mercoledì 8 febbraio 2012

Combattere è un destino. E i guerrieri Karen, lo sanno bene.

KAREN STATE - Sono nell’amaca, nella giungla controllata dall’esercito di liberazione Karen, il silenzio, contornato solamente dai suoni della natura, mi fa star bene. E’ la seconda notte che passo nella fitta vegetazione della foresta e mi chiedo se un altro stile di vita per il nostro malato occidente, dove tutto e tutti, sono alla ricerca del superfluo, sia prima o poi possibile. Credo di no, anche perché ormai, mi sembra di vivere in una società dove solo il cellulare touchscreen all’ultima moda o la vita non-reale di facebook siano l’unica soddisfazione. L’uomo massa è cosi. Purtroppo. Qui invece, nello Stato Karen, ci sono uomini capaci di lottare fino alla morte per poter vivere da uomini liberi, in contatto con la natura e con i nobili insegnamenti dei propri avi.
Le luci del sole stanno filtrando nella mia zanzariera, è ora di alzarsi. I miei pensieri, però, finita la notte, continuano a rimbombarmi dentro. Shan Lee, un ragazzo di venticinque anni, volontario del Karen National Liberation Army (KNLA) da quando ne aveva quindici, ci porta dell’acqua di fiume bollita per prepararci il caffè. Lo ringrazio. Di notte la temperatura scende notevolmente e, appena svegli, quando il sole nasce, c’è bisogno di prendere qualcosa di caldo. La Birmania, dopo aver ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna alla chiusura del secondo conflitto mondiale, avrebbe dovuto prendere un nuovo corso. Il governo post-coloniale, guidato da Aung San (padre della più conosciuta premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi), aveva firmato, in accordo con i capi di diverse comunità etniche che compongono il mosaico birmano, il Trattato di Planglong che offriva a ciascun gruppo la possibilità di scegliere, in dieci anni, il proprio destino politico e sociale. Ma dopo un colpo di stato, con l’uccisione di Aung San, il potere è passato alla dittatura militare del generale Ne Win e il trattato da poco firmato, diventò un insignificante foglio di carta. Da quel lontano 1949 i Karen sono in guerra, con la stessa determinazione, contro la giunta militare birmana che si arricchisce grazie agli ottimi rapporti con le lobby economiche mondiali e grazie al sostegno di diversi paesi (la Repubblica Popolare Cinese, ormai diventata turbo-capitalista, per primo). Questa guerra, nonostante sia la più lunga al mondo, viene dimenticata dai media mainstream che preferiscono portare l’attenzione sulle presunte guerre “umanitarie”. Qui, invece, di realmente umanitario c’è solo l’attività (gratuita), che la Onlus Popoli (www.comunitapopoli.org) grazie ai sui volontari e sostenitori, porta avanti dal 2001 attraverso, prevalentemente, la costruzione e il mantenimento di cliniche mediche e scuole. Dopo qualche ora di marcia, arriviamo nel piccolo villaggio di Kaw La Mee nel distretto di Dooplaya, i bambini ci sorridono e gli adulti ci offrono acqua fresca e cibo. Il Myanmar, è il primo paese al mondo per la produzione di anfetamine che sono le stesse droghe che ogni giorno uccidono i figli rinchiusi nelle finte libertà occidentali. I Karen, che avrebbero potuto avere maggiori introiti grazie al narcotraffico, per ragioni etiche, non permettono la coltivazione, l’uso e il transito di stupefacenti nelle zone da loro controllate.“E’ ora di rimetterci in marcia” ci dice il Colonnello Nerdah Mya. Noi carichiamo lo zaino in spalla e siamo pronti a rimetterci in cammino. Dopo diversi giorni passati clandestinamente in Myanmar, nel Karen State, è ora di tornare in Italia e mentre mi imbarco nel volo che mi riporterà a Roma, i pensieri sul futuro della nostra società, diventano ancora più scuri. I Karen, nonostante le mine e gli attacchi improvvisi, continueranno a marciare e a combattere. Loro si, sono uomini in piedi sopra le rovine. E noi, così piccoli e lontani da loro (non solo geograficamente), avremmo molto da imparare.


di Fabio Polese, Free Press Perugia 28 gennaio / 17 febbraio 2012

Nessun commento:

Posta un commento