vento: una tale “dignità” (potremmo parlare di maturità) era requisito rigorosamente indispensabile. Perchè (è bene strano che i “dibattenti” non ci pensino ), l’imprenditore, che impiega la massima parte dei profitti in reinvestimenti, nell’impresa o altrove, può anche subire perdite, ma il lavoratore, che la sua parte di “utili” li impiega per mantenere sè e la famiglia, perdite non ne può subire. Un minimo di reddito decoroso gli deve essere in ogni caso assicurato. O no ? Quindi, se il rischio d’impresa vale a rendere “prudente” un imprenditore che non sia un imbecille, per il lavoratore partecipante alla gestione senza rischio, la prudenza può derivare solo da un bene sviluppato senso di responsabilità e di consapevolezza. Quindici anni di corporativismo erano bastati a conseguire un simile risultato? Questo era il problema, altro che farsi prendere da coliche ideologiche! Io penso che fossero quasi bastati, ma non del tutto, e che la fase socializzatrice, sia stata un pò anticipata (per motivi ben comprensibili), e non ritardata, come pensano i rivoluzionari da redazione, col peperoncino sotto la coda. Si cominciò, comunque, a portare la rivoluzione anche all’interno delle aziende, con la

5^ fase- La riforma dei codici civili del 1940. ( Legge 3 gennaio 1941, n° 14) E’ veramente singolare che nessuno dei commentatori vi faccia riferimento, quasi che l’idea della socializzazione fosse un grillo saltato per il capo a Mussolini mentre volava via con Skorzeni da Campo Imperatore. Eppure, in quel codice, c’era già mezza socializzazione. Già significativa è la soppressione del Codice di commercio e l’incorporazione delle norme dell’attività economica nel Codice Civile, ad affermazione del criterio unico (civico ed economico) che deve presiedere anche all’attività produttiva, contrariamente alla pretesa capitalistica della c.d. “economia di mercato”. Ciò esige la gestione da parte degli uomini, che, a differenza del capitale apolide, sono insieme singulus e civis. Vi troviamo poi l’imprenditore (o chi lo rappresenta, se anonimo) definito “capo” dell’impresa, e non più titolare o padrone, e il rapporto con lui definito “gerarchico” e “di collaborazione”, come quello di un comandante militare, che persegue lo stesso scopo e porta le stesse “stellette” del soldato. Vi troviamo la responsabilità dell’imprenditore verso lo Stato per la sua conduzione dell’impresa, e vi troviamo persino la espressa previsione di una retribuzione anche totale, con partecipazione agli utili. Già nel 1940, il regime era quindi sulla soglia della socializzazione, e attendeva solo l’ultima “maturazione” delle coscienze per compiere il gran passo. E’ quindi evidente , come ho premesso, che la socializzazione è stata solo l’ultima fase di un percorso che era tutto nel DNA (si direbbe oggi) del fascismo, e che, semmai, essa è stata leggermente anticipata, non ritardata.



Dopo il decreto nella RSI ci sono stati altri esempi nel mondo simili o almeno paragonabili ad esso? Penso a possibili somiglianze con alcuni aspetti del capitalismo renano o con l’importanza della CGT nel regime peronista. Quali differenze strutturali e strategiche vede tra questi progetti?



A parte il regime peronista, notoriamente ispirato al fascismo italiano, non mi risulta. La rassomiglianza con qualche singola norma (per esempio nei vari tentativi di azionariato operaio, o addirittura nel new deals rooseveltiano) non è che esteriore e occasionale, in assenza della “Weltanschauung” fascista, che conferisce alla riforma una finalità completamente diversa.



Da cosa “nasce” invece la scelta socializzatrice? Quali strumenti di analisi e quali fini vede dietro a quel decreto? Giustizia sociale e analisi “di classe”? Il passo successivo verso la costruzione di una “società organica”?



La domanda mi offre il destro di precisare il concetto precedente. Lo scopo della socializzazione della R.S.I. non aveva infatti nulla a che fare col fumosissimo concetto di “giustizia sociale”, passepartout di tutte le demagogie, ed era proprio precisamente “il passo successivo verso la costruzione di una società organica”, secondo la tua felice espressione. Ricordando che un “organismo” non è che una pluralità di parti, diverse e con diverse funzioni, ma tutte necessarie e interdipendenti, ed è proprio il paradigma con cui l’ineguagliabile maestra che è la natura ci addita l’unico metodo per fare ex pluribus, unum. E quale, se non quello, è lo scopo della politica, intesa come scienza ?



In cosa si differenziò maggiormente dal normale sistema capitalistico? Rispetto ad esso fu una riforma delle sue storture o una vera e propria rivoluzione?



Credo, dopo quanto ho detto, superfluo aggiungere parole per dimostrare che il sistema capitalistico ( che, non so perché, definisci “normale”, dato che è il colmo dell’anormalità), è l’opposto diametrale di quello corporativo, e della socializzazione in particolare. E un suo carattere precipuo è che le sue “storture” non possono essere riformate, in quanto dipendono dalla sua più intima essenza. Deve solo essere del tutto soppresso, nella sua glaciale demenza, nelle sue premesse “filosofiche” e nei suoi pseudo-valori; e tale era appunto l’obbiettivo del fascismo



Ed in cosa dagli esempi di socialismo che si sono succeduti nella storia contemporanea?



A mio avviso, la catalogazione del fascismo come una forma di socialismo, sia pure “corretto” dall’aggettivo “nazionale”, è uno dei maggiori abbagli in cui abbiano incappato, nelle loro sistemazioni concettuali, anche molti sinceri fascisti. Innanzi tutto, se si esclude il socialismo marxista, ben delineato in poderosi sacri testi, non mi è mai stato chiaro che cosa sia il “socialismo in genere”, salvo uno spontaneo moto dell’animo in favore degli umili e degli oppressi, che non ha nulla di sistematico, e quindi di paragonabile con nessuna dottrina politica. Ora, considerando il socialismo “codificato”, sia nella versione “scientifica” che in quella pragmatica e “realizzata”, il corporativismo (socializzazione inclusa) mi appare come esattamente l’opposto. Oltre il fatto che il socialismo nega la nazione, che il fascismo pone invece al centro: il socialismo è materialista, mentre il fascismo è spiritualista. Il primo è determinista, mentre il secondo è volontarista (siamo noi che facciamo la società, non la società che fa noi). Il primo avversa e il secondo favorisce l’iniziativa privata. Il primo avversa la proprietà privata e il secondo le conferisce una funzione sociale. Il primo ravvisa nei “rapporti di produzione”il motore del divenire storico, mentre il secondo li ritiene solo uno, e non il prevalente, dei fattori di esso. Il primo condivide i valori delle rivoluzioni massoniche americana e francese di fine Settecento, mentre il secondo espressamente li nega e li supera. E, in fine, il primo è un’ideologia codificata, mentre il secondo è un modo di essere, che si trasfonde in un metodo, ma nega qualsiasi prefigurazione ideologica dell’avvenire. Quale altra analogia si trovi tra i due, a parte l’assonanza di certe parole, rimane per me un mistero. E altrettanto per i socialisti, che infatti sono stati sempre i più feroci avversari del fascismo, e, all’atto della “liberazione” (anzi, una settimana prima) si sono precipitati ad abrogare, come primo atto di imperio, le norme sulla socializzazione. Ecco perchè, a fare lo spasimante respinto dei socialisti, non mi ci vedo proprio!



Come vede il rapporto tra socializzazione e stato? Come si collegano, come si influenzano, cosa legittima cosa..



E’ un rapporto ben precisamente stabilito. La funzione economica essendo una funzione pubblica, il Capo dell’impresa risponde della gestione di essa davanti allo Stato, che rappresenta, nella concezione fascista-corporativa, le esigenze globali della nazione. Nei casi-limite, era previsto addirittura il commissariamento! La dich. 1^ della Carta del lavoro non consente dubbi; e il decreto del Duce 22 feb. 1944 inizia con le parole: “Vista la Carta del Lavoro”.



Passiamo al post- Salò. Cosa successe alla socializzazione? Chi continuò a portare avanti la bandiera della socializzazione?



Le vicende della socializzazione nell’Italia “liberata”, oggi poco note, sono quanto mai significative. Partendo dal ricordato decreto abrogativo del C.L.N.A.I. (che, in realtà, abrogava ben poco, e si limitava a ficcare i propri scagnozzi “provvisoriamente” nei consigli di gestione, in luogo di quelli eletti dalle maestranze, in attesa di elezioni “libere”(?) che non avvenero mai), il primo passo, e non da poco, fu quello di rendere la partecipazione operaia meramente consultiva. Non passò, però, un anno, che anche gli imprenditori che avevano fatto la “concessione” dichiararono fallito l’esperimento e si tirarono indietro.Nasceva intanto, ad opera dei sindacati “rossi”, un Comitato Coordinatore dei Consigli di Gestione, che però coordinava melanconicamente solo la componente meramente consultiva dei medesimi, e ne creava anche dei nuovi, che la controparte industriale ostentatamente ignorava del tutto. Il Comitato e i partiti di “sinistra” retrostanti presero però ad esercitare forti pressioni sul governo (Parri e poi De Gasperi) per ottenere una legge che ripristinasse l’abrogata (da loro) cogestione, e, cedendo ad essa, furono elaborati i due progetti (poi unificati) D’Aragona e Morandi. Fin dalle prime avvisaglie (una promessa verbale fatta ai Comitati dal Morandi, socialista, il 5,8.1946), si scatenò da parte confindustriale ( pres. Costa, che già aveva messo le mani avanti con una lettera a De Gasperi già del 21.9.1945 !) che da parte delle singole Unioni e Federazioni, un vero tornado di vivacissime obiezioni, quasi sempre molto ampie, documentate e motivate, per scongiurare la iattura. E il sottoscritto che, pur non potendo essere sospettato di simpatie per il capitalismo, le ha lette tutte (un centinaio) deve riconoscere che erano molto più ragionevoli che le sparate demagogiche di “parte lavoratrice”. Il Leitmotiv era che una legge come quella richiesta avrebbe semplicemente trasferito la lotta di classe anche nelle gestioni aziendali, con quale pregiudizio per la ripresa economica era facile immaginare. Intanto, l’11.X 1946, anche la III sottocommissione della Costituente aveva redatto una norma generica, molto simile al poi approvato art. 46 (solo che usava la parola “partecipazione”, prudentemente poi sostituita con la meno impegnativa “collaborazione”). Comunque, la promessa Morandi fece la fine di tutte le promesse “democratiche”, e i progetti compartecipativi antifascisti non andarono oltre la vaga e non precettiva formuletta embrionale del prefato art. 46 Co., che fu prontamente posta sotto formalina, in un barattolo, sul polveroso scaffale su cui da sessant’anni riposa in pace, amen.



Quale era la posizione dell’MSI sulla socializzazione? Quale invece quella di Ordine Nuovo?



La posizione di Ordine Nuovo, di cui l’esponente per i temi economico-sociali ero io, è stata esattamente quella esposta in questa intervista. Quella del MSI, purtroppo, non è mai esistita, pur circolandone tra i suoi aderenti svariate versioni. Il partito, come tale non ha fatto che adornarsi con la socializzazione-mito di cui dicevo all’inizio. Era troppo occupato a contare voti e preferenze per occuparsi di certe bazzecole.



Al di fuori di ON invece come era la situazione? Gli altri gruppi politici come si ponevano al riguardo di questo tema? Riusciresti a farmi un quadro riassuntivo delle posizioni?



No, non ci riuscirei. E’ che le “posizioni” degli altri gruppi politici, oltre ad essere quanto mai evanescenti e fluttuanti (ormai, ad esempio, non si capisce più in che si differenzino) non sono che pietosi grembiulini per coprire la squallida brama di potere e di privilegi: esche per la pesca dei gonzi. Sono, quelle formazioni, i dichiarati eredi ed allievi degli sciagurati che vinsero la guerra che l’Italia ha rovinosamente perduta. Nei loro confronti, in me, la nausea è più forte persino della curiosità.



Le capitò mai di parlare dell’argomento socializzazione con esponenti “antifascisti”? Con che risposte?



Quanto detto per gli “altri gruppi politici” (tutti antifascisti d.o.c.!) vale anche per i loro “esponenti”. Parlo volentieri coi non fascisti, soprattutto se intelligenti come te, ma la mia opinione sugli “esponenti antifascisti”, di recente o vecchia data, è tale da dissuadermi dal perdere un solo minuto a conversare con loro.



Per concludere, lavoro e capitale sono per lei termini antitetici? O termini che si completano a vicenda?



Giunti a questo punto delle mie “confessioni”, la risposta al tuo quesito riassuntivo è addirittura pleonastica. Lavoro e capitale non possono essere antitetici, in quanto ambedue indispensabili per il risultato produttivo. Ma il sano rapporto tra di essi è che sia il capitale uno strumento del lavoro, e non viceversa. Che sia l’Uomo a usare il denaro e non il denaro a usare l’Uomo: questo è il succo.



da: www.mirorenzaglia.org

domenica 10 maggio 2009

Sempre più occhi...

L’idea di un’azienda norvegese



Il calabrone-spia che gironzola nell’ufficio



Il “PD-100 Black Hornet” è un mini-elicottero, di pochi centimetri, dotato di telecamera



MILANO - Questo elicotterino potrebbe diventare il nuovo giochino preferito del vostro capoufficio: minuscolo, maneggevole e silenzioso. Semplicemente perfetto per un controllo discreto dei dipendenti al lavoro. Questa, perlomeno, è l’idea dell’azienda norvegese che intende commercializzare il futuristico prototipo volante e radiocomandato. Il “PD-100 Black Hornet” è il più piccolo elicottero al mondo equipaggiato con microtelecamera nella pancia. Nel filmato promozionale della “Prox Dynamics” il mini-velivolo svolazza per i corridoi e nelle stanze di un ufficio senza farsi notare.



MOTORE ELETTRICO - È stabile e resiste pure ai colpi di vento; non sia mai che un dipendente apra improvvisamente la finestra. All’esterno il profilo del “calabrone nero” è talmente sottile che, già a pochi metri d’altezza, si confonde nel paesaggio. È azionato da un micro motore elettrico ed è grande appena 10 centimetri. Pesa 15 grammi, raggiunge le 20 miglia all’ora ed ha un’autonomia di volo di 15 minuti. Oltre a fungere da potenziale “spia” da ufficio è pensabile un suo utilizzo anche per il controllo del traffico e, soprattutto, per missioni di sicurezza o militari.



Da: www.corriere.it

giovedì 7 maggio 2009

Campo a Terranuova Bracciolini [Recensione]

Per la prima volta nella storia dell’Istituto Storico della R.S.I. si è svolto un “Campo d’Istruzione e di FormAzione” rivolto a giovani militanti (e non) che da più parti d’Italia hanno deciso di impegnarsi in questa tre giorni di approfondimento, lavoro e confronto cameratesco. Per questo, l’occasione di quest’anno si è rivelata per molti versi una scoperta del tutto inaspettata, rispetto a quanto già fatto in passato all’Istituto. Felice scoperta di tante realtà che - seppur divise da centinaia di chilometri (Monza, Catanzaro, Trieste, Roma…) e in molti casi senza conoscersi a fondo - si sono ritrovate insieme, nella condivisione degli stessi ideali e valori.



L’Istituto Storico della R.S.I. è così diventato per vecchi e nuovi frequentatori un momento per ricaricare le batterie: non quelle del corpo – sebbene riposo e cibo non siano mai mancati – ma quelle del cuore… quelle batterie che il mondo moderno con i suoi ritmi frenetici e le sue menzogne scarica ed insabbia nella monotonia della quotidianità.



In tal modo, questo 1° Campo d’Istruzione e di FormAzione dell’Istituto Storico è stato veramente l’occasione giusta per liberarsi una volta tanto dalle catene borghesi del mondo, e per fermarci a riscoprire veramente chi siamo, ritrovando il senso delle nostre “origini”. Così il confronto cameratesco, l’approfondimento culturale e la riflessione sull’esempio dei caduti della R.S.I., insieme alle ore spese nel lavoro comunitario, sono state tutte tese a dare risposta ad una domanda: come possiamo noi far rivivere in una società così meschina l’eroismo dei nostri padri? Com’è possibile traghettare i valori, gli esempi, dei combattenti dell’onore fino a noi: militanti del terzo millennio?



Nel dare una risposta concreta e militante a questa domanda si è sviluppato il nostro Campo: infatti alle vane parole abbiamo deciso di sostituire una più sana “oratoria dei fatti”, come nell’insegnamento del Capitano Codreanu.



La mattina, dopo la sveglia alle 7:30, fatta colazione tutti insieme, si parte subito col lavoro. Qualche pulizia qua e là, una verniciata a qualche porta un po’ precaria e si parte… giorno dopo giorno ci siamo accorti come lavorare insieme ci abbia reso tutti più uniti ed allo stesso tempo tutti partecipi di una comune “casa” – l’Istituto – ove ognuno, nella misura in cui ha potuto, ha dato il proprio contributo.



Dopo il lavoro mattutino, seguito dall’ottimo “rancio” preparato dai nostri camerati in cucina, nuovamente qualche ora di lavoro fino alle 17:00 in cui, lasciati gli arnesi da lavoro, si è passati alle conferenze. Conferenze non per intellettuali né accademici, ma per uomini e donne che alle belle parole preferiscono il contributo di relatori “militanti” che come tali hanno parlato, faccia a faccia, a militanti. Così le conferenze di questo Campo, seppur apparentemente diverse nei temi trattati – dalla ricerca storica revisionista, fino all’etica guerriera – sono state tutte legate da una comune finalità: proiettare l’eroismo nel presente partendo dall’esperienza e dalle gesta del passato ma, col pensiero rivolto al futuro.



Da: www.azionetradizionale.com

La grande rapina.

Per buona parte della sua esistenza la Banca d’Italia ha vissuto di una contraddizione. Quella di essere stata creata per perseguire un interesse pubblico e allo stesso tempo di essere stata lasciata piuttosto libera al suo interno di organizzarsi e di scegliersi il proprio Governatore. Costui era indicato dai governi in una personalità che doveva però riscuotere il gradimento della struttura di Via Nazionale della quale il più delle volte faceva parte.

Ad eleggere poi il Governatore provvedevano gli azionisti dell’Istituto, gruppi bancari, assicurativi e di previdenza, la gran parte dei quali, essendo pubblici, riflettevano la volontà dell’esecutivo pur tenendo conto degli equilibri che si erano venuti a creare nel mondo dell’economia e della finanza italiana e internazionale. Oggi le cose sono cambiate e se un Carlo Azeglio Ciampi è stato nominato con il voto delle banche pubbliche, Mario Draghi, indicato dal governo Berlusconi, è stato messo sulla plancia di comando (il riferimento al Britannia è voluto) dal voto di quelle stesse banche che nel frattempo sono state privatizzate.

Il cambiamento non è stato da poco perché con la privatizzazione, e a costo zero, è stato realizzato il trasferimento puro e semplice ad un soggetto privato di quelle quote azionarie della Banca d’Italia, già controllate indirettamente dallo Stato attraverso il Tesoro. Di conseguenza quello che era un soggetto pubblico, pensato per perseguire interessi pubblici come la difesa del valore di cambio e una sana circolazione monetaria, è stato trasformato di fatto in un organismo privato i cui proprietari sono le banche private. Giulio Tremonti in un suo provvedimento divenuto legge dello Stato aveva previsto che entro il gennaio scorso le azioni della Banca d’Italia tornassero ad un soggetto pubblico, quindi allo stesso Tesoro o a qualche altro ente.

Poi il meccanismo si è interrotto per il mancato accordo sulla cifra che lo Stato avrebbe dovuto (indebitamente) sborsare per riappropriarsi di ciò che era suo. La soluzione più giusta e più logica sarebbe stata e continua ad essere il ritorno puro e semplice, e soprattutto gratuito, di quelle azioni sotto il controllo dello Stato.

Le banche da questo orecchio non ci sentono. E alcune, per fare cassa, già pensano di rivendere la propria quota (42,6%) come ha anticipato il presidente di Intesa-San Paolo. Senza alcun diritto.

Altre pensano invece di rivalutare le azioni di Via Nazionale che si ritrovano in portafoglio. A causa degli investimenti sbagliati e delle proprie speculazioni molte si trovano infatti con bilanci patrimoniali quanto mai disastrati. E cosa c’è di meglio che giocare con le voci di bilancio?

Non è neanche peregrino il rischio di ritrovarsi con una Banca d’Italia... controllata da stranieri. La francese Bnp, proprietaria della Bnl, già è in possesso di oltre un 2% delle quote (e dei voti).

Abbiamo già perso la sovranità monetaria con il passaggio di poteri alla Bce e l’introduzione dell’euro. Perdere anche il controllo di Via Nazionale sarebbe il segno che non ci rimane proprio più nulla.



Articolo di Andrea Angelini, tratto da www.rinascita.info

L'altro Guevara.

Avventuriero anticapitale. Il Che piaceva a destra. Ernesto Guevara de la Serna, presente!



Ernesto Guevara de la Serna, presente! Sulle prime potrebbe sembrare una scena tratta dal film “Fascisti su Marte”, del ritocco di un file o semplicemente di uno scherzo.



Che infervorati no global portino, tatuati sul braccio, effigi di Ernesto Che Guevara non stupisce nessuno. Che alle manifestazioni della Cgil sfilino bandiere rosse con sopra riprodotto il volto del guerrigliero argentino sembra lapalissiano. Ma il mito del rivoluzionario argentino riecheggia su lidi inattesi. Molti risponderebbero che è ovvio, basta guardarsi in giro. Il Che è diventato uno strumento di marketing e di commercio: magliette, spille, collezionabili da edicola, libri, Dvd…



Casi per niente isolati



Insospettabile forse che nell’altra metà del cielo, quello nero, molti cuori abbiano palpitato e ancora palpitino per il guerrigliero argentino. Tra i neofascisti, i nazionalrivoluzionari e i fascisti rossi la figura di questo compagno tanto amato a sinistra, suscita entusiasmi inattesi. E non dell’ultima ora, adesso che il gusto per il postfascismo o per i ripensamenti diventano moneta corrente.



Nell’ammirazione neofascista del Che si canta il gusto dell’avventura, le scelte dettate dallo stile piuttosto che dall’ideologia, l’atto gratuito, insomma il “Me ne frego”. Di questo amore folle racconta l’ultima fatica di Mario La Ferla in “L’altro Che. Ernesto Guevara mito e simbolo della destra militante (Stampa Alternativa).



Non è un’infatuazione peregrina dei nazionalrivoluzionari nostrani. All’inizio fu Juan Domingo Peròn, il presidente dell’Argentina, che certo non può dirsi progressista. Negli anni dell’esilio in Spagna dopo essere stato rovesciato da una giunta militare appoggiata da Washington, non ci pensò due volte ad accogliere, con il beneplacito di Francisco Franco, il Che al suo arrivo in terra iberica.



E fu lo stesso presidente argentino, sembra, a mettere in contatto il Che con Boumedienne, uno dei capi del Fronte di liberazione e poi presidente dell’Algeria. Non è un caso unico, isolato.



Anche Jean Thiriart, fondatore di Jeune Europe, uno dei primi movimenti europeisti catalogati a destra, non ha esitato negli anni Sessanta a innalzare la bandiera del guerrigliero argentino. Se il programma del politico belga ruotava attorno al motto “né con Washington né con Mosca”, chi meglio di Guevara poteva rappresentarlo: detestato dai sovietici e odiato dagli americani perché voleva un’America Latina libera, era l’icona perfetta.



E in Italia? I primi a cantare le vicende del Che non furono i contestatori di sinistra. Accade al Bagaglino, il celebre cabaret romano, fucina della satira nostrana di destra che coltivò parecchi talenti, da Oreste Lionello a Pippo Franco. Tra i suoi fondatori c’era anche Pierfrancesco Pingitore. Una sera, quando il gruppo si riunisce per discutere il programma dei giorni successivi, giunge all’improvviso una telefonata che lascia tutti di stucco. E’ arrivata tra gli artisti romani la notizia della morte del Che. Non passa qualche ora che alla mente di Pingitore s’affaccia un’idea: “Dobbiamo scrivere una ballata che ricordi il Che”.



Nell’arco di qualche giorno parole e musica (questa composta da Dimitri Gribanowski) sono pronte e la voce non manca. Sarà Gabriella Ferri a incidere un 45 giri con “Addio Che”, che finisce con “a piangere per te/ verremo di nascosto/ le notti senza luna”.



Un disco che sul lato B proporrà una canzone, composta questa volta da Pino Caruso, che diventerà poi una hit presso la musica underground della destra irregolare: “Il mercenario di Lucera”, la storia di un soldato di ventura morto in Congo.



Vite diverse, certo, contenuti ideologici differenti ma entrambe esistenze votate all’avventura. E’ questa la ragione del fascino del Che. Nessuno si nascondeva la spietatezza, l’efferatezza di cui è stato capace, ma quella era una generazione che veniva dalla guerra e di uomini spietati e efferati ne aveva conosciuti… Nel mondo ideologizzato della sinistra, dove è chiaro chi siano i buoni e chi i cattivi, questa passione non può che suscitare ribrezzo. Impensabile che un rivoluzionario dedito alle sorti progressive dell’umanità sia avvicinato a un mercenario partito per l’Africa.



Il fascino della causa persa



Ma per i cuori neri, entrambi stanno dalla parte dell’avventura e rappresentano l’atto di irrisione nei confronti della fine, esaltato nel motto dei falangisti spagnoli: “Viva la muerte!”. Il Che lascia un comodo posto di ministro, in cui certo non brillava, per combattere di nuovo, allo stesso modo in cui il soldato cantato da Pino Caruso parte per l’Africa nera abbandonando la sua Puglia.



L’intraprendenza della destra italiana non si ferma. Il fascino dell’avventuriero non si estingue. In fondo non si tratta forse di un altro modo di dedicarsi alle cause perse? Adriano Bolzoni, reduce della Repubblica Sociale Italiana, autore di sceneggiature di numerosi film pensa di preparare un brogliaccio per poi girare un film dedicato a Ernesto Guevara. Non ci mette molto e una volta pronto contatta Pier Paolo Pasolini che gli consiglia di rivolgersi a Paolo Heusch, un regista di lungo corso. A lui si deve oltre alla riduzione per lo schermo di “Una vita violenta” di Pasolini, la regia del “Comandante” con Totò oltre che ai primi tentativi di cinefantascienza e all’horror d’esordio del cinema italiano “Lycantropus”.



Le riprese della pellicola sul Che avvengono in Sardegna e raccontano gli ultimi giorni della sua vita in Bolivia, quelli che precedono la cattura. Non sarà un successo al botteghino ma di certo è la testimonianza che ben prima della sinistra è stata la destra a interessarsi delle sorti del Che.



Hasta la victoria siempre



Più vicino a noi, nel 1995, Franco Cardini conclude un ricordo del Che, paragonato a Don Chisciotte, con il celebre “Hasta siempre, Comandante!”. Gli farà eco Gabriele Adinolfi, fondatore di Terza posizione, con il testo “Lotta e vittoria, Comandante! Perché da fascista lo onoro”, evocando il libro di Julius Evola “La dottrina aria di lotta e vittoria”. Anche Giano Accame su “Il Borghese” accostava Ernesto Guevara a Evola, Guénon e von Salomon.



E potremmo arrivare da ultimo, notizia del dicembre 2008, perfino a Diego Armando Maradona, che pur recando al braccio il tatuaggio del Che, non nasconde di portare in tasca la tessera del Partito giustizialista fondato da Peròn. “Che problema c’è –ribadisce el pibe de oro- entrambi erano uniti dall’odio per l’America”.



Una sbandata, quella di certa destra, per il Che dunque “che è stata occasionale –conclude La Ferla- ma non di certo casuale”.


Tratto da: www.libero-news.it