sabato 31 maggio 2008

CONTROVENTO - NUMERO 2 - MAGGIO/GIUGNO 2008



- Presentazione della Comunità Solidarista Popoli a Perugia.

- Intervista a Franco Nerozzi.

- Il pensiero ghibellino.

- 05.05.1981 - 05.05.2008: Bobby Sands.

- Sicurezza organica.

- Il gioco d'azzardo della finanza.

- Evola, l'antimoderno.

- L'acropoli che non c'è più.


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A Roma qualcosa si muove, strisce blu sospese in seguito a sentenza del TAR. Da noi?



Parcheggi, stop alle strisce blu a Roma

Il Comune blocca le macchinette della sosta




ROMA (29 maggio) - Stop alle strisce blu a a Roma. Dopo che il Tar del Lazio ha annullato la delibera con la quale nel 2004 l'amministrazione della capitale aveva istituito nuove zone di parcheggi a pagamento nel quartiere Ostiense, accogliendo il ricorso presentato da alcuni cittadini e dal Codacons perché non ci sarebbe proporzione tra i posti a tariffa e quelli gratis, il sindaco Gianni Alemanno ha bloccato tutte le macchinette per la riscossione della sosta.



Non si paga più quindi la sosta dell’auto all’interno delle strisce blu, in nessuna strada della città, questo fa sapere il sindaco. L’assessore alla Mobilità, Sergio Marchi afferma: «Rivoluzioneremo la sosta tariffata, rispettando il codice della strada, perché è prevista una percentuale di posti non a pagamento in quei quartieri in cui ci sono le strisce blu. Inizieremo una consultazione con le associazioni dei consumatori». Il presidente del Codacons, Carlo Rienzi intanto esulta: «Chi ha ricevuto una multa ora potrà ottenere un risarcimento».



Stop al pagamento della sosta. In una circolare inviata all'Atac il sindaco ha chiesto di bloccare le macchine di riscossione della sosta. La società, interpellata, fa sapere tuttavia che quella del sindaco è per il momento una dichiarazione di intenti e che per abolire il pagamento del parcheggio sulle strisce blu serve una ordinanza. Un provedimento che comunque l'amministrazione sta già mettendo a punto. Venerdì mattina è previsto un incontro all'assessorato alla mobilità per decidere come procedere.



«Non faremo ricorso al Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar che ha dichiarato l'illegittimità delle strisce blu così come disciplinate dalla precedente amministrazione di centrosinistra», hanno dichiarato in una nota Alemanno e Marchi. «Aveva quindi ragione l'allora opposizione di centrodestra a sostenere il carattere vessatorio della disciplina dei parcheggi a Roma. Lavoreremo da subito - prosegue la nota - con le associazioni dei consumatori e con i cittadini affinché si possa giungere ad una disciplina che stabilisca un nuovo equilibrio tra strisce blu e strisce bianche. Abbiamo già inoltre provveduto con una circolare inviata all'Atac a bloccare le macchine di riscossione della sosta, così come intendiamo tranquillizzare i 650 dipendenti della stessa azienda che saranno rioccupati in altre funzioni per aiutare la mobilità della città».



La sentenza accoglie un ricorso del Codacons cancellando la delibera perché adottata «in mancanza di una idonea istruttoria». Il Codacons aveva chiesto l'annullamento della delibera, ma anche l'accertamento del diritto degli utenti dei parcheggi alla restituzione delle somme pagate per le multe inflitte a fronte «dell'illegittimo aumento del numero delle aree riservate al parcheggio a pagamento». In questo caso, però, il Tar non ha accolto la richiesta. Secondo i giudici, la delibera «non chiarisce la specifica ragione per la quale la zona è stata definita "di particolare rilevanza urbanistica"; limitandosi, a tal riguardo, a richiamare uno studio che non appare affidabile essendo stato realizzato, per espressa ammissione dell'amministrazione, proprio dalla società Sta, la quale non è un "soggetto terzo" (ed imparziale), avendo un evidente interesse alla realizzazione dei parcheggi a pagamento», senza «che dimostri, con dati obiettivi, come (ed in base a quale criterio) il numero dei parcheggi sia stato commisurato al fabbisogno effettivo; ed in che modo le esigenze dei residenti siano state considerate».



Blocco vale per tutta Roma. Il Codacons ha reso noto di avere avviato una "class action" contro la Sta per chiedere la restituzione ai cittadini delle multe illegittime pagate. «Gli effetti della sentenza - ha spiegato ancora il coordinamento degli utenti e dei consumatori - si estendono a tutte le altre vie richiamate dalle delibere del 2004 annullate dal tribunale amministrativo. Questo significa che l'illegittimità delle multe elevate per il divieto di sosta - conclude la nota - valgono per tutte le altre vie cui fa riferimento la delibera richiamata in precedenza e non solo per il quartiere Ostiense».



«Cittadini vessati». «Le giunte di centrosinistra per anni hanno beneficiato di notevoli introiti grazie alle strisce blu, senza creare un giusto equilibro tra sosta a pagamento e sosta gratuita. Ritengo sia giusto non fare ricorso al Consiglio di Stato contro il provvedimento del Tar e trovare una situazione condivisa con le associazioni di consumatori e i cittadini, che in questi anni sono stati vessati oltremodo dalle troppe contravvenzioni», ha dichiarato Marco Pomarici, presidente del Consiglio Comunale di Roma.



«Finalmente stoppato l'incubo delle strisce blu a Roma, da noi sempre denunciato e contrastato. Chiediamo la convocazione di un consiglio comunale straordinario per conoscere la situazione su tutta la città e verificare la bontà delle ragioni che hanno indotto il Comune di Roma a definire in tutti i quartieri di Roma le "zone di particolare rilevanza urbanistica" costringendo così i cittadini a pagare per anni una vera e propria tassa. Chiediamo inoltre copia della sentenza del Tar» Lo dichiara il capogruppo Udc al comune di Roma, Dino Gasperini.



http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=25025&sez=HOME_ROMA

giovedì 29 maggio 2008

Cosa succede in città...

L'Acropoli che non c'è più.


Il nuovo regolamento di accesso alla Z.T.L. di Perugia, di prossima attuazione (pare diverrà operativo l'11 luglio 2008), disporrà la totale chiusura al traffico del centro storico, vale a dire in qualsiasi orario, nel periodo dell'anno che va dal 22 marzo al 20 dicembre (esclusi ovviamente i pochi, e fortunati, viste anche le nuove norme di distribuzione dei permessi, autorizzati). Tale ennesima restrizione alla circolazione va ad inserirsi in quella serie di inizative che, negli intendimenti della amministrazione comunale, dovrebbero esser volti alla riqualificazione del centro storico, per una maggiore fruibilità dello stesso da parte di residenti e turisti... ne siamo sicuri? Il "rivoluzionato" trasporto pubblico urbano risuscirà a svolgere la sua pretesa funzione? Noi riteniamo, per quella che è ad oggi l'organizzazione di tali servizi, di no. Ma prima di tutto riteniamo che un semplice "vettore", per quanto efficiente sia, non possa essere sufficiente. I cittadini di Perugia... fra loro c'è chi ha conosciuto, e rimpiange, i tempi in cui la nostra Acropoli poteva dirsi veramente tale, e costituiva a tutti gli effetti il fulcro della vita sociale cittadina, a tutti i livelli. Non è più così ormai da tempo. Andando ad analizzare la situazione, chi conosce non da ora e non da turista la nostra città non può non notare quanto la situazione del centro storico sia mutata nel corso degli anni; sicuramente a causa di fenomeni sociologici inarrestabili, ma altrettanto sicuramente determinate scelte amministrative hanno contribuito e stanno contribuendo a tale mutazione. Le attività commerciali "tradizionali" hanno ceduto inesorabilmente il passo, i luoghi di ritrovo storici non esistono più, i Perugini hanno abbandonato, o stanno abbandonando quello che era il cuore della nostra città. Perché non lo riconoscono più come “loro” e perché c’è chi fa di tutto, volente o nolente, per allontanarli. Riteniamo che le “chiusure”, di qualsiasi tipo esse siano, non facciano altro che accelerare questa tendenza. E’ evidente che il Centro Storico, così come ogni altro luogo della nostra città, abbia bisogno di essere vissuto dai cittadini per far sì che esso mantenga la propria identità. Vivere le piazze, le strade, incontrarsi, ricostruire quei rapporti sociali che dovrebbero esistere per sentirsi appartenenti ad una comunità. Malauguratamente troppo spesso assistiamo a fenomeni che vanno nella direzione opposta, cioè quella della disgregazione. Nel suo “piccolo” (rispetto all’inesorabile decadimento della nostra società tutta) è specchio di tali fenomeni anche lo svuotamento del centro storico, della Acropoli; svuotamento inteso non solo in senso fisico, ma anche di perdita di quei contenuti che ne facevano il centro e il fulcro della vita pubblica, che gli conferivano una Identità, che era l’identità stessa di tutta la comunità cittadina..

Tralasciamo volutamente gli aspetti legati al degrado connesso alla “micro”criminalità, poiché essi sono tristemente sotto gli occhi di tutti (o di tutti quelli che li vogliono vedere). Sanno bene tutti coloro che cercano comunque di continuare a vivere il centro storico che in determinati orari alcune zone sono totale appannaggio di chi, trovandosi a muovere in campo aperto e quasi totale impunità, le ha scelte come base operativa per i propri sordidi traffici, ed è evidente che taluni personaggi non hanno certo bisogno della macchina per svolgere i loro "affari"...



Associazione Culturale Tyr - Comunità Militante Perugia

Festa degli Italiani.

lunedì 26 maggio 2008

Responsabilità e serietà per far crescere il sistema Italia.


 



“Pago tante tasse (…) e pago quando sbaglio. In alto, troppa gente non risponde di nulla”. Parole semplici, forse autoassolutorie ma di buon senso. Parole che stupiscono un po’, perché pronunciate - nei giorni scorsi - da Vasco Rossi, l’incarnazione vivente della “Vita spericolata”, non un benpensante qualunque, non un piccolo borghese casa e lavoro. Parole che, in fondo, esprimono un diffuso sdegno verso forme di irresponsabilità sempre più gravi e frequenti.


Il principio è elementare: all’errore - che pure è umano e tendenzialmente degno di pietas - deve corrispondere una sanzione, più o meno rilevante a seconda dei casi. È uno degli architravi su cui poggia l’esistenza stessa di una società. E deve valere per tutti. Anche - anzi, soprattutto - quando a sbagliare sono individui collocati in posizioni-chiave: dirigenti, funzionari, magistrati, politici. Nel nostro Paese, però, accade non di rado che gli appartenenti a questa vasta schiera - ben remunerata anche in virtù dei gravami a cui è sottoposta - siano immuni (o quasi) alla fondamentale logica dell’ammenda. Esistono, insomma, persone a responsabilità limitata; persone, per dirla con Orwell, “più eguali degli altri”; persone che, anche in caso di negligenza, neghittosità e/o conclamate scelte erronee, rimangono imperterrite ed impunite al proprio posto, inghiottite e difese dalla corporazione di turno, dalla turris eburnea degli apparati. Di dimissioni, ovviamente, neanche a parlarne.


Proviamo a fare qualche esempio, tutt’altro che esaustivo. Un caso clamoroso è quello di Napoli, dove nessuno, a ben vedere, è risultato politicamente e materialmente responsabile per l’infinito squallore dei rifiuti. Hanno pagato i partiti, perdendo voti alle ultime elezioni, ma non i diretti interessati: a partire dal governatore della Campania, sono tutti ancora lì, ancorati al proprio posto. Ma fenomeni del genere, con varie gradazioni, si registrano anche in altri ambiti. Si pensi all’epilogo del campionato di serie A. Dopo tante incertezze, l’Osservatorio per le manifestazioni sportive ha vietato la trasferta dei tifosi dell’Inter a Parma, macchiandosi di una valutazione grossolana che solo per caso non ha avuto gravi conseguenze. Da subito è parsa una scelta dettata da un malinteso senso di equanimità, finalizzato a compensare l’assenza dei tifosi della Roma al Cibali. Com’era prevedibile, la vicinanza tra Milano e Parma ha impedito il controllo della situazione. Il risultato? La curva che non doveva esserci, quella nerazzurra, era invece fuori dal Tardini. All’esterno dello stadio, le opposte fazioni si guardano in cagnesco, si studiano. Poi si affrontano. Quattro feriti e un asilo distrutto da qualche minus habens più criminale degli altri. Incidenti evitabili? Chiaramente sì. Qualcuno ha pagato per questa scelta sbagliata? Ancora una volta no.


Dulcis in fundo, si fa per dire, il contesto in cui questa sorta di immunità alligna con preferenza: il nostro farraginoso e bizantino sistema giudiziario. A vent’anni dalla morte di Enzo Tortora - che volle farsi seppellire portando con sé la manzoniana “Storia della colonna infame” -, i casi (gravi) di malagiustizia sono ancora tanti. Troppi. Si pensi alle scarcerazioni incomprensibili o ai clamorosi ritardi: episodi riconducibili a cause diverse e a differenti livelli di responsabilità che però creano sempre inevitabile sconcerto e preoccupazione. Indicativo il caso del giudice di Gela che in otto anni non è riuscito a produrre le motivazioni di una sentenza di primo grado, provocando la scarcerazione di pericolosi boss. Al di là della pur necessaria reprimenda del capo dello Stato, chi ha pagato? Fin ad oggi proprio nessuno: il Csm ha respinto la richiesta di sospensione del magistrato. In circostanze del genere - di fronte a errori rilevanti e non a sviste con poche conseguenze - ci si limita ad un buffetto sulle spalle e ad una raccomandazione pro-futuro. Con buona pace della credibilità delle istituzioni.


Non è giustizialismo o forcaiolismo: chi sbaglia in maniera significativa e non riceve una sanzione corrispondente mina la dignità dello Stato. Gli “ultimi” pagano tutto. E sempre. Perché mai alcuni membri dell’establishment riescono a sottrarsi al principio della giusta pena? Se è vero, come pare, che il vento sta cambiando, che va iniziando il tempo della serietà, si ponga un argine alla irresponsabilità. Iniziamo a non avere paura di fare quello che molti Paesi già fanno: valutare le professionalità, punire gli errori. Ne va della competitività del sistema-Italia. Che non è fatta solo di crescita economica.



Di Leonardo Varasano, uscito su "Il Giornale dell'Umbria" il 26/05/2008.

domenica 25 maggio 2008

"Il Fondo" il Magazine di Miro Renzaglia.

Il fondo, giornalisticamente parlando, è quell’articolo che esprime la linea di una testata su argomenti di fresca attualità. Fedele al pluribus unum, coltivo la speranza che semmai una linea qualsiasi, politica sociale o culturale che sia, debba essere partorita da “Il Fondo”, essa sia la sintesi dei molti fondi che qui raccoglieremo settimanalmente.





Ma il fondo, secondo dizionario, è anche la parte terminale a sostegno di qualcosa che si proietta in alto; qualcosa da toccare per darsi la spinta necessaria a salire. E, pure: la parte della botte da raschiare fino alla soddisfazione del gusto; l’insieme di territori, patrimonio di una famiglia; la riserva necessaria per le spese emergenti; il limite estremo rispetto ad un punto di osservazione; una gara di resistenza su lunghe distanze; l’arrivo all’estremità opposta da cui si parte senza lasciare nulla di intentato, perseverando nell’impresa con l’uso di ogni possibilità data. Metaforicamente parlando, questo, e forse anche altro, vorrebbe essere “il Fondo”.











Fuor di metafora, “il Fondo” è un periodico settimanale: sarà nell’edicola virtuale di questo sito ogni lunedì e rimarrà in lettura fino al lunedì successivo, quando gli articoli saranno completamente sostituiti dal nuovo fascicolo. Del blog, mantiene intatta la possibilità di commento di ogni singolo articolo. Si occuperà di politica interna ed estera, di economia, energia, arte, cultura, società & costume, musica, IT, sport, recensioni… con l’occhio attento a fatti ed eventi legati all’attualità della settimana.











Per una breve anamnesi, “il Fondo” è figlio legittimo della famiglia che si è raccolta intorno alla precedente esperienza del mio blog. Che blog, poi, inteso come vetrina personale del suo autore (memme desimo), lo è rimasto molto poco: fino a trasformarsi velocemente nell’embrione di una vera e propria testata giornalistica, benché virtuale. Da questa constatazione, all’idea di dare a quell’embrione originale il suo destino in fieri, che ora e qui trova manifesto, il passo è stato consequenziale e logico: la nuova veste grafica e di possibilità funzionali risponde all’esigenza di questo disegno…






Altrettanto logicamente, mi sembra possibile immaginare che questo spazio di lettura e discussione non resti nel sia pur sconfinato regno virtuale ma si diffonda anche per i più solidi canali cartacei dell’editoria classica, con una collana (più altre di poesia, narrativa e saggistica) che ne riprenda il meglio assegnadosi un titolo che apparterrà a “I Libri De il Fondo”. Che sia fondato o no questo sviluppo di immagine, lo dirà il tempo.






Ma il progetto esiste e, com’è mia abitudine…






miro renzaglia


giovedì 22 maggio 2008

TERRA - IDENTITA':

INIZIO LAVORI IL 1° GIUGNO.






Con un incontro che si è svolto a Mae Sot il 15 maggio tra rappresentanti della Comunità Solidarista Popoli e i vertici dell'Unione Nazionale Karen, si è dato ufficialmente inizio al progetto "Terra - Identità", importante passo verso la ricostruzione di uno stato autonomo Karen. Il progetto, realizzabile grazie all'intervento dell'Associazione L'Uomo Libero e al finanziamento della Regione Trentino Alto Adige, prevede la costruzione di un villaggio modello nel distretto di Dooplaya, che accoglierà numerose famiglie di profughi interni Karen, altrimenti costretti a trovare rifugio in campi tailandesi.

Il villaggio è circondato da terreni che stiamo bonificando, e che verranno coltivati per rendere i profughi autosufficienti dal punto di vista alimentare. Il 1° giugno verrà dato inizio ai lavori di costruzione delle prime unità abitative famigliari: verranno rispettati i canoni tradizionali per erigere case in legno e bamboo. Il villaggio di Kaw Lar Mee sarà il primo di una serie di insediamenti che accoglieranno i numerosi profughi interni che sono stati costretti a lasciare le loro case per sfuggire alle violenze dell'esercito birmano. I leader del popolo Karen sperano che la Comunità Solidarista Popoli sarà in grado di far convogliare su "Terra - Identità" le risorse necessarie ad incrementare l'intervento: l'unica possibilità per questo popolo di sopravvivere è legata infatti proprio alla realizzazione di progetti volti alla autosufficienza alimentare, affinché non rimanga dipendente da aiuti esterni. In questi giorni, nonostante la gravissima situazione creatasi in Birmania per gli effetti del ciclone, le truppe del regime di Rangoon hanno proseguito i bombardamenti di villaggi Karen nel distretto di Taungoo. Ogni azione militare contro i civili comporta l'aumento del numero di profughi interni, e il conseguente peggioramento delle condizioni di vita dei Karen. La Comunità Solidarista Popoli allestirà una clinica nel villaggio in costruzione, in modo da poter garantire anche a questi nuovi arrivati l'assistenza sanitaria di base. Cerchiamo aziende private o istituzioni disposte a sostenere il progetto "Terra - Identità" , per dare continuità al processo di insediamento dei profughi in territorio Karen. Il popolo Karen resiste da 60 anni al tentativo di pulizia etnica condotto nei suoi confronti dalla giunta militare al potere in Birmania: i generali di Rangoon sono sostenuti dalle armi di Cina, Israele e India, e dai milioni di dollari che ogni giorno entrano nelle loro tasche attraverso i contratti di multinazionali occidentali che sfruttano le risorse energetiche del paese. Una importante fonte di reddito per il regime deriva dal narcotraffico, contro il quale i Karen si battono con esemplare severità. La Comunità Solidarista Popoli ringrazia "L'Uomo Libero" e la Regione Trentino Alto Adige per il generoso sforzo compiuto, e per la sincera partecipazione alla causa della difesa della Identità e della Tradizione di un popolo antichissimo.



Da: www.comunitapopoli.org

 

Popoli al bivio. [Conferenza Raido]

Si è riunita la Trilateral.


«Politica interna ed estera USA: bozza di linea per la prossima Amministrazione»: questo il titolo della prima giornata di riunione della Commissione Trilaterale, tenutasi a Washington il 25-28 aprile, ovviamente e come sempre a porte chiuse. Ma Jim Tucker, il giornalista famoso per «auscultare» le riunioni segrete del Bilderberg, aveva qualche fonte anche lì (1).



E qualcosa ha saputo. Vediamo dunque la «linea» che i più ricchi privati di USA, Europa e Giappone, in rappresentanza delle maggiori multinazionali, dettano al prossimo governo americano.



Secondo il consesso, il futuro presidente dovrà anzitutto aumentare gli aiuti americani ai Paesi esteri, perchè, è stato detto, «L’America non versa la sua giusta parte» degli aiuti internazionali. Il presidente futuro dovrà anche pagare la quota USA per il mantenimento dell’ONU (la Casa Bianca è in arretrato: i neocon che la teleguidano detestano l’ONU).



Peter Sutherland, rappresentante del segretario generale ONU per l’immigrazione, ha caldeggiato una maggiore apertura degli Stati Uniti verso l’immigrazione, raccomandando una amnistia per i milioni di clandestini messicani e sudamericani in USA. Sarà bene notare che Sutherland, questo umanitario, è anche presidente di British Petroleum e Goldman Sachs International, oltrechè un alto esponente del Bilderberg.



Non è dunque un caso se durante il panel intitolato «Global Financial Crisis», si sono sentiti solo interventi attorno al «dovere» dello Stato americano di «intervenire» per soccorrere «le istituzioni finanziarie sotto stress», e nemmeno una parola sul soccorso ai milioni di americani che si vedono pignorare la casa, o caderne tragicamente il valore di mercato.



Il liberismo globale non ammette eccezioni: intervento pubblico è il Male Assoluto, tranne che per le banche loro.



A parlare della crisi c’erano infatti Andrew Crockett, presidente di JP Morgan Chase International, David Rubenstein, gestore del Carlyle Group, Robert Kimmit oggi vicesegratario al Tesoro ma prima altissimo capintesta di Lehman Brothers, oltrechè Martin Feldstein, economista di Harvard, ex consigliere economico di Ronald Reagan, nonchè Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale e da sempre socio del Bilderberg.



C’erano anche giornalisti molto selezionati, da David Gergen dell’US News and World Report, e Lionel Barber, uno dei direttori del Financial Times: che naturalmente non hanno scritto un rigo sulle riunioni, anche se vi hanno partecipato attivamente, presiedendo alcuni panel, oppure «intervistando» per lo scelto pubblico questo o quel grand’uomo. Sul podio, con domande complici, e a porte chiuse.



Il giornalista Bill Emmot, dell’Economist, per esempio ha intrattenuto la cena dei signori allo Smithsonian Art Museum parlando della «crescita dell’Asia». Naturalmente si è molto parlato del «global warming» e si è consigliato il futuro presidente USA di spendere di più contro l’inquinamento; su come ridurre l’effetto-serra, si è ventilata una tassa ecologica sui voli aerei.



Il dollaro a 120, e il cui rincaro dipende al 60% dalla speculazione sui futures petroliferi, non allarma quel nobile consesso. La questione è gestita dal Bilderberg, che nella sua riunione segreta in Germania del maggio 2005, per bocca del suo socio Henry Kissinger, raccomandava un raddoppio del barile (allora era a 40 dollari) entro 12-24 mesi. Il che è avvenuto disciplinatamente.



Nel 2006, a Ottawa, il Bilderberg non si era dimostrato contento dei progressi, ed aveva raccomandato un rincaro sui 105 dollari entro la fine del 2008. Ora Goldman Sachs prevede che si arriverà a 200.



Previsione alla portata di personalità che si incontrano fra banchieri-speculatori e compagnie petrolifere, e che non preoccupa. Loro fanno enormi profitti sui rincari. E il prezzo proibitivo avvicina quella che Barroso suole chiamare «la rivoluzione post-industriale», che implica fra l’altro la fine del ceto medio.



Rumori di dissenso si sono ascoltati solo quando Robert Blackwill, già vice-consigliere nazionale per l’Iraq, ha intrattenuto i signori sulla necessità di «impegnare (engage) l’Iran e costruire la pace in Medio Oriente». Blackwill ha assicurato che la «opzione militare resta sul tavolo», ma si spera negli sforzi diplomatici.



Più interessanti le conversazioni e i pettegolezzi di corridoio. I signori tengono molto al NAFTA, il mercato comune USA-Messico-Canada, e si sono detti: «John (McCain) è sempre stato a favore del libero commercio, anche davanti ai sindacati; Hil (Clinton)  e Barak (Obama) fingono di eccepire su alcuni punti, ma è recita politica. Sono solidamente a favore». Anzi, «Hil», si ricordavano l’un l’altro i signori, come first lady ha tenuto sedute strategiche con il big business per indurre il Congresso ad approvare il NAFTA.



Molto sarcasmo invece è stato speso contro Ron Paul. Non perchè il candidato indipendente abbia una sola possibilità di occupare la Casa Bianca; ma li preoccupa la moltitudine di giovani che si sono mobilitati per lui, ed ascoltano i suoi discorsi. Questa generazione, si sono detti i trilateralisti, «si sta facendo un’educazione politica» in questo modo. Il che può «causare danni significativi in futuro», visto che Ron Paul non vuol cedere la sovranità nazionale al NAFTA (come gli europei l’hanno ceduta alla UE), si oppone alle missioni di «mantenimento della pace» all’estero, e proclama che bisogna ritirare le truppe dall’Iraq e, peggio, ridurre le imposte non sui ricchi, ma sul ceto medio.



I signori hanno perciò deciso di influire sul partito repubblicano perchè faccia pressione su Ron Paul e lo induca a rinunciare alla corsa al più presto, onde mettere fine ai suoi corsi di educazione politica un po’ troppo affollati. L’incarico è stato assegnato a Thomas Foley, già portavoce della Casa Bianca.



Kissinger era presente ma non ha parlato. E’ decrepito e dicono che abbia problemi alla gola. Fra gli europei, Tucker segnala solo Elisabeth Guigou, già ministra francese per gli affari europei. Nell’insieme, i politici presenti sembravano essere della generazione passata, dell’era Reagan o dell’era Nixon.



Si può ipotizzare che la Trilaterale ritenga di poter riprendere l’influenza che aveva prima dell’avvento dei neocon, che hanno sviato il progetto globalista con il loro bellicismo per Israele? Il futuro lo dirà: i signori erano sicuri di avere in tasca tutti i tre candidati.



Può darsi che trovino una convergenza in un senso preciso: mano pesante alla israeliana contro le opinioni pubbliche contrarie alla globalizzazione. Il direttore di Newsweek, Fareed Zakarias, uno dei giornalisti invitati, ha appena elevato un rimprovero agli americani, convinti all’80% che il Paese sia sulla strada sbagliata (saranno i mutui sub-prime e la rovinosa costosissima guerra in Iraq?).



«Miliardi di persone sono uscite dalla abbietta miseria» grazie alla globalizzazione, li rimprovera Zakarias, il giornalista-impiegato della Trilateral, «il mondo sarà arricchito e nobilitato via via che diventano consumatori, produttori, inventori, sognatori...il 40% delle superlauree in America lo guadagnano gli immigrati» (2).



Niente sugli immigrati che lavano i pavimenti. Nè sulla fame prodotta dai nuovissimi rincari sugli alimentari di base: anzi quella è buona, perchè segnala «l’aumento dei consumi» nel mondo globalizzato. E nemmeno una parola sui 10 milioni di tedeschi che, in uno dei pochi Paesi in pieno boom economico, sono usciti dalla classe media in questi anni, per accrescere le fila dei nuovi poveri. O sui milioni di francesi che subiranno un ulteriore taglio alle pensioni, grazie a Sarkozy.



«Viviamo nel periodo più pacifico mai provato dalla specie umana», si arrabbia Zakarias, ma noi americani «siamo diventati sospettosi del commercio, dell’apertura, dell’immigrazione, degli investimenti esteri».



Così non va. Se siete scontenti, vi metteremo in riga. La presidenza Bush ha visto l’allestimento di campi di raccolta e detenzione allo scopo – com’è detto ufficialmente – di «sostenere il rapido sviluppo di nuovi programmi».



In cosa consistano i nuovi programmi non viene detto. Essi sono compresi nel «continuity of goverment», il programma generale di mantenimento del governo in casi di emergenza estrema e non specificata. A questa necessità provvedono programmi software che indentificano, attraverso un filtro chiamato «social network analysis», a identificare persone che manifestano qualche scontentezza sull’andamento delle cose.



Nel database, gestito dai militari, ci sono già 8 milioni di americani segnalati come sospetti di scontentezza, o di volontà d’opposizione (3). Vi godrete la globalizzazione, che lo vogliate o no.





1) James Tucker, «Global elite gather in DC», American Free Press, 6 maggio 2008.



2) Fareed Zakarias, «The rise of the rest», Newsweek, 3 maggio 2008.



3) Ed Martin, «If you are reading this, Bush has reserved a bunk for you in one of his detention camps», OpEdNews, 6 maggio 2008. «In the spring of 2007, a retired senior official in the U. S. Justice department sat before Congress and told a story so odd and ominous, it could have sprung from the pages of a pulp political thriller.  It was about a principled bureaucrat struggling to protect his country from a highly classified program with sinister implications.  (…) The bureaucrat was James Comey, John Ashcroft's second-in-command at the Department of Justice during Bush's first term. In his testimony before the Senate Judiciary Committee, he described how he had grown increasingly uneasy reviewing the Bush administration's various domestic surveillance and spying programs.  Much of his testimony centered on an operation so clandestine he wasn't allowed to name it or even describe what it did.  (…)  the program that Comey found so disturbing went forward at the demand of the White House, "without a signature from the Department of Justice attesting as to it's legality," he testified. What is this program?  A former military operative has been told that the program utilizes software that makes predictive judgments of targets' behavior and tracks their circle of associations with "social network analysis». (…) Bush, in one of his addresses to the nation, said the program was part of planning to assess threats to the "continuity of our government".




Di
M.Blondet, da www.effedieffe.com

mercoledì 21 maggio 2008

Associazione Culturale Identità e Tradizione.


Cinque anni sono decorsi dalla fondazione di Identità e Tradizione, che fin dalla sua nascita si è caratterizzata come Sodalizio Völkisch, affermando la volontà di porsi come compito, come dovere imperativo, quello di salvaguardare e preservare l'immenso patrimonio razziale, etnico, culturale, spirituale, tradizionale, storico e linguistico dei Popoli Europei dai tentativi di sradicamento e d'alienizzazione messi in atto dall'ideologia mondialista, americanofila ed immigrazionista. In questo quinquennio d’intensa attività politico-culturale, Identità e Tradizione, promuovendo, diffondendo ed analizzando compiutamente il Pensiero Etnonazionalista e l’Idea Völkisch, è riuscita ad elaborare una nuova, particolareggiata ed integrale Weltanshauung, la quale si prospetta a diventare l’Idea-forza del XXI secolo: l’Etnonazionalismo Völkisch. E’ profondo convincimento dei responsabili di Identità e Trazione che, qualsiasi azione politico-culturale che abbia come finalità la piena autonomia d’una determinata Volksgemeinschaft, non possa assolutamente prescindere dalla necessità di ridestare l’ancestrale Volkgesit delle nostre genti, risvegliare in esse quei profondi legami decretati dalle più remote forze naturali del Sangue e della Stirpe, che identificano un uomo come appartenente ad un Popolo, ad una Comunità ed alla propria Terra. Solo allora, dopo aver riaffermato la priorità di quegli atavici valori che nel Sangue, nel Suolo e nella Stirpe hanno la loro avita origine, si potranno rinvenire le possenti forze che giacciono nel più profondo dell’Anima della Razza e che vanno nel senso della volontà di ri-tornare finalmente padroni della propria Heimat. In questi cinque anni, l’Associazione ha elaborato un bollettino interno, “Ethnos”, ha dato alle stampe ben 4 libri per la Casa Editrice Effepi ed ha collaborato con diverse associazioni culturali del territorio alpino-padano. Ma è con questo quinto e nuovo testo, ricco di spunti e di documenti inediti, dal titolo: “ Dottrina, Filosofia e Mistica dell'Etnonazionalismo Völkisch”, che gli autori intendono, oltre che onorare il quinto anniversario della costituzione dell’Associazione, fornire una summa dottrinaria, dogmatica e filosofica inerente all’Idea Etnonazionalista Völkisch. Un saggio essenziale, indispensabile, per la formazione culturale di tutti coloro che militano in movimenti politici identitari e s’impegnano nella diffusione della cultura antagonista. Di questo saggio, che uscirà alla fine di giugno, 24 esemplari, contrassegnati con i simboli dell'alabeto runico esteso, saranno riservati unicamente ai migliori militanti di Identità e Tradizione ed a coloro che si sono distinti per l’alto impegno profuso nella diffusione del Pensiero Etnonazionalista Völkisch.

 

Il Presidente della Associazione Culturale Identità e Tradizione: Silvano Lorenzoni

 

Il Segretario della Associazione Culturale Identità e Tradizione: Federico Prati

 

 

Testi pubblicati

 

·        Federico Prati-Silvano Lorenzoni, Scritti etnonazionalisti. Per un'Europa delle Piccole Patrie, Effepi Edizioni, 2005.

 

·        F.Prati-S.Lorenzoni-H.Wulf, Etnonazionalismo ultima trincea d'Europa, Effepi Edizioni, 2006.

 

·        Federico Prati-Silvano Lorenzoni-Flavio Grisolia, I Fondamenti dell'Etnonazionalismo Völkisch, Effepi Edizioni, 2006.

 

·        F.Prati-S.Lorenzoni-F.Grisolia-H.Wulf, Orizzonti del Nazionalismo Etnico. Il Pensiero Etnonazionalista e l'Idea Völkisch, Effepi Edizioni, 2007

 

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martedì 20 maggio 2008

103 anni fa nasceva Berto Ricci.

di Beppe Niccolai.



"BERTO RICCI
, il fascismo come trasgressione".





Berto Ricci fu uomo di cocenti passioni. Chi disprezzava, Berto Ricci? I babbuini (così li chiamava), i fiaschi vuoti, i palloni gonfiati, i «farabutelli», coloro che stanno sempre alla finestra, coloro che, dopo essersi rinchiusi in casa, scendono per la strada a cose fatte e magari dicono che hanno vinto.


Mentre Berto Ricci amava gli inquieti, i liberi, «quelli simili a praterie che inarca il vento alle foglie ambiziose», come egli scrive in una sua poesia.


La toscanità di Berto è tutta qui.


Lo stemma della città di Firenze è una macchia di sangue che si trasforma in giglio. La storia di Firenze comincia, se ci si fa caso, con una imboscata e si incentra nel motto terrorista della famiglia degli Uberti: «Cosa fatta, capo a», che Dante definisce «seme della gente toscana».


I fiorentini (anzi, tutti i toscani) si sono sempre sbudellati fra di loro; per quattrocento anni hanno attaccato briga per tutto e su tutto. E la lotta tra fascisti ed antifascisti in Toscana, negli anni che vanno dal '19 al '25, assunse un immediato aspetto di lotta di parte, come tra guelfi e ghibellini, neri e bianchi, popolo grasso e popolo minuto.


Dopo secoli di servitù e rivoluzioni morali, i Fiorentini ritrovavano proprio nel fascismo e nell'antifascismo il loro antico fronte di lotta. C'è una pagina bellissima di Vasco Pratolini, prima fascista e poi antifascista, scritta sul "Politecnico" (il famoso "Politecnico" poi soppresso da Togliatti) nel dicembre del '47 che voglio citare: «Ma anche quei franchi tiratori che si difesero di tetto in tetto, erano fiorentini. La Repubblica Sociale Italiana salvò la faccia a Firenze. Una faccia che spuntava coi mitra dai comignoli e dagli abbaini. Soltanto a Firenze ci fu tra patrioti e fascisti vera guerra civile,; fu li e solo li vera Spagna. Rossi e neri dietro le barricate, al riparo di una cantonata, nella linea di fuoco sugli argini di un torrente nelle stesse ore dell'agosto '44 in cui anche Parigi lottava per la sua liberazione. I partigiani scesero dalle montagne ed i fascisti li aspettarono. Non era più nazi-fascismo contro nazioni unite. Erano fiorentini di due opposte fazioni che si ritrovavano ad uno dei tanti appuntamenti della loro storia. I tedeschi, fatti saltare i ponti, piegavano in ritirata e lasciavano le bande nere a vendere cara la pelle. Gli alleati avevano segnato il passo davanti alle rovine dei ponti e affidavano ai «volontari della libertà», l'onore di cavare la castagna dal fuoco espugnando la città. Durò otto giorni, e sulla stessa pietra che ricorda il rogo di fra Savonarola venne fucilato Pietro Tesi: trionfatore con distacco di una Milano-S. Remo che fa testo negli annali del ciclismo italiano. Dietro Santa Croce, dove riposano Macchiavelli e Foscolo, fu passato per le armi Alfredo Magnoldi: primo classificato al campionato europeo dei pesi gallo. I partigiani dissero: "Alfredino era una carogna, ma è morto bene". Morirono bene questi sportivi».


C'è libro con un'altra pagina meravigliosa, scritta da Curzio Malaparte, allora inviato speciale de "l'Unità", sotto il nome di Gianni Strozzi, ed è "La Pelle".


Sono due libri molto importanti (quello di Pratolini e quello di Malaparte) che vanno letti per capire l'Italia del Sud e l'Italia che da Firenze va su.


Malaparte così descrive la fucilazione dei ragazzi fascisti davanti a Santa Maria Novella, a Firenze:


«I fascisti seduti sulla gradinata erano ragazzi di 15-16 anni, dai capelli liberi sulla fronte alta, gli occhi neri e vivi nel lungo volto pallido. Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino. C'era anche una ragazza, fra loro, giovanissima, nera d'occhi e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s'incontra spesso in Toscana fra le donne del popolo. Sedeva col viso riverso, mirando le nuvole d'estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia, quel cielo pesante e gessoso e qua e là screpolato, simile ai cieli del Masaccio negli affreschi del Carmine...


Ad un tratto i ragazzi presero a parlar fra loro, ridendo. Parlavano con l'accento popolano di S. Frediano, di Santa Croce, di Palazzolo. "E quei bighelloni che stanno a guardare, non hanno mai visto ammazzare un cristiano? E come si divertono quei mammalucchi, li vorrei vedere al nostro posto e che farebbero quei finocchiacci, scommetto che si butterebbero in ginocchio, li sentiresti strillare come maiali i poverini".


I ragazzi ridevano, pallidissimi, fissando le mani dell'ufficiale partigiano: "Guardalo, bellino, con quel fazzoletto rosso al collo. Oh chi gliè mai? oh chi gli da essere, Garibaldi! Quel che mi dispiace" disse il ragazzo in piedi sullo scalino "è di essere ammazzato da questi bucaioli".


"Un la fa tanto lunga" gridò una dalla folla. "Se lei ha furia, venga al mio pasto" gridò il ragazzo ficcandosi le mani in tasca.


L'ufficiale partigiano alzò la testa e disse: "Fa' presto. Non mi far perdere tempo. Tocca a te".


"Se gli è per non farle perdere tempo" disse il ragazzo con voce di scherno "mi sbrigo subito". E, scavalcati i compagni, andò a mettersi davanti ai partigiani armati di mitra, accanto al mucchio di cadaveri, proprio in mezzo alla pozza di sangue che si allargava sul pavimento di marmo del sagrato della Chiesa. "Bada di non sporcarti le scarpe" gli gridò uno dei suoi compagni. E tutti si misero a ridere. In quell'istante il ragazzo gridò: "Viva Mussolini" e cadde crivellato di colpi».


Ecco, questa è la Firenze di Berto Ricci. Ed ecco perché Berto Ricci ce l'ha con gli agnostici, con gli indifferenti. E dice che sono una vecchia peste di questo Paese dal tranquillo vuoto interiore. Noi per questo vuoto interiore non daremmo un atomo del nostro doloroso cercare, del nostro errare umano. Berto, in definitiva, sta con la gente che discorre, che opera, che disprezza e si rode alla maniera italiana.


Ci sono stati, ed alcuni sono ancora vivi, suoi amici, oggi passati in altri settori politici, che hanno scritto in questi ultimi anni di Berto. C'è Corviè, su "Settimo Giorno" che sotto il titolo «Berto Ricci, poeta per natura e per disciplina letteraria», scrive: «Non gli bastava essere artista, voleva conoscere le ragioni del suo vivere come uomo tra gli uomini; non si accontentava delle parole, voleva cose. Generoso e disinteressato, per sè non chiese che sacrifici, sofferenze e morte. Non i suoi nemici dovevano aver paura di un simile carattere, ma i suoi amici, quelli della sua parte».


«Mai visto» e questo è Luigi Personè, professore di liceo, oggi vecchio, che così ha scritto sulla "Nazione" del 4/31/86 «un uomo che capisse così intensamente i bisogni dell'altro». Ecco, qui si potrebbe fare il paragone tra la politica odierna ed i tempi di allora. Qui c'è, lo sbalzo.


La politica, che cos'è poi in definitiva? Se ci si fa caso, la politica è il sapersi occupare dei problemi degli altri come se fossero propri, fino a morirne. Questa è la politica. No, dovrei dire: questa era la politica. Scrive ancora Personè a proposito di Ricci:


«Sulla vita, sul mondo e sul nostro percorso egli aveva opinioni sicure, incorruttibili ed incorruttibile era soprattutto lui, povero, rifuggiva da qualsiasi vanità. Un'antica sapienza calata nella realtà moderna. La sua camera da letto, che io ho visto, era spartana, (è morto a 35 anni, quest'uomo) e spartana era la sua concezione morale: un letto di ferro, un tavolino ricoperto da un tappetino carico di libri ed al muro uno scaffale qualsiasi con altri libri, non c'era altro». Non può venir fuori un interessante confronto con la vita dei politici d'oggi.


In un'intervista fatta a Gassman ed ad Alberto Sordi sulla "Repubblica" leggo: «Ci troviamo di fronte ad un'Italia brulicante di palazzinari, opportunisti, corrotti, corruttori, inattendibili monsignori, importantissimi falliti, avvocatucoli di pretura, di cassazione, minuscoli fanatici, trionfanti mediocri, prevedibili vigliacchi, improvvisi mascalzoni, detestabili diritti, ...» e potrei continuare.


L'Italia d'oggi è degnamente rappresentata dal cinema con gli italiani di tipo medio illustrati da Alberto Sordi. Il cinematografo è, tra le arti, quella che rende meglio l'immagine che in letteratura non c'è più. Al cinema con Antonioni l'incomunicabilità -cioè l'impossibilità di parlarsi- fra padre e figlio, fra italiani. L'incomunicabilità, la fuga nella fantasia di Fellini e il tipico italiano medio di Alberto Sordi: è il cinema che rende bene questa situazione. Perché, quindi Berto Ricci oggi?


Perché siamo in una fase revisionista.


L'Italia è stato come un pugile messo knock out, nel '45. Questa Italia è andata al tappeto, e c'è rimasta, fino all'8/5/78: quando si trova il cadavere assassinato di Aldo Moro in via Caetani, ad una distanza uguale tra il palazzo delle Botteghe Oscure e la sede di piazza del Gesù della Democrazia Cristiana.


Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che l'Italia fino al '78 è una Italia che è fuggita dalla storia; che ha vissuto della cronaca illustrata da Alberto Sordi. Cioè l'Italietta piccola e vile, l'Italietta utilitaria, l'Italietta che nel benessere è cresciuta enormemente, (infelicità nostra). Ma l'8/5/78 l'Italia cambia: le piazze si svuotano improvvisamente, le famiglie si riprendono i ragazzi in casa, si ha la rivisitazione storica, si ha una ripresa della memoria storica, si ha una ripresa della Nazione, si comincia a riflettere.


E questa Italia era andata al tappeto nel '45 con la tragica rappresentazione di piazzale Loreto.


Piazzale Loreto: cosa rappresenta nella storia d'Italia?


Fateci caso: io so perché vado, ogni tanto, a Predappio. Io ed i miei amici di partito, di comunità, lo sappiamo. Ma perché a Predappio ci vanno tanti italiani che non sono stati mai fascisti e non lo saranno mai? Che ci vanno a fare?


Ci vanno perché Predappio è il muro del pianto del nostro Risorgimento nazionale, è la fine di una concezione, dell'Italia con un ruolo nel mondo: l'Italia grande, un'Italia che faceva sentire il suo cuore, valere le sue grandissime qualità. Insomma è a Predappio che si ha la rivisitazione della storia. Ed ecco perché spunta anche Berto Ricci e spunta perché i Tranfaglia e gli altri antifascisti dichiarati, quando si trovano di fronte alla figura di Berto Ricci, debbono dire: alt, qua c'è qualcosa di veramente diverso.


Perché, vedete, Berto Ricci diceva: «Ci sono Inghilterre che abbiamo dentro di noi che bisogna abbattere. E sono quelle, è quello il male: là dove prevale, là è il nemico. A chi ci rimprovera di volere la perfezione, si risponda finalmente e fieramente di «SI». Si risponda: «non addegna del nome di rivoluzionario chi non la vuole».


Rifare l'uomo. Qui è fallito anche il fascismo, chè l'uomo nuovo non è riuscito a farlo. Il nuovo tipo di italiano doveva essere quello che si ribellava alla legge del mercante: l'antico conflitto dell'oro contro il sangue. Chi non ha capito le ragioni profonde dell'ultima guerra, non capirà mai i polacchi, gli afghani, i palestinesi. Costoro vivono e combattono perché hanno una memoria storica. I popoli ricchi e i popoli poveri, Nord e Sud.


C'è qui da noi, oggi, una concezione dello Stato pensato al Nord, secondo due Italie: l'Italia coloniale e l'Italia ricca, opulenta, quella degli Agnelli. E la situazione è destinata a rimanere così, perché il partito egemone se perde i voti a settentrione li può sempre riavere al Sud, grazie al clientelismo. E allora, riequilibrata la situazione, si eternizza al potere.


Vi è una testimonianza su Berto Ricci di un uomo che è lo scettico per eccellenza, che è un epilettico della morale: Indro Montanelli, uno che in genere non crede nella massima parte delle cose in cui scrive.


Indro Montanelli avrebbe dovuto essere con noi. Non c'è perché gli piacciono i luccichii, gli piace vivere nella culla di quella grassa borghesia lombarda che gli dice «quanto sei bravo». Ho detto: un epilettico della morale. Egli, nel '55, scrive un articolo che andrebbe letto tutto, titolo: "Proibito ai minori di 40 anni". Ecco che cosa scrive:


«Quando dalla cittaduzza andai a conoscere il direttore del periodico "L'Universale", Berto Ricci, col quale avevo scambiato alcune lettere, anche per me il fascismo cominciò a contare qualcosa. Egli fu il solo maestro di carattere che io abbia mai trovato in questo Paese, in cui il carattere è l'unica materia in cui si passa sempre senza esame. E quando di lì ad alcuni anni ebbi deciso di voltare le spalle al fascismo, fu soltanto di lui che mi preoccupai. Infatti, andai apposta a Firenze a parlargliene. Mi stette a sentire, poi disse pacatamente. "Queste sono faccende in cui s'ha da vedersela con la propria coscienza e nessuno può essere d'aiuto a nessuno. Io ti dico soltanto una cosa, non pensare ai vivi, pensa a quelli che, per restare fedeli con le nostre idee, ci sono rimasti. Siamo un gruppetto di dieci-dodici persone, non di più. Per non arrossire di fronte a noi stessi, e l'uno di fronte all'altro, qualche cosa si è fatto e Paolo Cesarini ci ha lasciato una gamba e Carlo Rotolo ci ha lasciato la vita, lui che forse era quello a cui la vita più sorrideva. Pensaci, e pensa anche che se imbocchi quella strada devi batterla sino in fondo, sino al confino, o sino all'esilio. Questo solo ti chiedo: di poter continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di stimarti come amico e come alleato"».


Dirà poi Montanelli che strade non ve ne erano più: «Credevo di essere diventati, antifascista, ma non era vero, ero soltanto un fascista strano e stanco, anticipavo di qualche anno l'Italia di oggi, smaliziata e utilitaria, degli Italiani che non credono più. Entrai nella compagnia dei grandi scettici. Mai più mi sentirò come mi sentii allora, accanto a Berto, parte di qualcosa e compagno di qualcuno, voglio dire che mai mi ero sentito e mai mi sentirò giovane come in quegli anni e non solo perché ne avessi 20. Io sono fra i rassegnati, so benissimo che di bandiere non posso averne altre e l'unica che seguiterà a sventolare sulla mia vita è quella che disertai prima che cadesse. Ora che le commissioni di epurazioni non ci sono più, e quindi più non siamo obbligati a mentire per le solite ragioni di famiglia, forse è venuto il momento di rendere giustizia ai nostri venti anni e di riconoscere che essi furono migliori dei 40, e di dare ragione a chi morendo l'ebbe. Fummo giovani soltanto allora, amici miei». Questo è Indro Montanelli davanti a Berto Ricci.


Berto Ricci ci lascia due volumetti molto esili e introvabili: uno di poesie e l'altro di pezzi poetici. E sono tutta l'eredità che lui lascia. È sempre Montanelli che dice: «sulla prosa poetica mi pare di poter dire che la letteratura giornalistica italiana non ne abbia avuta più una di così stringente, dura e, qua e là, spavalda».


Il mio incontro con Berto Ricci avvenne proprio ritornando dalla prigionia, sui mercatini del libro usato, quando 40 anni fa si andava noi alla ricerca di libri che non si trovavano più nelle librerie. Libri che giustificassero la nostra rabbiosa fedeltà ad un regime vissuto in pantaloni corti. Ed è lì che mi incontrai con un libro intitolato "Avvisi" costituito da stringatissimi editoriali, con una prosa minuta, paragonata alla pittura del Rosai, semplice e grande.


Poi riuscii ad avvicinare la sua famiglia. La moglie, un giorno, apri un vecchio baule e tirò fuori i quaderni di Berto, che sono i quaderni di un Gramsci del fascismo; e allora capii che dietro a quei stringatissimi "Avvisi" c'era una cultura formidabile, filtrata, non mai esibita. Una cultura che andava dalla letteratura giapponese a quella americana, a tutto il Quattrocento e tutto il Cinquecento.


Erano, Berto e i suoi amici, uomini, veramente diversi.


Il fratello di Rosai, Bruno, scriveva: «Senza una meta precisa prendevamo ad andare lungo le strade che sfociavano nella campagna, esaltandoci ogni volta nel sentirci dentro il fermo paesaggio notturno. Le nostre conversazioni quotidiane, spesso accese come liti, avevano la tendenza a non trovare mai fine. Qualche volta si continuava a passeggiare tutta la notte, sempre accaniti intorno agli stessi argomenti e si rincasava all'alba, per ricominciare il giorno dopo».


Qualche volta si continuava a passeggiare tutta la notte... sempre accaniti... Ma l'amicizia era questa: ci si parlava, non c'era quell'incomunicabilità che oggi ci è stata instillata, da un grande uomo politico, ma non positivo, come è stato Aldo Moro; il quale, per trasformare la Democrazia Cristiana da partito cristiano-sociale in partito diverso, ha dovuto inventare un linguaggio nuovo, un linguaggio oscuro. Leggete i comunicati della Democrazia Cristiana: non li potete interpretare se non avete il vocabolario o il traduttore per capire. Perché in quei comunicato, tutto vi sembra inutile. Ma c'entrano quattro fasi che sono l'essenziale, e che le capiscono solo gli intenditori. È un linguaggio torvo, che copre ogni operazione alle spalle dei popolo.


L'incomunicabilità: perché oggi, anche tra amici più cari, siamo frettolosi, ci si saluta e via, arrivederci e la vita scorre così, grigia. Allora no, allora discutevano fino a tarda notte, fino all'alba, scherzavano il giorno dopo...


Ecco alcune definizioni sulla destra politica di Berto Ricci: «Bisogna diffidare delle destre nazionaliste, antisemitiche, antibolsceviche, antiparlamentari che si mettono in divisa fascista, arrembano il potere e danno elegantemente lo sgambetto a chi ce le ha portate col proprio sangue: camicie verdi o guardie di ferro». 0 quest'altra definizione del militarismo: «Le confusioni ideologiche ed i facili innamoramenti per i quali un qualsiasi generale a riposo che si mette a parlare di governo forte ed a mobilitare un po' di ceti medi può passare per un banditore del verbo di Mussolini. Ebbene questa gente ci ha già fatto più male della grandine». Tutte queste cose le scriveva quando era vivo Mussolini, vivo sua Maestà Vittorio Emanuele III.


Nel '33, si badi bene , egli scriveva inoltre: «Venga presto per il bene della cristianità, un Papa gagliardo, rivoluzionario, che sprotestantizzi la Chiesa, spenga la politica e ravvivi la religione. Lasci alle donnucole le polemichette puntigliose, riporti nel mondo l'alito del Vangelo. Riceva, si, i pellegrini d'America, ma si mescoli anche alla plebe di Trastevere ed entri, Vicario di Cristo, nelle case popolari di S. Frediano».


E così continuava: «Diciamolo francamente, noi non ci spaventeremmo tanto di un clero macchiato di lussuria, di simonia e di ferocia, quanto ci preoccupa questo esercito di impiegati in tonaca, irrimediabilmente malati di mal borghese. È nel peccato una grandezza, un principio, forse, di santità. Nell'inerzia dei borghesi mediocri non c'è che buio; una volta immersi selvaggiamente nella vita terrena, estranei all'essenza di questo e di quello, affacendati a radunar tessere e a parare altari».


E scriveva, vivo Mussolini, sulla Spagna repubblicana, quella dell'altra parte: «I ribelli spagnoli hanno saputo guardare in faccia con abbastanza tranquillità i plotoni di esecuzione. E una idea capace di preparare gli uomini alla morte merita vittoria e merita rispetto nell'Italia del Comandante Umberto Maddalena» (Umberto Maddalena era il comandante che aveva scoperto per primo la terra rossa di fronte al Polo; grande aviatore).


Si battè sempre, Berto Ricci, per la libertà; e nei suoi scritti, pubblicati in una rivista ultra-fascista, si ritrovano tutte le critiche di costume che sono poi state fatte al fascismo, ma a babbo morto, dagli antifascisti tipo Brancati. Le sue ironie sul goffo fascismo delle parate, Berto le farà da fascista. Gli bastavano tre righe:


«Un'adunata non è Austerlitz, un treno festivo non è la marcia su Roma: chiediamo alla stampa italiana buon senso e misura... Discorsi che si aprono con alacri invocazioni, sedute inaugurali che si chiudono con la consegna di artistiche pergamene, assemblee che scattano con un solo uomo, ma fino a quanto mio Dio?» Ciò scriveva, vivo Mussolini. Non è vero che non c'era libertà durante quel tempo. Berto Ricci tutte queste cose le ha scritte allora. Non ha aspettato che Mussolini fosse appeso ai ganci di piazzale Loreto per scriverle.


«Benone, noi facciamo questo foglio assai più per mannai e macellai che per i colletti duri e proseguiremo con quella schiettezza toscana che dà noia a tanti galantuomini e forestieri e seguiteremo a dir bene e male di quel che ci piace e non ci piace; troppa gente c'è oggi in Italia che batte le mani a tutto e a tutti e approva ogni cosa. Qui si tratta di deboli schiene italiane».


Questi ragazzi de "L'Universale" avevano allora diciannove, venti anni, non di più; ventitrè, al massimo; e avevano delle mete ambiziose. Se si apre il primo "Avviso", ci si accorge di come si proponevano delle mete spropositate. Dicevano: «Fondiamo questo foglio con volontà di agire nella storia italiana, contro la filosofia regnante... abbiamo l'ambizione incredibile di portare la letteratura e l'arte all'altezza del primato».


Avevano ambizioni forti, però non erano solo degli «intellettuali», perché l'ultimo "Avviso", quando scoppia la guerra di Abissinia, dice: «Si chiude il giornale». E vanno tutti volontari in guerra. Il volontariato italiano finisce con loro, con la Repubblica Sociale Italiana e con la «Resistenza». Dopo una tradizione che si rifà al Risorgimento italiano: al repubblicano Frati che muore in Grecia trovano una pallottola in un libretto che teneva nella sacchetta, forato, dove c'era scritto: «Tu idea sei il mio ideale». Era un repubblicano del Novecento che andava come volontario, così come gli italiani andati volontari a combattere nella Spagna.


IL volontariato è una tradizione terminata col '45. Nel Vietnam non ci è stato un volontario, in Algeria non è partito nemmeno un italiano.


Questi ragazzi de "L'Universale", invece, alle parole scritte facevano seguire i fatti.


Libri autorevoli di antifascisti (uno dei quali e: "Il lungo viaggio attraverso il fascismo") riportano che Berto Ricci non ci credeva più nel fascismo, e che, andando in guerra, si era volontariamente suicidato.


Ha scritto Michele Giancarli: «La volta successiva, io che andai a trovarlo, lo trovai solo con la moglie: i gerarchi avevano accolto senza indugio la domanda di volontariato di Ricci, lo avevano soddisfatto in pieno, spedendolo in prima linea come camicia nera. Poche settimane dopo, i giornali recarono la notizia che Berto Ricci era caduto da eroe e specularono, come è facile intuire, sul suo olocausto: si trattò di un consapevole suicidio».


Sono bugie, sono menzogne. Leggo due delle 12 lettere che Berto scrive al potente Pavolini, per andare al fronte.


«Caro Pavolini, vi chiedo un favore ... mi sentirei pochissimo a posto dinnanzi a me stesso e all'Italia se restassi a casa mentre si combatte. Aspettavo una cartolina che non viene, voi siete uomo da capire uno stato d'animo che mi dà giornate bruttine. Ho fatto domanda al distretto per essere assegnato ad un reparto combattente, ma ho paura che la domanda resti là a dormire. Non so come andranno le cose dopo la capitolazione francese, ma credo che la partita con gli inglesi non sarà nè brevissima, nè vana. Insomma, vi chiedo, caro Pavolini, di appoggiare questa domanda che ho fatto; tanto se resto a casa sono un uomo inutile, non son più buono nè a scrivere un rigo, nè a dire una parola e come me ce ne è tanti. Almeno ai giornalisti dovrebbe essere concesso di combattere. Aspetto da voi una parola e vi ringrazio perché so che farete quel che potrete. Il vostro B.R.»


E ritorna alla carica: «Caro Pavolini, è destino che questa guerra mi faccia patire e far patire molto. Io sono sottotenente di artiglieria di Corpo d'Armata ed avevo chiesto di essere assegnato all'Unità combattente. Un telegramma del Ministero della Guerra al distretto di Firenze mi ha assegnato al Settimo Reggimento Artiglieria, Divisione Fanteria Pisa. Avrebbero dovuto mandarmi invece al Settimo Artiglieria di Corpo d'Armata di Livorno; e il Reggimento mi ha schiaffato alle Batterie costiere di Marina di Pisa: una bella Unità combattente ed una solenne fregatura per me. Così son servito, e se non mi levano di qua, mi sentirò tanto umiliato da considerarmi finito come scrittore politico. A te mi rivolgo, ancora, mio caro Pavolini, dolente per tutte queste seccature, ma con l'affetto e la fiducia di sempre. Fiducia nella tua pazienza e nella tua stima».


Questo è un uomo che voleva andare a combattere. Pochi giorni prima di morire, in una lettera alla moglie, (perché con i genitori aveva dei rapporti molto duri; i suoi genitori era affettuosissimi con lui, ma non condividevano la sua passione politica) scriveva:


«Dì ai miei genitori di non mandarmi pacchi, ora. Non sono stato e non sto con le mani in mano, ma seguito a chiedere di andare ad un fronte qualsiasi (ed era in Cirenaica) e potrebbe darsi, Dio lo volesse, che partissi da un momento all'altro. Tanto, ormai la Tripolitania l'ho vista anche quella, e sarebbe ora di cambiare paesaggio».


Sempre alla moglie dice: «Ai ragazzi penso sempre con orgoglio ed entusiasmo, siamo qui anche per loro, perché questi piccini vivano in un mondo meno ladro e perché la sia finita con gli Inglesi e con i loro degni fratelli di oltremare, ma anche con qualche Inglese d'Italia. Vi abbraccio affettuosamente. Il tuo 8erto»


Questo non è lo scettico che non crede più e che, depotenziato e demoralizzato, va a morire. Questo sa per che cosa combatte, sa perché è là.



 


Berto Ricci era fatto per diventare comunista?


Alcuni, che gli furono vicini e che sopravvissero a "L'Universale" e alla guerra, sono diventati comunisti. Romano Bilenchi diventa comunista.


È pur vero che Bilenchi ed altri cresciuti con Berto non si spogliano mai del grande amore per l'Italia, anche da comunisti. Amore che marca tutta la loro prima esperienza culturale. Dunque Berto Ricci come loro?


Nel suo ultimo e impegnativo scritto per la ripresa de "L'Universale", l'elemento antagonista con cui simpatizza sono indubbiamente le cellule comuniste: «0 facciamo noi queste cose o le fanno loro» diceva.


L'ipotesi di un Berto Ricci comunista è allora possibile? Poniamoci la domanda: Berto Ricci come Davide Laiolo (detto Ulisse, federale di Ancona, scrittore, combattente, volontario in Spagna con Franco; che si ritrova poi direttore de "l'Unità" di Milano e deputato del partito comunista italiano)? Ecco quale tipo di prosa usciva dalle mani di Davide Laiolo, quando costui era fascista: «Un attenti urlato nel silenzio di Palazzo Venezia ci fa irrigidire. È nella sala, la sala è piena di lui, noi non esistiamo che in lui, Legionari di Spagna. Passa davanti ad ognuno lentamente, ma quei suoi occhi paiono più grandi della sala stessa, profondi, lontani, vicini, buoni e terribili, gli occhi del Duce. L'orgoglio di fissarsi in quelle pupille di entusiasmo mi accende, ecco, il Duce è davanti a me, guarda me. Voglio allora urlare il suo nome, forte come una cannonata, ma un'onda di commozione mi assale e mi serra la gola. Bisogna guardarlo estasiato; si sente ancora l'attenti, non ci si può contenere. "Duce, Duce". L'urlo tremendo scuote tutta la sale e ripete gli echi di tutto il Palazzo su Roma-...


Ma Berto Ricci di fronte a Mussolini che cosa scriveva?


«Compito del futuro immediato, di educazione alla libertà è fare vedere che non si può proseguire all'infinito sulla via del saluto romano, rompete le righe e zitti. Che il fascismo si decida: o con Dio o con il diavolo, o sistema invariabile delle nomine dall'alto o partecipazione del popolo allo Stato, e non semplice atto di presenza alle adunate e versamento dei contributi sindacali. Affogare nel ridicolo chi crede nella discussione e nel dialogo, chi non capisce le funzioni dell'eresia, chi confonde Unità e difformità. Far capire che, se non si fa questo, hanno ragione i fondatori di cerchie comuniste e finiranno per averla davvero. Finirla con l'asfissiante frasario a base di ordini e basta. Libertà da conquistare e da guadagnare, da sudare. Libertà come valore eterno incancellabile e fondamentale. Mostrare come la civiltà, la moralità fascista, non possa consistere nei soli ingredienti di fede e polizia. Che anche la libertà di manifestare opinioni, di fare un giornale che dica queste cose è secondaria dinnanzi a quella che l'ultimo italiano deve esercitare: di controllo dei pubblici poteri, di denuncia aperta dell'ingiustizia, di prevaricazioni, da chiunque commessi».


Come accettare, per «ragioni di partito», di chiudere gli occhi su ciò che accadeva dentro il comunismo di Stalin? Come avrebbe potuto, lui che non sopportava i federali, inchinarsi agli ordini di un Togliatti, di un Alcata, di un Ingrao, di un Natta, o di un Occhetto? Provatevi a proiettare nel futuro il personaggio che ho cercato malamente di descrivervi, questo grande fiorentino, e domandatevi: Berto comunista?


Il cuore ci dice di aver rispetto per Berto, un uomo che con la propria vita ha provato la profondità delle proprie convinzioni.


Scrive Giovanni Gentile nel sommario della pedagogia "Un Uomo vero è vero uomo se è martire delle sue idee e non solo le confessa, ma le attesta, le prova, le realizza fino alla morte».


La sua fierezza di cuore e la dedizione di tutte le ore al fascismo gli vietarono di dare quello che avrebbe potuto dare alla letteratura italiana.


Abbiamo perduto qualche splendido libro, ma si è avuto sottomano il libro aperto di una umanità fatta uomo senza pari, che operò, sofferse, ebbe e dette, dalla forza, la fede. E del resto, piaccia o no (per dirla con lui) ai babbuini, ai fiaschi vuoti, ai palloni gonfiati, agli agnostici, ai cinici, resta uomo di viventi e cocenti passioni. Fu una coscienza senza sonno, innamorata di quella: «Italia dura, taciturna, sdegnosa che portava la, sua anima in salvo soffrendo delle contraddizioni dei ciarlatani, dei buffoni, dei letterati e dei commendatori, l'Italia che ci fa spesso bestemmiare, perché la vorremmo più rigida, più attenta, più macra, vicina alla perfezione dei Santi».






Tratto da: www.beppeniccolai.org

lunedì 19 maggio 2008

EVOLA, L’ANTIMODERNO. [A 110 anni dalla nascita]

Julius Evola è uno di quegli uomini della riflessione, che siam soliti chiamare filosofi, di cui spesso si sente parlare anche a sproposito all’interno di certi ambienti culturali, ma che, fondamentalmente viene dai più completamente accantonato. Come si è avuto modo di spiegare in più circostanze e come è sempre bene ribadire, ogni pensatore vive di sé e degli altri che con lui si pongono in confronto. Non è possibile inquadrare né tantomento catalogare nelle strettoie di un incartamento becero ed infantile, la portata straordinaria di ciò che ogni uomo del pensiero ci offre con le proprie osservazioni, con le proprie intensità e con le proprie sensazioni, sempre inserite nel tempo e figlie di un divenire, che non può disconoscere la sua essenzialità ontologica. Se un grande insegnamento la filosofia cosiddetta continentale ci ha dato, è proprio quello connesso al carattere prospettico e impersonale della realtà che ci circonda: senza dilungarci troppo sul valore fondamentale della riflessione ermeneutica dobbiamo comunque osservare il contesto in cui Evola storicamente si inserisce, il tratto storico-teoretico che tutta la riflessione occidentale ha vissuto come compimento della parabola cominciata decenni prima con l’irruenza antimetafisica di Friederich Nietzsche, forgiata attraverso la fenomenologia di Husserl, portata a concretizzazione da Heidegger e proseguita da Gadamer, senza che niente venisse scalfito dai mille eventi che avevano nel frattempo radicalmente cambiato la situazione europea (due guerre mondiali, indipendentismi, processo di Norimberga, terrorismo, sessantotto e via dicendo). La reazione contro la metafisica tradizionale, il ritorno ai pre-socratici (Eraclito, Parmenide, Anassimandro…), la decostruzione dell’antropocentrismo, il superamento del rapporto soggetto-oggetto, la critica della Ragione, il nichilismo quale fenomeno onto-storico e destino improcrastinabile di un’umanità ormai irretita nell’ambito dei vecchi e degenerati schemi del pensiero occidentale (la sottile linea antropocentrico-escatologica che legava platonismo, ebraismo, cristianesimo, illuminismo, empirismo, marxismo ed idealismo), il circolo ermeneutico come unica fonte di conoscenza, il rifiuto del mondo della tecnica quale dominio scellerato ed invasivo della volontà di potenza ai danni del mondo reale e tradizionale, erano tasselli su cui tutto il pensiero Novecentesco si è mosso, sin dai suoi albori. La morte di Nietzsche, avvenuta esattamente nell’anno 1900, e le sue profetiche e terrorizzanti parole (“Quella che vi sto per raccontare è la storia dei prossimi due secoli…”), hanno segnato indubbiamente un’epoca che ha vissuto sulla paura e sulla desolazione completa, in ogni angolo della cultura, filosofico, ovviamente, letterario, artistico, umanistico e politico. Per quanto, stracitato e spesso chiamato in causa anche oltre gli stessi intenti dell’autore, basti pensare all’importanza rivestita da un testo fondamentale come “Il tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler. Proprio da quest’ultimo, Julius Evola sembra particolarmente colpito, nel momento in cui, comincia a formarsi. La tormentata e controversa personalità del filosofo romano, stava attraversando un periodo particolarmente tragico, al momento del ritorno (nel 1919) dal fronte. Vicino al suicidio, affermò (come leggiamo nel suo Il cammino del cinabro), di aver rinunciato a questo gesto, dopo l’illuminazione in seguito alla lettura di un testo buddhista. Questo incontro, sulle stesse orme che mossero anni prima Schopenauer, non si esimerà dall’essere foriero di una nuova impostazione, che lo porterà a conoscere l’induismo e le teorie dell’Uno, così tanto sconosciute nel profondo e così tanto occidentalizzate, commercializzate e spudoratamente violentate nel corso degli ultimi decenni dalla cosiddetta new age o next age. A questo interesse si accompagnano i mai sopiti spunti esoterici e gnostici che lo hanno accompagnato. Testi come Imperialismo Pagano e soprattutto il più conosciuto Rivolta contro il mondo moderno, pubblicato in piena era fascista, non gli valsero le simpatie, ma anzi gli procurarono diverse noie e pure delle censure. Fu scomodo, per molti gerarchi, per quei cosiddetti fascisti della seconda ora, quelle fazioni conservatrici e burocrati, soggiunte a Fascismo ormai assestato e definito. La sua visione del resto ha sempre rimarcato un carattere sovra politico, anzi impolitico, che poco aveva a che spartire con la brutale normalità istituzionale ed amministrativa, e che mirava in alto, verso la più pura teoresi di quel mondo della Tradizione, da lui decantato e osannato. Ma cosa era in realtà questa Tradizione? E a cosa si contrapponeva? Fu nel dopoguerra, e precisamente nel 1951 che Evola, venne chiaramente coinvolto nel processo al movimento paramilitare dei FAR, organizzazione neofascista, quale presunto teorico e intellettuale di riferimento. Fu naturalmente assolto con formula piena, malgrado l’isteria antifascista di tutto il dopoguerra avesse persino portato sul banco degl imputati, una persona totalmente estranea ai fatti, senza prove, senza legami espliciti o meno, ma solo sulla base di una presunta connessione intellettuale. Da quel tipo di difesa e da quel distacco intrapreso verso tutto ciò che riguardava la dimensione politica nel senso più strettamente partitico del termine, possiamo subito capire che le origini del pensiero evoliano, nascevano molto più indietro e avevano radici ben salde in una sorta di filosofia della storia, che (non di rado ispirata da Guenon), rileggeva il passato del corso temporale attraverso una disamina chiara e precisa, che poneva in netto contrasto due principi: il mondo della Tradizione da un lato, ed il mondo dell’antiTradizione dall’altro. L’umanismo nel mezzo, a far da mezzavia, era indicato come il momento critico, il punto dell’irreversibilità antitradizionale, nel quale vengono poste le basi per lo sviluppo del cosiddetto homo hybris, nel quale scompare ogni richiamo al Sacro, ogni senso gerarchico, ogni assoluto. La trascendenza, quale mezzo di coglimento per l’uomo della Tradizione, svanisce sotto i colpi del laicismo, sotto i colpi dei miti del progresso e dell’homo faber fortunae suae, tipici della tendenza trionfante all’interno della pur vasta cultura umanistico-rinascimentale. L’individualismo trasudante e baldanzoso, che uscì fuori da questa rivoluzione catastrofica, si traslò sul piano più strettamente ideologico nel liberalismo, nell’anarchismo sociale, nel marxismo e nel totalitarismo, sia democratico sia dittatoriale. Riprendendo Guenon, l’umanismo era esattamente la sintesi del programma che l’Occidente moderno aveva ormai inteso seguire, per mezzo di una vasta opera di riduzione all’umano dell’ordine naturale: qualcosa di presuntuoso e sconvolgente, la cui precisa critica mostra chiaramente i punti di contatto con la Genealogia della morale affrontata da Nietzsche e con i Saggi di Heidegger. La Rivolta evoliana è qualcosa che, probabilmente resta indietro rispetto ai maestri tedeschi, e in parte paga ancora un lascito terminologico alla metafisica che invece Egli intendeva abbattere, ma indubbiamente il valore, il nisus, il punto ottico di osservazione teoretica pare quasi essere lo stesso. Il progresso è niente altro che una “vertigine”, un’illusione, con la quale l’uomo moderno viene ammaliato e ingannato: una auto illusione, che lo porta in una dimensione di progressivo oblio dell’essere autentico (ancora Heidegger, come vediamo), in favore dell’ormai avvenuto e sempre più imbattibile matrimonio con l’antropomorfizzazione del mondo. La Tradizione, con i suoi valori gerarchici (“dall’alto verso l’alto”), con il suo carattere cosmologico e ciclico (indistinzione uomo-natura, homo hyperboreus e circolarità storica – ancora Nietzsche con l’eterno ritorno), con la sua concezione sacrale-trascendentale, si mostrava come la sola vera arma in condizione di opporsi alla degenerazione causata dai miti metafisici, antropocentrici e razionalistici, e da fenomeni sociali quali il progressismo, la secolarizzazione, il laicismo e l’ateismo materialista. “Umanistica è quella cultura nella quale principio e fine cadono entrambi nel semplicemente umano: è quella cultura priva di qualsiasi riferimento trascendente o in cui tale riferimento si riduce a vuota retorica, che è priva di ogni contenuto simbolico, di ogni adombramento di una forza dall’alto. È umanistica la cultura profana dell’uomo costituitosi a principio di sé stesso, quindi metafisicamente anarchico e intento a sostituire a quell’eterno, a quell’immutabile e a quel super-personale, di cui egli ha finito col perdere il senso, i fantasmi vari e mutevoli dell’erudizione o dell’invenzione dell’intelletto o del sentimento, dell’estetica o della storia”: in queste riflessioni potremmo sintetizzare il pensiero più radicale ed interiore di Evola, osservando in esse il carattere tradizionale, che lo portò a negare la validità del darwinismo, dell’evoluzionismo e dell’ugualitarismo, in favore di una weltanschauung forgiata sui significati antichi di imperialità, gerarchia e razzismo (o meglio ancora, razzialismo) spirituale. La morte di Dio, annunciata dal folle deriso nella Gaia Scienza di Nietzsche, è un punto di partenza ineludibile, per comprendere cosa significhi nel profondo la perdità dell’ordine, il senso di sconforto per l’abbattimento dei valori tradizionali e il senso di disorientamento, quale destino onto-storico (il nichilismo come ospite indesiderato) di una civiltà autodistruttiva come quella umana, appunto, affidatasi volitivamente a nuovi (dis)valori, in aperto contrasto con quella che è l’essenza più autentica dell’ordine naturale del mondo, abbandonando ogni senso atemporale ed ontologico del pensiero, e sviluppando una concezione calcolante, transeunte e mercantile della ragione umana, finalistica e teleologica, individualista e materialista. Pensare di poter ricondurre il suo pensiero alla mera dimensione politica, sarebbe una violenza inaccettabile, così come tentare di elasticizzarne le asperità o le parti più scomode. Di fronte ad un grande uomo del pensiero, abbiamo sempre un grande tesoro, forte di un’apertura semantica continuamente attingibile e sempre esplorabile attraverso nuove chiavi di lettura. Non chiudiamone il raggio, non limitiamoci a ciò che più interessa ad ognuno di noi, non compriamone una parte per buttarne via delle altre: non siamo al mercato, non siamo mercanti, non siamo clienti. Siamo uomini.



Comunità Militante Perugia - Associazione Culturale Tyr