lunedì 28 giugno 2010

Don Verzé e la vita oltre i 120 anni.


E’ da qualche tempo che Silvio Berlusconi [nella foto con don Verzé] va dicendo in giro che intende vivere fino almeno a 120 anni. Chi aveva scambiato l’affermazione dell’istrionico italiano per una delle sue solite boutades è costretto a ricredersi: è più plausibile che si sia trattato, invece, di una smagliante operazione simpatia, di una campagna marketing condotta in prima persona e di cui solo oggi si rinviene il contenuto.  Ce lo rivela, su Il Giornale di quest’oggi, una certa Melania Rizzoli, medico e deputato PDL, nell’articolo di prima pagina: “Ultracentenari col microchip“.



L’istituto San Raffaele del sacerdote amico di Berlusconi, don Verzé, promette agli ottuagenari del nostro Paese che acconsentiranno a lasciarsi impiantare un microchip sottocutaneo, di prolungare la propria vita fino a 120 anni: sarà dunque il paraninfo imprenditore ad assumersi la responsabilità del collaudo in Italia di uno dei simboli più discussi e oscuri del Nuovo Ordine Mondiale, e lo farà servendosi di un impeccabile ecclesiastico impegnato nella ricerca scientifica.



L’oligarchia mondialista  che insegue con pertinacia l’obiettivo storico e ‘metafisico’ della unificazione totale del mondo e della soluzione  definitiva dei conflitti umani, ha dunque trovato in Berlusconi il garante e nel serafico don Verzé l’esecutore dell’operazione che realizzerà in Italia,  superati i timori iniziali dei profani e ridicolizzati come “complottisti” gli oppositori, uno dei sogni piu’ ricorrenti dei “fanatici dell’apocalisse”, quello di ridurre schiavo l’intero genere umano.



Una pletora di bambagioni ultracentenari semi-viventi in un villaggio globale pattugliato da sgherri di sicurezze private, videosorvegliati nei loro quartieri residenziali ghetto, monitorati costantemente dalla polizia del pensiero  asserragliata fin dentro il proprio corpo, sotto pelle, provvederà a garantire il necessario afflusso di umane energie in coltura protetta di cui gli oligarchi hanno ancora dannatamente bisogno.



Certo, sara’ tutto molto piu’ asettico e sicuro: secondo la medichessa berlusconiana i bambagioni si traineranno ognuno un computer che li aggiornerà su ogni pillola da prendere e a che ora… La vita, cosi’ appianata, potra’ finalmente mostrare quelle regolarità sociali che tanto amano i programmatori e gli statistici; il crimine scomparirà e forse ne potrà essere prevista l’intenzione da un’apposita squadra di poliziotti-veggenti.



I bisogni umani, biologici e psichici, saranno selezionati e tutorati da sociologi e psichiatri con accesso ai tuoi dati personali. Non si verificheranno esplosioni elleniche né macelli pulp stile Gomorra, non leggeremo ancora le efferate cronache del nostro squallido oggi: nessuno ruberà  le buste della spesa dalle mani ancora palpitanti dell’infartato sdraiato sull’asfalto; i  terminali e i congegni elettronici invisibili impiantanti nell’arto del nonnetto si mostreranno piu’ pietosi delle mani nodose e gelide degli infermieri che sottraggono al collo di tuo figlio in coma la catenina della fidanzata.



Sfruttando gli atavismi istintuali legati al timore dell’aldiqua e dell’aldilà presenti nelle masse, le illuminate istituzioni tecnoscientifiche e “religiose” del pianeta cooperano servizievolmente per adempiere alle direttive delle alte gerarchie. Scienza e religione, infatti, lungi dal contrastare, come presuppone ancora  una sinistra disarmata concettualmente e ferma alla retorica  razionalistica dei “lumi”, si integrano  invece nell’ epoca della tecnica e della “persona umana” e insieme presiedono al culto terraneo del nuovo vitello d’oro: quella pseudo vita proclamata sacra e inviolabile dagli ierofanti in saio e dagli scherani in camice bianco.



Non è forse un caso che una  notizia di tale portata appaia su un giornale berlusconiano: passa subdolamente come panacea per una popolazione sempre piu’ vecchia e avvilita, senza speranze di condurre una vita dignitosa sotto il profilo esistenzale nell’immefiato e nel futuro. E’ anche significativo che vengano rese note le pratiche mediche legate all’uso del microchip proprio subito dopo che si e’ votato per la legge-bavaglio che manda in galera i blogger e chiude i siti politicamente scorretti.



Chi del resto si considera ed è già da sempre  null’altro che “persona”, maschera, robot, golem, cosa non farebbe per prolungarsi l’esistenza in quell’ unico livello di vita per lui comprensibile e a lui corrispondente: lo facesse pure  ma lasciasse in pace gli altri che non intendono prendere parte al delirio.



Il tempo di “passare al bosco” e’ dunque arrivato, solo chi si rende waldganger può staccare pietosamente la spina ai morti viventi  come aveva fatto, con un gesto sinceramente cristiano sconosciuto ai don Verzé,  Jack Nicolson nel film  Qualcuno volo’ sul nido del cuculo.

Di Mario Cecere, tratto da www.mirorenzaglia.org


domenica 27 giugno 2010

GIUSTIZIA PER CARLO PARLANTI, UN INNOCENTE SEPOLTO VIVO IN UN CARCERE USA.


ROMA – Carlo Parlanti è un uomo rimasto vittima di una vicenda giudiziaria che ha dell’incredibile per il modo in cui è nata e per gli angoscianti risvolti che ha avuto e continua ad avere oggi. E’ un uomo la cui vita è stata rovinata da una condanna a nove anni di reclusione per i reati di violenza sessuale e sequestro di persona, che, secondo l’accusa, egli avrebbe perpetrato ai danni della sua ex convivente, Rebecca Mckay White. Da quel lontano 2004, anno dell’arresto, molti lo hanno considerato come un’ombra, e come per le ombre, nessuno gli presta attenzione. Ed il punto è proprio questo: l’attenzione. Chi poteva aiutarlo non l’ha fatto e le sue vicende giudiziarie e personali sono praticamente sconosciute. Che Carlo sia innocente o meno non spetta ai cittadini comuni dirlo, esistono delle persone preposte a far funzionare la legge nel modo più corretto. Ma oggi sono tanti gli interrogativi che mettono quanto meno fortemente in dubbio il percorso lineare della giustizia americana nei confronti di Carlo Parlanti. Oggi Carlo rappresenta forse il caso più importante tra i detenuti italiani all’estero. E’ malato, è lontano dai suoi affetti più cari. Le istituzioni italiane debbono fare qualcosa per lui, intervenire con gli Stati Uniti, da sempre paese amico, per accertare la verità. Perchè sono tante le prove che in questi anni fanno concretamente traballare la macchina giuridica americana e Carlo, come ogni cittadino, merita che si sappia la verità.


UN GIOVANE COME TANTI, CON TANTI SOGNI  - Carlo Parlanti nasce a Montecatini nel 1964. Cresce in una famiglia come tante altre, studia allo scientifico, dopo la maturità si iscrive alla facoltà di Fisica. A venticinque anni decide di recarsi a Milano per cercare un lavoro e mettere a frutto i suoi studi: il suo curriculum vitae arriva sulla scrivania di un’importante multinazionale alimentare, la Nestlè: inizia a lavorare come analista di sistemi e project manager. La sua carriera prende da subito il volo, si sposta spesso in giro per l’Europa, la sua strada sembra oramai in ascesa. Nel 1996 decide che l’Italia non può offrirgli più quello che cerca. Il nostro Belpaese  non dà la possibilità di una crescita concreta (dopo un quindicennio le cose non sono ancora cambiate, vedi la fuga dei cervelli che oggigiorno lasciano l’Italia). Allora Carlo pieno di sogni e di speranze, animato da coraggio, parte per l’America. Sognando la California (come canta una celebre canzone dei The Mamas & the Papas). L’ambito lavorativo prosegue a gonfie vele, a cui poi si aggiunge quello sentimentale. È il 2001, precisamente nel mese di aprile, quando Carlo Parlanti conosce Rebecca McKay White, lavorante presso una gioielleria, di qualche anno più grande di lui. A novembre lo stato della California, così come gran parte dei Paesi occidentali, viene colpito dalla piaga della recessione. La crisi, la paura (è di pochi mesi prima l’attentato alle Twin Towers). Rebecca McKay White per proprie responsabilità perde il lavoro, è in un momento di difficoltà. Con Carlo decidono di andare a vivere insieme. I due si spostano da Monterey al Westlake Village, vicino a Malibu. La relazione tra i due però sarà poco duratura: difatti, il 16 luglio 2002 la storia finisce. Due giorni dopo, il 18 luglio 2002, la donna sporge denuncia contro il compagno, ormai ex fidanzato. Tre le accuse gravissime mossegli: sequestro di persona, percosse e stupro. Carlo, inconsapevole di tutto ciò che gli stava succedendo attorno, decide di tornare in Italia. Per due anni vivrà normalmente, libero ed ignaro della vicenda che, nel luglio 2004, lo travolgerà. È proprio in quel periodo infatti che, durante un viaggio di lavoro, Carlo Parlanti verrà fermato all’aeroporto di Dusseldorf, in Germania, a causa del mandato di cattura internazionale che pende sul suo capo come una spada di Damocle. Trasferito nel carcere locale, vi rimarrà rinchiuso per quasi un anno, senza la possibilità di comunicazioni in lingua italiana. È paradossale come il mandato di arresto spiccato dalle autorità statunitensi nei confronti del Parlanti non sia mai stato inviato o recepito in Italia.


ESTRADATO IN AMERICA – Dopo essere rimasto per circa un anno detenuto in Germania, dall’estate del 2004 alla primavera del 2005, senza che ci fossero prove, evidenze, fatti, che giustificassero il suo fermo, la corte di Dusseldorf prima, e la Corte Superiore Tedesca poi, si appellano al loro diritto di estradare il Parlanti. Un vero e proprio incubo da cui Carlo non riesce a svegliarsi. Come un pacco postale viene dunque trasferito in California, a Ventura, cittadina che conta all’incirca 15000 abitanti, di cui 8000 sono i detenuti del carcere. Estradato in America, il Parlanti è sottoposto a procedimento penale. Nella prima udienza l’accusa dichiara che l’imputato ha precedenti penali in Italia per stupro e rapina a mano armata; in realtà né in Italia, né in nessun altro paese europeo ci sono precedenti penali a carico del Parlanti. Incredibile, ma vero. Invenzioni allo stato puro. Durante il processo, in cui, come già nel carcere tedesco, Carlo non ha avuto l’ausilio di alcun interprete, la White non solo conferma le sue precedenti accuse, ma aggiunge nuovi sconvolgenti dettagli sull’accaduto, mai rivelati nella denuncia. Il 20 dicembre la giuria popolare emette il verdetto: colpevole in ordine a tutti i capi di accusa, condannando, con la sentenza emessa il 7 aprile 2006, Carlo Parlanti a scontare nove anni di carcere. Il giudice ha giustificato la sua scelta dicendo che “seppur non vi sono referti medici, seppure la sig.ra White è stata inconsistente e quanto raccontato va oltre la realtà, penso che il sig. Parlanti l’abbia danneggiata psicologicamente da renderla inconsistente”. Una sentenza già di per sè fuori dal mondo. Su Carlo si chiude a doppia mandata la porta della vita da cittadino libero. Si apre quella da detenuto. Solo, in un paese straniero. Vittima di una giustizia quanto meno molto superficiale.


PROVE INATTENDIBILI – “Le numerose contraddizioni di Rebecca White suggeriscono che la menzogna, che potrebbe essere legata alla fragilità mnemonica causata dal quadro psicopatologico della White, ma potrebbe essere legata anche a una deliberata volontà di proporre una realtà alterata per ottenere dei benefici, rappresenti un elemento stabile e ricorrente nella matrice comunicativa-comportamentale della donna e che per tale motivo ogni sua affermazione debba essere considerata potenzialmente non rispondente a vero e quindi necessitante di specifiche conferme oggettive per poterla validare nel corso di un processo”. Queste le conclusioni a cui è giunto il prof. Marco Strano, esperto in scena del crimine. E sono proprio queste “specifiche conferme oggettive” di cui parla il prof. Strano che Carlo Parlanti, assieme a Katia Anedda, sua compagna da una vita, ed i suoi legali ricercano. Per questo, nell’udienza del 24 marzo del 2006, la difesa chiede un nuovo processo, mettendo in evidenza l’inconsistenza della denuncia e della testimonianza della White. Tutte le prove della reclusione, dei maltrattamenti e dello stupro portate in aula dall’accusa sono state studiate dettagliatamente da alcuni professionisti in vari settori, pronti a confermare la loro inattendibilità. In diverse dichiarazioni della “presunta vittima”, presunta in quanto se c’è una vera vittima in questo caso è solo Carlo Parlanti, si rivelano delle illogicità e delle incongruenze. La White ha presentato diverse dichiarazioni di come a suo dire avvennero i fatti: due dichiarazioni orali a due diversi poliziotti, una denuncia scritta alla polizia di Ventura, una dichiarazione scritta ad un terapista del Parlanti, una dichiarazione all’avvocato del Parlanti, un’altra dichiarazione scritta al suo dottore e le testimonianze rese dalla stessa all’udienza preliminare ed durante il processo. Sono tutte differenti. Qualche esempio?


Prova n 1 : le fotografie – Una delle prove più sconvolgenti, presentate da Rebecca McKay White, e incredibilmente ritenute valide, sono delle foto in cui è ritratta con un vistoso ematoma in corrispondenza dell’occhio sinistro. Consegnate alla procura solo tre anni dopo la denuncia, e mai trovati i negativi richiesti dalla difesa, si tratta di sei fotografie scattate in due diversi momenti (quattro sono scattate dalla polizia il giorno della denuncia e due scattate quindici giorni prima, secondo quanto sostiene la donna). Nelle foto che la White dice di aver scattato da sola, la donna appare diversa e più giovane, con i capelli più corti e di diverso colore, la pelle più liscia ed abbronzata, rispetto a quelle scattate dalla polizia un paio di settimane dopo. Le foto sono considerate poco attendibili anche da un esperto della fotografia come Scott Nebwy.


Prova n 2 : controllo della casa – La sua casa, dopo i controlli delle polizia a distanza di settimane dall’evento, appariva immacolata, nessuna traccia dei violenti scontri di cui aveva parlato. Le pareti della sua casa erano in cartone pressato, ed è impossibile che siano rimaste intatte nonostante Carlo avesse sbattuto la testa della White contro le pareti 60 volte, stando sempre a quanto dichiarato dalla donna. Neanche i vicini hanno mai sentito una lite furiosa tra i due, ed è strano che lei non abbia almeno chiesto aiuto. Ha detto di essere stata legata e sequestrata per giorni interi con alcune strisce di plastica rigida a strappo, ma sui suoi polsi non vi sono mai stati segni che lo testimoniassero; ha detto che ha subito violenze inaudite (dieci pugni al volto, altrettanti calci all’altezza del rene, oltre al rischio di essere strangolata) senza riportare alcun danno, di aver avuto paura delle minacce di Carlo ma non è mai scappata da quella casa. La White ha inoltre testimoniato che il suo letto era macchiato di sangue per le violenze procuratele dal Parlanti. La polizia che ha investigato sul caso non ha mai trovato tracce di sangue nella stanza in cui, secondo l’accusa, si sarebbe consumata la violenza. Ancora sconosciuti tra l’altro i perché la donna non sia mai stata sottoposta a visite mediche, in particolari ginecologiche, che appurassero l’avvenuto stupro.


Prova n 3 : il vino – La White dichiara che il Parlanti prima della violenza aveva bevuto 4 litri di vino Chardonney in 4 ore. A meno che Carlo non sia un superuomo, è impossibile che sia sopravvissuto a quella massiccia dose di alcool.


Prova n 4 : i diari e le e-mails – La donna ha testimoniato di avere tenuto due diari (apparsi solo nell’agosto 2005, insieme alla foto) prima di subire le violenze e che utilizzava la stessa penna per scriverli. La difesa ha dimostrato che i diari erano scritti con inchiostri differenti. Per quanto riguarda le e-mails invece, la White ha negato di averle scritte fino a quando la difesa è riuscita a dimostrare il contrario. Solo allora la donna fu costretta ad ammettere di aver dichiarato il falso.


TRUFFA AI DANNI DEI SERVIZI SOCIALI FEDERALI? – In America dichiarare falsa testimonianza comporta una pena comparata, se non a volte di gran lunga superiore, a quella di molti altri crimini. Questo serve a dimostrare come il Paese, la grande America, abbia un sistema giuridico dalle regole ferree, anche se, alla fine, troppe volte la legge non sembra essere uguale per tutti. E questo è il caso di Carlo Parlanti. Le dichiarazioni della White spesso si sono dimostrate incoerenti, sfiorando addirittura il paradossale, inventandosi forse una storia che potrebbe avere dell’assurdo. Assurda la storia, assurde le prove. Tra i tanti esami medici a cui la White si è sottoposta per verificare l’avvenuta violenza, nessuno, e sottolineamo nessuno, di questi ha avuto riscontri positivi. Tutte le risonanze magnetiche, che servivano a mettere in evidenza una frattura cranica, hanno dimostrato che questa in realtà non c’era. E allora il dott. Neal L. Pugach, il neurologo che ha fatto tutti i controlli, non avendo riscontri positivi in nessuno degli esami condotti, dichiara il falso? Invia comunque una lettera alla Social Security Statunitense in cui afferma che la donna ha subito delle violenze (nonostante le prove sia tutte contrarie). Lui insieme alla sua paziente dichiarano il falso per truffare l’assicurazione e riscuotere la pensione che spetta alle donne che hanno subito delle violenze sessuali? Se così fosse questi soldi sarebbero rubati dalle tasche dei contribuenti americani.


Mille altre sono le incongruenze di questo caso (che sono raccolte, assieme a tutti i documenti relativi al processo, nel sito www.carloparlanti.it ). Ad occuparsene, e quindi a lottare per la libertà di Carlo giorno dopo giorno, oltre ai legali ed ai familiari, c’è Katia, la sua fedele compagna, che anche in un momento così difficile, riesce a trovare la forza di sperare ancora, riponendo la sua fiducia nella giustizia. Il caso di Carlo è diventato il simbolo di una lotta, quella che persegue l’associazione “Prigionieri del Silenzio”, nata proprio dalla volontà di Katia (presidente e fondatore dell’associazione stessa) di far conoscere la storia del suo uomo, e di quanti come lui hanno subito e continuano a subire nel mondo queste ingiustizie. E ancora, forza e fiducia ha dimostrato Carlo Parlanti rifiutando, proprio all’inizio del suo calvario, di patteggiare, dichiarandosi colpevole, ricevendo come pena solo 3 mesi di carcere, dopo i quali sarebbe stato libero di tornare a casa, tra le braccia dei suoi cari. Lui invece ha voluto affrontare un regolare processo, convinto di vincere perché sicuro della sua innocenza, ignaro che quello stesso processo si sarebbe trasformato in una sceneggiata surreale. “Menzogne, menzogne e ancora menzogne”. Questo dichiarano coloro che difendono Carlo. Si è dato più credito ai deliri di una donna disperata e gelosa, psicologicamente instabile, che ha continuamente ritrattato la sua versione dei fatti, producendo da sola le prove in sua difesa, che alle controprove della difesa, conclusioni di illustri tecnici che operano in vari ambiti. Il processo è stato davvero viziato da un elemento insanabile: il pregiudizio. Chiunque avrebbe fermato sul nascere questa denuncia, ma non dobbiamo dimenticarci che siamo in America, nella terra delle grandi “opportunità”. Qui vige infatti una specie di terrore psicologico da parte di donne che fanno delle denunce di violenza una vera e propria professione, per ottenere sussidi e costose cure mediche, insomma, per spillare un po’ di soldi alle assicurazioni si fa di tutto, anche mandare in galera un povero innocente. Queste cause sono all’ordine del giorno, e quando si discutono questi casi si dimentica la lunga sfilza di episodi in cui innocenti vengono segnati a vita, perché la società accentra tutto sul sesso e la violenza. Un quadro di un’America amara, molto amara, è quello che emerge da questa storia.


Ancora oggi Carlo Parlanti è rinchiuso in un carcere dove la vita di tutti i giorni è difficile, dove non riceverebbe, il condizionale è d’obbligo, le adeguate cure sanitarie (ricordiamo che proprio in carcere ha contratto il virus dell’epatite C ). Il suo calvario è stato molto lungo, ed ancora purtroppo non è terminato. In tutto questo tempo però, lui non ha mai mollato, continuando a vivere grazie al sostegno e all’amore che la sua famiglia e la sua compagna cercano di fargli arrivare ogni giorno. La speranza per un futuro di giustizia per Carlo è quello che noi tutti sogniamo. Gli appelli alla nostra classe politica, di oggi e di ieri, sono stati numerosi, ma accolti da essa solo in parte, se non addirittura per niente. Forte è l’indignazione verso questa presunta giustizia che ha leso i diritti umani di questo uomo. Un uomo, Carlo Parlanti, che non ha mai smesso di credere nella giustizia.


Maria Rosa Tamborrino (Globalpress Italia)


L'inventore della tessera del tifoso condanna la versione italiana.


Anthony Weatherill, creatore cinque anni fa del progetto Carta del Tifoso, commenta l'introduzione della Tessera nel calcio italiano
Lei cinque anni pensò una cosa un po’ diversa dalla tessera del tifoso attuale, pensò la carta del tifoso: come funzionava?
“La carta del tifoso nasce come progetto, non è uno strumento. E’ un progetto che contemplava la possibilità per i tifosi di unirsi fra di loro poter iniziare a dare voce a tante cose. Nel calcio parlano in tanti, giornalisti, presidenti, personaggi vari, ma i tifosi non parlano mai. Mancando i tifosi mi sembrava anomalo questo fatto, visto che poi sono loro alla fine ad usufruire di tutto. Quindi ho pensato che dare la voce ai tifosi risolveva un po’ il problema a tutti quanti”
In sostanza il funzionamento di questa carta era un principio di autoregolamentazione dei tifosi, che poi uniti e compattati da questa carta avrebbero potuto negoziare le loro richieste nei confronti delle società
“Più o meno si. Siamo partiti con il Torino, ci siamo messi insieme tutti i tifosi con questa carta che tutti avevano e credo che la società non ne sapesse nulla perché noi ci siamo mai posti il problema di avere la società in quel momento come parte in causa, era solo fra tifosi. Poi con questa poter andare alla società una volta capito le richieste che avevamo, cosa che abbiamo fatto, abbiamo potuto organizzare delle trasferte, perché una della cose che mi hanno sempre chiesto era che le trasferte erano troppo costose. Ci siamo messi insieme e abbiamo dimostrato che si potevano abbassare i costi, ma per noi. E’ una cosa pensata solo ed esclusivamente per i tifosi”.
Le dà fastidio essere indicato da molti come l’inventore della tessera del tifoso?
“Si, perché io non c’entro nulla con quella lì, l’unico fatto che c’entro è che capendo che probabilmente qualcuno ne avrebbe approfittato per scopo di lucro o altro ho differenziato la carta del tifoso dalla tessera del tifoso. Se si va a vedere qualsiasi carta che sta uscendo non può chiamarsi carta del tifoso o tessera del tifoso. Nessuno mette il marchio tessera del tifoso perché non possono e io sto continuando a fare causa a chiunque usi questo marchio”.
In particolare lei a chi ha fatto causa?
“In particolar modo con Inter, Milan e Banca Intesa. E continuo a percorrere questa strada, perché voglio continuare a difendere il marchio e il progetto”.
Che idea si è fatto di questa tessera?
“Hanno totalmente stravolto l’idea, è diventata una schedatura ed io sono d’accordo con questa definizione. Tutte le componenti speculative si sono buttate in questo, perché hanno visto un ritorno economico. Se legano il loro marchio a quello di una squadra, chiaro che hanno visto in questo un vero business. Una banca o una compagnia di assicurazioni che non riesce a fidelizzare i propri correntisti. E’ chiaro che se legano il loro marchio a quello di una squadra hanno visto in questo un vero business. Le banche hanno pagato le società, stanno facendo un investimento pazzesco”.
A lei risulta che ci siano banche hanno pagato?
“Ci sono banche che hanno sicuramente pagato. Di Banca Intesa ho sentito che avevano dato addirittura un milione di euro al Milan per fare le carte, ne ho sentito parlare e me ne assumo la responsabilità”.

http://www.centrosuonosport.com/


venerdì 25 giugno 2010

Comunicato stampa.


GIUSTIZIA E VERITA' PER LE VITTIME DEL SISTEMA.



Mescoliamo menzogna, depistaggio, impunità, interpretazione delle leggi e cittadini di serie A e di serie B, ne verrà fuori un cocktail poco alcolico ma micidiale, al quale daremo il nome di Italia. Questo cocktail purtroppo non si beve ma è la cruda realtà dei nostri tempi e del nostro paese, dove siamo costretti a convivere con ingiustizie atroci e spietate che portano a “misteriose” morti, in carcere o lungo una strada.  E, dietro a queste morti, ci sono famiglie e vite spezzate per sempre. Recentemente è successo a Stefano Cucchi che viene arrestato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre ed esce dal carcere la mattina del 22, cadavere. Aveva evidenti segni di percosse al volto, la mascella spaccata e un occhio rientrato nell’orbita. E ancora, Federico Aldovrandi di Ferrara, diciotto anni, in questura non ci arrivò proprio e nonostante le registrazioni delle chiamate tra la pattuglia e la centrale che riportano testualmente: "L’abbiamo bastonato di brutto. Adesso è svenuto", e i manganelli delle stesse pattuglie intervenute sul posto che figuravano spezzati a metà, i quattro poliziotti sono stati condannati per eccesso colposo nell’omicidio colposo a tre anni e sei mesi il 6 Luglio del 2009. Non è finita, l’undici novembre 2007 è stato ucciso Gabriele Sandri dall’Agente Scelto della Polizia di Stato Luigi Spaccarotella; ancora oggi, nonostante ricostruzioni dettagliate e numerose testimonianze, si aspetta giustizia. Continuiamo: Aldo Bianzino, quarantaquattrenne, abitava in una casa sperduta sull’Appennino umbro-marchigiano; entrò in carcere il 12 ottobre del 2007 e venne trovato morto due giorni dopo, la mattina del 14 Ottobre, nella propria cella. Un infarto è la versione ufficiale, poi smentita dall’autopsia che riscontrava lesioni interne. Potremmo continuare ma preferiamo fermarci qui. Il 25 e 26 Giugno a Perugia, organizzati dal Comitato Verità e Giustizia per Aldo Bianzino, si terranno due giorni di eventi e conferenze; vogliamo, con queste poche righe, porgere la massima solidarietà a tutte le vittime del sistema democratizzato, alle loro famiglie e gli amici tutti. Per una giustizia sociale e una sicurezza organica.



Associazione Culturale Tyr Perugia
www.controventopg.splinder.com


Pronti per la catena?


In questa Europa che va profilandosi nei suoi aspetti amministrativi attraverso la ratifica del Trattato di Lisbona, oggi impegnata a far fronte ad una crisi economica mondiale, c’è un elemento che dovrebbe costituire motivo di attenta riflessione tra coloro i quali intendono definirsi uomini liberi. Abbiamo sempre ritenuto con forza che la vera, più impellente e grave crisi che oggi colpisce i popoli d’Europa non è quella economica; non il conseguimento di un fabbisogno materiale che - appare evidente dal tasso di consumi inutili che si mantiene eccessivo - resta in questi lidi una certezza, nonostante le indubbie difficoltà del momento che si trovano a dover sfidare tutte quelle categorie sociali danneggiate dalla recessione economica. Riteniamo invece che il problema che attanaglia il futuro degli europei, minandone le prospettive future, sia quello legato alla sopravvivenza delle nostre identità, oggi messe a repentaglio dal mondialismo. La loro indispensabile linfa vitale risiede in quell’ideale rifugio che trova compimento laddove valori e cultura rimangano una radicata espressione popolare. Un rifugio che non è fuga, bensì un sicuro riferimento granitico che sappia resistere all’effimero richiamo del mondano e devastante disimpegno del caos. Distinzione contro omologazione. Il certo senso d’appartenenza contro l’astratta “cittadinanza del mondo”. Una struttura politica che non derivi la propria legislazione da queste solide basi culturali è un castello d’argilla nel quale il relativismo regna sovrano ed anche le più banali garanzie dei diritti umani possono essere sacrificate, in pratica controtendenza rispetto alla retorica di cui quotidianamente veniamo ammorbati. L’aspetto di cui dovremmo occuparci è quello relativo alla difesa delle nostre libertà; libertà di esprimerci e libertà, dunque, di poter ancora rappresentare un’alternativa al mondo degli uguali che il sistema va propinando con arroganza. Mesi fa ci occupammo, a tal proposito, del Trattato di Lisbona, della sua natura liberticida che non solo uccide ogni eventuale proposito di sovranità e difesa delle tradizioni, ma prevede addirittura la pena di morte dinnanzi a particolari situazioni. Quali? Nel punto terzo dell’Articolo 2 viene spiegato: per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione. Questo, senza dare una definizione precisa dei termini sommossa o insurrezione, così concedendo la massima arbitrarietà alle forze di polizia. Una certa inclinazione a reprimere, all’autoritarismo giustizialista figlio del terrorismo psicologico di cui siamo vittime per mezzo dei media, non è ovviamente un elemento di novità, bensì alberga nelle giurisdizioni dei vari stati membri dell’UE. L’Italia è forse uno dei paesi in cui il sistema carcerario versa nelle peggiori condizioni, ma nel resto dell’Unione non c’è di che sorridere. Non vogliamo discutere l’utilità del provvedimento detentivo in senso assoluto, ma condannarne l’impiego spropositato che se ne fa e l’ipocrita concezione che ne viene data. Il numero elevato di suicidi (o le morti sospette…), il sovraffollamento, l’assenza di strutture degnamente confortevoli rappresentano oggettivi dilemmi che evidentemente preoccupano le sue sole vittime: la popolazione carceraria, e non scalfiscono l’opinione pubblica, convinta che i problemi legati a sicurezza e criminalità possano risolversi con metodi sbrigativi che si rivelano invece nel lungo termine una mera soluzione palliativo. Un meditato piano di scarcerazioni sarebbe un provvedimento oculato, umano: coloro i quali non rappresentano un pericolo per la società (i malati, per esempio) dovrebbero avere il diritto di scontare in modo alternativo la pena. Eguale diritto dovrebbe essere garantito per gran parte di quel 50% della popolazione carceraria: coloro i quali sono in custodia cautelare. Queste strutture imponenti e fatiscenti, grigie e desolanti, sono la crepa di democrazie che si ammantano di libertà, ma che costruiscono il proprio ipocrita consenso intorno alle sempreverdi parole d’ordine di sicurezza e legalità, dura repressione e ottusa autorità. Democrazie che hanno quindi seppellito valori e cultura e che oggi, in balia dei venti come sottili foglie recise dal proprio albero della vita, non possono più vantare un’identità, non sanno conferire un’educazione ai propri cittadini. E’ così che, mancando di capacità di rappresentare e di educare, di prevenire i reati, ricorrono alla punizione che trova la propria bieca utilità nel concetto del castigo fine a sé stesso, dunque escluso da una nobile funzione: il reinserimento del detenuto nella società. In linea di coerenza con questa logica lesiva della dignità umana, il sistema provvede ad ingrossare le gremite file dei privi di libertà con una categoria di persone sul cui capo pende un’accusa che richiama echi tirannici: il reato d’opinione. Nelle carceri di mezza Europa marciscono i criminali del pensiero, novelli martiri di una moderna inquisizione. Rei d’aver dubitato, a mezzo stampa o voce, dei laici dogma storici su cui si fonda questo marcio sistema, su decine di uomini liberi incombe la minaccia della mannaia. Vessati, perseguitati, incarcerati per aver espresso un pensiero contrario ai diktat imposti. Austria, Germania, Francia, Gran Bretagna sono solo alcuni dei paesi in cui è applicato questo metodo repressivo. In conformità con l’opera di livellamento giuridico cui l’UE si fa dispositivo, quest’ennesimo pericolo liberticida rischia seriamente di propagarsi a macchia d’olio su tutto il territorio europeo. Italia compresa, ovviamente. Recentemente ha iniziato a muoversi qualcosa in questo amaro senso: sulla base di quanto discusso in sede di Comitato d’Indagine sull’Antisemitismo (presieduta dall’onorevole del PDL Fiamma Nirestein) il 22 aprile si mettevano a punto le nuove strategie di annientamento dei siti che osavano criticare la politica USA/Israel e trattare in maniera non conforme - storicamente, culturalmente e politicamente - la “questione sionismo”. A dare compiutezza politica alle velleità di suddetto comitato, il Senato ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza (D.d.. L.733), tra gli altri con un emendamento del senatore Gianpiero D'Alia(UDC) identificato dall'articolo 50-bis: Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet. Ci risiamo; così come rilevato nel sovracitato testo del Trattato di Lisbona, neanche qui i termini più significativi dell’articolo vengono rivestiti di una precisa definizione, lasciando libera interpretazione ai giudicanti. Infrangendo le più banali regole del buon senso e della tanto decantata democrazia, anche in Italia determinate lobbies si apprestano a tramutare in legge la loro brama repressiva. Non la forza della dialettica ed il confronto verbale, bensì la violenza autoritaria esercitata mediante leggi che sono l’arma che il sistema è pronto ad impugnare onde difendere il castello ideologico su cui è fondata la sua storia. Siamo dunque chiamati noi oggi, in tempi in cui il cappio viene agitato sempre più pericolosamente, a doverci porre determinati innanzi ad una scelta: abdicare il nostro spirito, effetto di ancestrali vocazioni ad un impegno eterno in difesa della Tradizione, di lotta per la verità, noncuranti dei pericoli che ciò può causare; oppure prostrarci ai piedi di questi epigoni dei Giacobini, che si propongono di legittimare la propria ideologia attraverso la lobotomia ed imbavagliando le idee altrui. Dalle parole di un figlio d’Europa del diciannovesimo secolo (il poeta romantico Gottfried August Bürger) - parole che sembrano vergate sugli arbusti degli alberi di Germania, tanto trasudano appartenenza alla propria terra - ci giunge un’affidabile indicazione: "Chi non sa morire per la libertà è pronto per la catena". Non esitiamo…
Viva la libertà! Viva l’Europa!
 

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ENNESIMO BRACCIO DI FERRO SULLA TESSERA DEL TIFOSO.


Per chi ancora non l'avesse capito, è in atto un vero e proprio braccio di ferro tra il Ministro dell'Interno e le squadre di calcio. La contesa è la famigerata Tessera del Tifoso, una fidelity card che rischia di diventare un boomerang istituzionale. E a circa due mesi dall'inizio dei nuovi campionati, si naviga a vista con ultimatum e parole che suonano come fulmini tra nubi in tempesta: “Se uno non si adegua – ha sentenziato ieri Maroni – è perché ha deciso di non adeguarsi, cioè di non rispettare l'impegno che formalmente ha assunto nei confronti del Ministero dell'Interno con una lettera. Dopo di che, se così sarà, ne subirà le conseguenze, naturalmente!” Per capirci meglio, ad oggi l'85% delle 132 società di Serie A, B e Lega Pro non hanno ancora la  Tessera del Tifoso. E pare difficile che in 60 giorni si riesca a fare miracoli all'italiana. Per questo il Ministro attacca le società inadempienti, intimando di farle giocare senza pubblico, a porte chiuse nelle gare a rischio. Molti stadi non sono a norma per assenza di tornelli e di lettori dei micro-chip a radio frequenza che validerebbero gli accessi. Si vogliono far saltare i piani? Qualcuno rema contro Maroni? “No, sta mettendo in difficoltà chi non ha voluto adeguarsi in tempo, magari pensando che a non adeguarsi il Ministero potesse ripensarci. Non è così. Ne parliamo da due anni, c'è stato tutto il tempo... è un po' il malcostume italico quello di non adeguarsi alle novità e poi arrivare il giorno prima e chiedere il rinvio”. Novità, certo, ma non un obbligo di legge. Forse per questo i club si sono sentiti liberi di scegliere. Aderire alla tessera o non farla per niente. E se qualcuno dovesse presentarsi impreparato ai nastri di partenza? Si prospetterebbe un altro rinvio del progetto, dopo la falsa partenza del 1 Gennaio 2010? Si profila un nuovo slittamento del programma Tessera del Tifoso? Intanto la neopromossa Lecce mette le mani avanti e prudentemente alza bandiera bianca. Adolfo Starace, segretario generale salentino, incalzato in una tv locale sui temi della fidelity card giallorossa, ha confessato che “i club sono sotto ricatto” e prevede “che tra gli abbonati, molti non potranno assistere alle prime 2 o 3 partite casalinghe del Lecce.” Motivo? L'attesa della risposta  della Questura per il vaglio su Daspo e reati da stadio. Tempi troppo lunghi.“C'è una lettera scritta con l'impegno di tutti – ribatte Maroni – quindi non vedo francamente necessità di rinvii”. Parole chiare e nette, suffragate dai fatti, se è vero che un mese fa, prima di partire per i mondiali in Sudafrica, dal ritiro azzurro del Sestriere due alti funzionari del Viminale hanno abbandonato la comitiva azzurra, protestando contro le dichiarazioni di Daniele De Rossi: “La tessera del tifoso non mi piace – aveva detto il centrocampista di Marcello Lippi – allora perché non fare anche la tessera del poliziotto?” Un'infelice battuta costata una guerra di nervi tra Maroni e FIGC che intanto, insieme alla Lega Calcio, si è vista recapitare una lettera dai vertici FederSupporter che chiedono una moratoriaperla Tessera del Tifoso, appellandosi al testo unico in materia di documentazione amministrativa: “Non c'è bisogno del vaglio della black list delle Questure - ha detto l'Avvocato Massimo Rossetti, responsabile legale del nuovo sindacato nazionale unitario dei tifosi, riunitosi in convegno a Roma – Chiediamo una moratoria. E’ sufficiente che all’atto d’acquisto dell’abbonamento o del biglietto, l'acquirente fornisca una contestuale autocertificazione, magari attraverso un modulo predisposto dal Ministero dell’Interno, con il quale si può certificare a norma di legge di non aver riportato condanne per reati da stadio e di non essere soggetto a Daspo. Il Governo vuol favorire lo strumento dell'autocertificazione e il calcio fa finta di niente?” Staremo a vedere. Domani è un altro giorno. C'è ancora tempo fino al 29 Agosto, prima giornata di Serie A.
 
Maurizio Martucci
 
ARTICOLO PUBBLICATO SUL QUOTIDIANO 'LIBERAL' DEL 24.6.2010, PAG. 7


martedì 22 giugno 2010

I Signori del denaro? Fanno muro contro i popoli.


A Bruxelles, al summit europeo del 17 giugno, si è parlato dell’imposizione di una tassa sulle banche e sulle transazioni finanziarie. “Quelli che hanno provocato la crisi sono invitati a presentarsi alla cassa” ha esclamato la cancelliera Angela Merkel.
Non possiamo che essere d’accordo. Sono decenni che continuiamo ad affermare che, per sanare le economie delle nostre nazioni, sarebbe sufficiente far pagare – senza trucchi – le tasse alle banche, alle multinazionali e agli speculatori.
Inoltre a Bruxelles è passata la linea italiana sul come classificare la situazione passiva dei singoli stati europei: non più rilevando esclusivamente il debito pubblico, ma considerando quello “aggregato”, cioè comprensivo anche di scoperti e risparmi delle famiglie e delle aziende. E questo rappresenta indubbiamente un primo passo verso una concezione economica capace di affrontare il “reale” allontanandosi dalle suggestioni provocate dai giochi di prestigio della finanza internazionale.
Ma queste decisioni non hanno trovato consensi generalizzati. Il presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, ha affermato che la tassa sulle banche “finirà per trasformarsi in maggiori costi su imprese e risparmiatori”. È questo un discorso che somiglia a quello di un qualsiasi sig. Esposito che vede con preoccupazione l’incalzare di polizia e magistratura contro la camorra, perché “mammasantissima potrebbe aumentarci il pizzo”.  Ma, in ogni caso, è anche un ragionamento che segue una certa logica e di cui è corretto tenere un qualche conto.
L’ABI, infatti, ha già tuonato: “Una nuova tassa potrebbe avere effetti sulla capacità di finanziamento dell’economia reale”.
Dunque, mentre ci fa piacere veder comparire sulle prime pagine dei giornali, in televisione, nelle prese di posizione dei governi, dei summit internazionali, temi sui quali noi – soli – abbiamo insistito per decenni, siamo preoccupati del fatto che tutto ciò rischia di essere inefficace.
Continua ad essere ignorato, infatti, l’elemento fondamentale da cui discendono, a cascata, tutte le situazioni di crisi che stiamo vivendo: l’impossibilità di controllo da parte del potere politico sulla stampa della moneta, sul traffico finanziario, sul tasso di sconto e sul funzionamento delle economie.
Se, prima, non si nazionalizzano le banche di emissione, ogni provvedimento anti-crisi si rivelerà un cane che si morde la coda. Finché il governo non potrà controllare gli istituti di credito, infatti, a dettar legge continueranno ad essere i signori del denaro – non eletti, né sottoposti a nessun vaglio di consenso – e non i rappresentanti della politica, che oggi in Europa dai popoli sono votati, possono essere giudicati e, alla bisogna, cambiati.
Sarà opportuno ricordare che la vigilanza sulle banche è demandata alla Banca d’Italia che è di proprietà degli stessi soggetti che dovrebbe controllare. Tra i suoi massimi azionisti ci sono Intesa e Unicredit.
È peraltro significativo il fatto che in Italia, pur di non permettere al governo di mettere il naso dietro ai propri sportelli, le banche hanno rinunciato ad utilizzare, nonostante la crisi, gli aiuti che il ministro Giulio Tremonti aveva offerto.
Non c’è tassa o regola che tenga, finché non si affronta – e si risolve – la madre di tutti i problemi.
Chi comanda? Chi determina, nella realtà, la promulgazione delle leggi, la gestione del potere, lo sviluppo dell’economia, il destino dello Stato-sociale? I rappresentanti del popolo o gli uomini delle banche; le istituzioni dello Stato o i paperoni della finanza internazionale?
Nessun debito pubblico potrà mai essere sanato finché i governi saranno costretti a pagare ingiustificati interessi – un vero e proprio pizzo – sul denaro stampato a costo zero da banche di emissione private e sottratte ad ogni efficiente vigilanza.
La nazionalizzazione di Bankitalia è peraltro un obbiettivo coraggiosamente perseguito da Tremonti nel 2005, ma che oggi, in aperta violazione della legge, è ancora lettera morta.
Perché? Si temono le conseguenze di un’aperta collisione coi poteri forti e ci si illude di poter evitare l’ostacolo privilegiando provvedimenti morbidi e accomodanti?
Ma non può portare lontano una politica dei “passetti”, dei rispettosi programmi graduali. Gli attuali padroni del mondo non sono dei pivelli. Di tutto li si può accusare meno che di essere ingenui, sprovveduti e manipolabili. Sono pronti a rintuzzare – l’hanno già abbondantemente dimostrato – decreto su decreto, legge su legge, con decisione, furbizia e anche – si veda la questione delle spese di massimo scoperto – con una spudoratezza senza eguali.
Le cose possono, cionnonostante, cambiare,  ma occorre arrivare, senza equivoci e bon ton,  allo scontro palese e frontale tra i popoli e le forze del mondialismo.
Ma il vero volto dei responsabili della crisi ai più è ancora sconosciuto, così come pochi conoscono gli scellerati meccanismi che consentono oggi a un pugno di uomini di governare il mondo.
Occorre quindi moltiplicare le occasioni di informazione e di denuncia, anche rischiando di divenire ripetitivi e pedanti. È questo l’impegno più urgente e necessario. Per colpire al cuore il nemico, prima occorre, vivaddio, sapere con certezza chi è il nemico. Solo a questa condizione i popoli potranno mobilitarsi e le cose cambiare.

Di Mario Consoli, www.rinascita.eu


venerdì 18 giugno 2010

POLITICI LOCALI E ESIGENZE DEI CITTADINI. [PERUGIA]


Luendì 7 Giugno in Piazza Birago, nell’omonima via, è stata organizzata un’assemblea pubblica dal Partito Democratico alla presenza di due Assessori Comunali, Valeria Cardinali, Assessore all’urbanistica, all’edilizia pubblica e privata e Ilio Liberati, Assessore alle infrastrutture, per parlare della riqualificazione del manto stradale e dell'urbanistica della Piazza stessa. Con più di 35 minuti di ritardo stante l’assenza degli Assessori all’orario prestabilito è iniziata l’assemblea davanti a circa una cinquantina di abitanti del posto. A prendere la parola per primo è stato l’organizzatore dell’evento, che pur non abitando nelle vicinanze, intendeva farsi portavoce degli innumerevoli problemi che gli abitanti di Via Birago, Via del Lavoro e zone limitrofe denunciano ormai da diversi anni. L’organizzatore, dopo aver presentato gli Assessori e dopo aver manifestato il proprio entusiasmo per la presenza di un Ingegnere della SIPA S.p.a., ha iniziato ad illustrare i vari problemi di cui soffre il quartiere, presentando lo stesso come fulcro centrale della vita cittadina. Ha descritto infatti la via come fornita di negozi e servizi, cosa peraltro ancora vera, dimenticandosi però di dire quanti siano stati i negozianti di piccola impresa costretti negli ultimi anni a dover chiudere baracca e burattini. Prima di cedere la parola alle persone presenti ha ribadito anche la necessità di un nuovo parcheggio, con un progetto inserito nell'ambito del cosiddetto "PUC", firmato nel 2003, che prevede la cessione a titolo gratuito da parte della Curia di un terreno adiacente la Chiesa parrocchiale al Comune di Perugia, il quale a sua volta dovrebbe cederlo alla società Sipa S.p.A., la quale dopo aver realizzato il progetto rivenderà i posti auto ai singoli privati. Dopo la solita cantilena politica, finalmente la voce è passata agli abitanti intervenuti che con decisione hanno spiegato agli amministratori i veri problemi della zona in questione e l’assoluta contrarietà a questo progetto. In particolare sono state rivolte alcune domande agli Assessori presenti che però hanno preferito divincolarsi con argomenti del tutto inopportuni. Addirittura si sono permessi di parlare di etica, rispondendo a chi diceva che nella zona c’è anche un grosso problema relativo allo spaccio di stupefacenti, che se esiste la droga è perché qualcuno la usa. Bella la scoperta dell’acqua calda!  Ma tornando all’argomento dell’assemblea e al discorso che compete a lorsignori, una cosa positiva c’è stata, sempre se verrà realizzato, è stato promesso il rifacimento del manto stradale entro la primavera del 2011. Gli abitanti di questi quartieri sembrano davvero stanchi di situazioni del genere e delle parole che restano tali. Ciò che è emerso chiaramente dall'assemblea di Via Birago è un totale distacco tra le "sensibilità" di certi amministratori e le reali esigenze dei cittadini. C’è bisogno di politici che vengano dal popolo e siano per il popolo e a dimostrazione di questa esigenza ci sono gli innumerevoli comitati di quartiere che quotidianamente e spontaneamente nascono per la sicurezza, per la socialità, per le spese collettive e per tutto quello che uno Stato dovrebbe garantire ai propri figli, esigenze delle quali gli amministratori locali dovrebbero farsi tramite e portavoce, oltre che attori principali. Stranamente, dopo poco più di un'ora l’incontro è terminato lasciando inesaudite numerose delle domande poste dagli intervenuti. Sappiamo bene che di solito a queste assemblee è tutto rosa e fiori e invece dei fischi e di domande ben calibrate ci sono applausi, porchette e vino… Qualcuno, ridendo, ha esclamato: “Pensavate di stare a Casa del Diavolo?”. La battuta non è piaciuta... Senza offesa ovviamente, e non se ne abbiano a male gli abitanti di quella simpatica frazione. Buone vacanze, se riuscirete a farle senza un mutuo a tasso variabile.

Di Fabio Polese, Associazione Culturale Tyr Perugia, uscito su Free Press Perugia il 18 Giugno 2010


Bloody Sunday: scuse blande e tardive di Londra.





Trentotto anni dopo arrivano le scuse blande e tardive di Londra per l’eccidio ricordato come Bloody Sunday avvenuto in Irlanda del Nord il 30 gennaio 1972, in cui persero la vita 14 irlandesi.
Presentando il rapporto redatto dalla Commissione d’inchiesta voluta nel 1998 da Tony Blair, il premier britannico David Cameron ha detto che il massacro, causato dalle truppe britanniche fu “ingiustificato ed ingiustificabile” e che l’indagine ha messo in evidenza in modo “molto chiaro” le colpe dei militari. “Alcuni membri delle nostre forze armate hanno agito in modo sbagliato”, ha osservato Cameron in un discorso alla Camera dei Comuni. “Il governo - ha proseguito il premier - è responsabile della condotta delle forze armate. E per questo, a nome del governo e del nostro Paese, chiedo profondamente scusa”. Al termine del discorso Cameron ha però difeso “l’impegno e il coraggio” dei militari britannici in Irlanda del Nord.
Per redigere il rapporto di 5.000 pagine sono stati ascoltati 2.500 testimoni, con 922 deposizioni e 195 milioni di sterline di spesa. Nel 1998 l’allora premier britannico Tony Blair, sotto la pressione delle famiglie e per raggiungere un’intesa con il Sinn Fein, ordinò al giudice Mark Saville di fare luce sull’accaduto.
Secondo le testimonianze, il 30 gennaio 1972 a Londonderry, nel nord-ovest dell’Irlanda del Nord, durante una manifestazione per i diritti civili dei cattolici, quattordici persone disarmate, fra cui moltissimi giovani, vennero uccisi dalle pallottole del 1 Battaglione del Reggimento Paracadutisti dell’esercito britannico. Due manifestanti rimasero feriti dopo esser stati investiti dai veicoli militari. Molti testimoni, compresi alcuni giornalisti tra i quali l’italiano Fulvio Grimaldi, affermarono che i manifestanti colpiti erano disarmati. Cinque vittime inoltre furono colpite alle spalle. La marcia di protesta era stata indetta contro la decisione del governo britannico di mettere in prigione chiunque senza processo. Londra richiese al Primo Ministro nordirlandese, il protestante unionista B. Faulkner, i poteri in materia di ordine pubblico e giustizia, ma al rifiuto di questi emanò una norma (la cosiddetta “Direct Rule”) con la quale scioglieva il governo e il parlamento locali ed agiva direttamente, accrescendo ulteriormente da un lato la tensione e dall'altro i poteri dell'esercito e della polizia. L’inchiesta, presentata ieri, ha stabilito che i militari inviati in Irlanda del Nord aprirono il fuoco per primi, senza alcuna forma di avvertimento. Nessuna esplosione, nessun sasso, nessuna bottiglia molotov a giustificare i colpi di arma da fuoco e le violenze dei paracadutisti britannici. Molti di coloro che furono colpiti stavano semplicemente fuggendo alla carica, o cercando di aiutare altri feriti. Nessuna delle vittime poneva un problema alla sicurezza dei militari.
Quei morti comunque non sono stati dimenticati. In migliaia fra amici, parenti, politici e sostenitori hanno sfilato ieri per le strade di Derry, dove è stato presentato il rapporto nel palazzo della Guildhall (sede del consiglio comunale) da Lord Saville, che fu incaricato dell’inchiesta dall’allora premier Blair. Ognuno di loro, entrando nell’edificio dove è stato dato loro il rapporto in anteprima, ha alzato un cartello con la foto di una delle vittime, tra gli applausi dei presenti. La strage acuì enormemente il clima di tensione nato alla fine degli anni Sessanta in Irlanda del Nord, favorendo un crescente sostegno all’Ira da parte di molti cittadini irlandesi.
Una prima inchiesta, aperta nelle settimane seguenti a quei tragici fatti di sangue dall’allora primo ministro britannico Edward Heath, prosciolse le autorità e i soldati britannici da ogni colpa, ma venne in seguito considerata un insabbiamento della verità. Ieri, invece, queste colpe sono state appurate ma quello che accadde una domenica di 38 anni fa pesa ancora come un macigno sul governo di Londra e sui suoi militari.

Di Andrea Perrone, www.rinascita.eu


mercoledì 16 giugno 2010

LA DEREGULATION DELLA TESSERA DEL TIFOSO.


I contratti eludono il Garante della Privacy,  inserendo arbitrariamente leggi e divieti.
 
Non è un obbligo di legge, ma i Club ne seguono il programma come se lo fosse: Le Società potranno accettare la sottoscrizione di un nuovo abbonamento solo da chi è in possesso della Tessera del Tifoso. La mancata attuazione dovrà essere considerata alla stregua di carenze strutturali degli impianti, sino alla chiusura agli spettatori nei casi ritenuti più gravi.” Lo dice il Ministro dell’Interno Maroni: se i supporters di Serie A, B e Lega Pro non aderiscono alla Tessera del Tifoso, stadi chiusi! La Direttiva 555/2009 suona più o meno come un ultimatum, anche se la Legge 41/2007, varata per arginare la violenza nel calcio dopo la morte dell’Ispettore Raciti, non disciplina né accenna alla Tessera del Tifoso. Anzi, l’articolo 9 è al vaglio del TAR del Lazio per un dubbio d’incostituzionalità, visto che vieta biglietti e abbonamenti ai destinatari di DASPO e ai condannati (anche di primo grado) per reati da stadio. Ci pensate? Dopo lunghe trafile in tribunale, uno dimostra la sua innocenza con l’assoluzione in Cassazione, ma non entra allo stadio! Un altro prende un DASPO nel 1989 per un fumogeno galeotto, oggi è Direttore di banca e buon padre di famiglia, ma non gli danno l’abbonamento. A differenza di un pedofilo e di un assassino condannati in via definitiva e in libertà provvisoria. Alla faccia del garantismo e dello stato di diritto!  
 
CONTRATTI ALL’ITALIANA
Dal vuoto legislativo al caos diversificato il passo è breve. Basta sfogliare i giornali o ascoltare le radio. Se ne dicono di tutti i colori: “La Tessera del Tifoso è obbligatoria per legge. Anzi no, anzi si, solo per i nuovi abbonati. No, è per le trasferte nei settori ospiti. Solo in A e B. No, pure in Lega Pro. No, anche per i biglietti in casa”. Risultato? Una giungla nei moduli di adesione, i contratti per i tifosi poi al vaglio della black list della Questura. Ce n’è per tutti i gusti. Modena e Cesena richiedono una dichiarazione sostitutiva per certificare l’assenza di carichi pendenti, scavalcando pure la L. 41/07: basta solo una denuncia, nemmeno una condanna in primo grado, per respingere la richiesta di un aspirante tesserato. Roma, Samp, Varese e Figline hanno rispolverato la Legge 1423/1956, vecchia di 44 anni: se sei un ozioso o un vagabondo abituale, un dedito a traffici illeciti, vivi di proventi da favoreggiamento, sei proclive a delinquere e a sfruttare la prostituzione, esercitando il contrabbando o il traffico illecito di sostanze stupefacenti, niente fidelity card! Insomma, allo stadio solo col casellario giudiziale immacolato.
 
PRIVACY E MICRO-CHIP
Pronunciandosi sugli usi della tecnologia a Radio Frequency Identification, il 9 Marzo 2005 il Garante della Privacy afferma che “determinati impieghi possono costituire una violazione del diritto alla protezione dei dati personali ed avere serie ripercussioni sull'integrità e la dignità della persona, anche perché il trattamento dei dati personali attraverso RFID può essere effettuato all'insaputa dell'interessato, limitandone le libertà. Attraverso l'impiego della RFID, potrebbero raccogliersi dati sulle abitudini dell'interessato a fini di profilazione e tracciare i percorsi effettuati, individuandone la posizione geografica.”Neanche a farlo apposta, come da Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive, la Tessera del Tifoso monta micro-chip a RFID. Rodotà prescrive le misure a garanzia della privacy, tra cui il principio di necessità (si può usare RFID solo per le necessità “strettamente necessarie in relazione alla finalità perseguita”, cioè solo per tracciare l’ingresso allo stadio e non per spiare gli spostamenti dei titolari) e di informativa (“chiara evidenza deve essere data anche alle modalità per asportare o disattivare l'etichetta o per interrompere in altro modo il funzionamento del sistema RFID”). Cosa dicono i contratti dei Club? Prendiamone dieci: carta Goal Member (Palermo),Samp Card (Sampdoria), Robur Senese (Siena), A.S. Roma Club Privilege (Roma), Cuore Rossonero (Milan), Siamo Noi (Inter), Cuore Rossazzurro (Catania) e poi Varese, Figline, Modena. Nessuna traccia dell'RFID né delle prescrizioni di Rodotà. Sarebbe stato troppo. Meglio pensare ai Mondiali in Sudafrica e alle telecronache pay-per-view (in HD).

Maurizio Martucci
ARTICOLO TRATTO dal QUOTIDIANO ‘LIBERAL’ del 16/6/2010, pag. 7


martedì 15 giugno 2010

Adotta a distanza piccoli orfani palestinesi.





SOSTIENI LA SPERANZA

L'Associzione Culturale Tyr Perugia in collaborazione con la Comunità Solidarista Popoli e l'Associazione Benefica di solidarietà con il Popolo Palestinese (ABSPP), lancia l'iniziativa di adozione a distanza di piccoli orfani palestinesi. Gli orfani provengono dalla Striscia di Gaza, dalla Cisgiordania e dai campi profughi palestinesi del Libano, Giordania e Siria.

COME FUNZIONA L'ADOZIONE A DISTANZA DI UN ORFANO?

Prevede il sostegno di un bambino orfano dei campi profughi palestinesi sparsi in medio oriente. L’importo è di seicento euro l'anno e può essere versato mensilmente (50 euro), o in un’unica soluzione. La somma sarà così impegnata mensilmente: 45 euro li gestiranno la famiglia del bambino per le esigenze primarie (alimenti) e 5 euro (integrati da ulteriori 15 euro assegnati dall’ABSPP) le associazioni di volontari presenti all’interno dei campi profughi per i progetti paralleli (cartella scolastica, assistenza sanitaria, vestiario e colonia estiva).

Chiunque può aderire al programma di sostegno a distanza: singoli, famiglie, gruppi di amici, scuole, ditte...

In genere l’impegno dura un anno, ma il sostegno può interrompersi per cause indipendenti da noi (per esempio il trasferimento del bambino in un’altra località). In questo caso avvertiremo e proporremo un altro bambino. Inizialmente viene inviata la scheda del bambino/a contenente i dati personali, la fotografia, informazioni del programma di sostegno. Periodicamenete vengono inviati aggiornamenti.

Invitiamo tutti a sostenere questa nostra iniziativa e ad adottare un orfano palestinese.

Associazione Culturale Tyr Perugia

www.controventopg.splinder.com

Comunità Solidarista Popoli
www.comunitapopoli.org

Info: info@comunitapopoli.org - controventopg@libero.it


lunedì 14 giugno 2010

Eurasia. L’Iran e la pace nel mondo.


La lectio magistralis di Sua Eccellenza Ali Akbar Naseri, Ambasciatore iraniano presso la Santa Sede –  svoltasi ieri, 9 giugno, a Roma e centro della conferenza “L’Iran e la pace nel mondo” (ottimamente organizzata dal Coordinamento Eurasia) –  è stata certo un’importante quanto rara possibilità di informazione ’senza filtro’ e riflessione riguardo la controversa questione iraniana, e più in generale islamica, in rapporto al “nostro” occidente… civilizzato.



“L’Iran e la pace nel mondo”, per la stringente attualità, può essere il tema-sunto delle più scottanti questioni geopolitiche, cruenti giochi dello spettacolo bellico e politico nel mondo globale. Parlare oggi dello “stato canaglia” Iran significa aprire il confronto su una realtà che appare complessa e intricata in quanto costellata di pregiudizi, etichette, e tanta, tantissima disinformazione.



In questo senso, la lectio magistralis, introdotta e inquadrata col consueto focus geopolitico di “Eurasia” da Tiberio Graziani e coadiuvata da un breve quanto denso intervento di Pietrangelo Buttafuoco che ben ha saputo sintetizzare la geopolitica con la questione culturale-religiosa, riportandole poi alla situazione italiana, è stato ottima e coinvolgente occasione di conoscenza.



Non solo riguardo il tema scottante della politica mediorientale, ma, anche e soprattutto, come stimolo di comprensione religiosa e culturale reciproca. I due temi, come ha notato Graziani, vanno anzi di pari passo e si coniugano in quello spirito identitario cardine delle strutture geopolitiche. In questo senso Teheran va ogni giorno di più a inserirsi nel teatro mediorientale come una forza che non vuole essere succube delle mire occidentali ed ergersi a baluardo della rivincita dei popoli arabi mediorientali, proponendosi come potenza regionale.



La lectio dell’Ambasciatore, uomo di grande cultura e dalla profonda educazione, si è snodata su due “binari paralleli”, in ottemperanza alla stessa struttura di uno Stato, quello persiano, sulla cui politica vige ancora una guida religiosa. L’enunciazione di passi significativi del Corano è stata quindi affiancata alla spiegazione delle politiche iraniane, che sono state illustrate spoglie dalla presunta aggressività di cui vengono additate dalla stampa filo-usraeliana.



Aggressività piuttosto imputabile all’arrogante plutocrazia mondialista, che incurante dei popoli autoctoni ha da anni reso il medioriente – regione chiave per l’egemonia globale – campo di battaglia dei propri particolari interessi. In questo senso, la lotta del popolo iraniano – che in 400 anni di storia, viene ricordato dall’Ambasciatore, mai ha preso parte a una guerra di aggressione – si configura come lotta di difesa, del suolo patrio e della propria cultura, dagli attacchi delle forze materialiste incarnate dagli USA e dall’occidente allineato.



Una lotta che affonda le proprie radici nel Cielo della metafisica. Una lotta che ha nelle Leggi Divine il proprio cardine morale; tanto che i colonizzatori occidentali vengono, ben poco metaforicamente, additati come il Diavolo, come il Cancro che imperversa nel mondo e rende impossibile una reale fratellanza tra le diverse stirpi umane. La politica e la guerra iraniane sono al contrario «caratterizzate da un istinto di pace, sono guerre di difesa che ogni popolo libero e amante della libertà dovrebbe combattere». «La violenza e il bellicismo con cui vengono dipinte le culture islamiche quando esse non si asservono ai dettami del liberismo, sono perciò da considerarsi come un pregiudizio funzionale alle pretese espansionistiche degli USA e ai suoi fini diabolici». Fini distruttori, «mossi dall’avarizia e dall’egoismo», «fini che non comprendono idea di giustizia alcuna» se non l’arrogante legge del più forte, se non la volontà di sottomettere gli altri popoli per mantenere il proprio opulento status, mesta povertà spirituale di «uomini ormai privi di compassione».



Per la cultura islamica persiana il Sacro viene prima del politico, è il cardine su cui tesserne le umane trame. La legge morale è unico fondamento possibile per la realizzazione della giustizia sociale. Come spiega, ben figurando la questione, Akbar Naseri: «la burocrazia dello stato è certo necessaria, ma solo un autentico spirito religioso può portare alla pace dei popoli». E dalle parole dell’Ambasciatore emergono sempre in questo senso – lo si sente a pelle –  una sensibilità e un’apertura eccezionali.



Una forte sacralità, – nota giustamente Buttafuoco – che è stata al contrario dimenticata da un Italia e da un Europa ormai succubi di una cultura che poco riguarda le proprie radici. Alla «viva tradizione che si incarna e tramanda nei popoli, si è invece sostituita una sterile erudizione», o al più una scienza funzionale agli interessi del mercato, che mai potrebbe colmare il vuoto imperversante sulle spaesate genti d’occidente. Dio, un tempo principio unificante, è stato rinchiuso nella banconota da un dollaro dove campeggia un inquietante “in god we trust”. Questa la significativa metafora suggerita dal giornalista siciliano. E che si sia atei o credenti, la cosa è alquanto angosciante. Il dio Dollaro è ormai l’unico simbolo di una religione e di una cultura divenute così il proprio stesso simulacro, di una Storia barattata con il frigorifero, la televisione e le velleitarie comodità consumistiche. Buttafuoco vede invece nell’Islam –  che in quanto siciliano sente cultura a sé vicina: «uno scavo nelle mie stesse radici» – , come il baluardo di una politica ancora genuinamente identitaria, di una spiritualità e di un radicamento presenti nonostante la modernità, anche nella sua Sicilia. Identità locali e spiritualità arcaiche sono così i radicali da porre in contrapposizione all’uniformità di un mercato globale che tutto vorrebbe a sé inghiottire.



La convinzione di Buttafuoco, a mio avviso pienamente condivisibile, è invece che «la spiritualità e la sacralità siano ancora gli unici validi moventi per la folla» e che per la cultura «sia più che mai urgente, oggi, riscoprire quelle radici greco-romane che abbiamo ingiustamente accantonato».



In questo si ha molto da imparare dall’Iran, «che mai si sognerebbe di dimenticare la sapienza zoroastriana, mentre noi, oltre ad Omero, abbiamo dimenticato anche Virgilio». Iran che è consapevole delle comuni radici greco-romane insite sia nell’Islam che nel Cristianesimo e si preoccupa di studiare i Greci con la stessa virtù dei propri ascendenti più immediati. È così che «Platone si studia meglio a Teheran», dove la metafisica può ancora avere un senso, mentre qui è stato ‘razionalizzato’, reso ‘utile’, ossia «succube della nostra mentalità laico-borghese». Non quindi un artificioso dialogo di stampo democratico, conclude infine lo scrittore, ma «la fatica della conoscenza reciproca consente ai popoli di affratellarsi, per riconoscersi».



In conclusione, che si sia religiosi o atei, che si sia critici o meno verso l’Iran e l’Islam, è indubbio quanto sia estremamente importante fare nostre le fondamentali ‘direttive’ che sono emerse da questa conferenza e che la realtà geo-politico-culturale ci pone innanzi. Sia per superare la dilagante islamofobia instillata dai media e dagli apparati pseudo-culturali, sia per metterci in strada per la riscoperta delle nostre radici più autentiche.
Identità che ogni giorno di più andiamo perdendo, trasformandoci inesorabilmente da popolo cosciente della propria cultura a massa intenta a soddisfare improprie e meschine mire materiali. Solo così potrà essere riconquistata quella Libertà che da noi stessi ci stiamo negando e per cui solo, veicolata da vera conoscenza, la vita è degna di essere vissuta.



Libertà che l’Iran si sta conquistando sfidando il mondo intero e al cui confronto quest’Italia pigra e satolla non può che impallidire.

www.mirorenzaglia.org/?p=14121


domenica 13 giugno 2010

Il 45% dei pensionati prende meno di 500 euro.


Le pensioni italiane sono pensioni di fame. Questa verità emerge in tutta la sua crudezza dai dati sui trattamenti pensionistici nel 2008 resi noti dall'Istat. Dati che sottolineano una realtà vergognosa considerato che il 45,9% delle pensioni ha un importo medio inferiore a 500 euro al mese mentre un altro 26% non raggiunge i mille euro. In altre parole quasi tre italiani su quattro che non lavorano più, si trovano sotto la soglia di povertà in una situazione che, vista la crisi in corso, non potrà che peggiorare. Vi è poi un altro 13,4% che riceve importi compresi tra 1.000 e 1.500 euro mensili.
Resta il restante 14,7% dei felici pochi che può contare su importi mensili superiori ai 1.500 euro. L’Istat ha precisato che nel 2008 l'importo complessivo delle prestazioni pensionistiche erogate  in Italia, sia previdenziali e assistenziali, è stata di 241,1 miliardi di euro, pari al 15,38% del Prodotto interno lordo con un aumento del 3,5% rispetto al 2007. Complessivamente sono state erogate 23,8 milioni di prestazioni.
Per il segretario confederale della Uil, Domenico Proietti, i dati dell'Istat dimostrano che i pensionati italiani sono tra i più poveri d'Europa. Proietti ha dato atto ai recenti provvedimenti contenuti nella manovra economica di avere contribuito a garantire ulteriormente la piena stabilità e sostenibilità economica del sistema previdenziale italiano. Ma ora, ha ammonito, è necessario riprendere il processo di rivalutazione delle pensioni in essere, valorizzando gli anni di contributi versati.
Da Bruxelles invece si è esultato per la decisione del governo italiano di innalzare l'età pensionabile delle donne dipendenti statali a 65 anni fin dal 2012 anziché dal 2018 equiparandole in tal modo a quella dei colleghi uomini. Si tratta, come al solito, di un gaudio di tipo “tecnico”, in quanto la Commissione europea  ha accolto con favore una decisione che risolve due problemi. In primo luogo l’Italia si è adeguata alla richiesta della Corte di Giustizia Ue. In secondo luogo contribuisce a risolvere le difficoltà fiscali dell'Italia. Questo perché rimanda al futuro spese presunte che erano già state inserite in bilancio.
Per il commissario europeo alla Giustizia, la lussemburghese Viviane Reding, Bruxelles cosciente dei problemi di bilancio che toccano tutti gli Stati membri, accoglie con favore gli sforzi del governo italiano per consolidare i suoi conti pubblici. Se poi tale svolta comporterà devastanti effetti sociali, pazienza. Questo è infatti  l’ultimo pensiero che può preoccupare i tecnocrati di Bruxelles, portati a fare rispettare le regole che loro stessi hanno scritto.

Di Dorothea Hawlitschek, www.rinascita.eu


venerdì 11 giugno 2010

EVOLA, L’ANTIMODERNO. [11 Giugno 1974 - 11 Giugno 2010]


Pubblichiamo l'articolo uscito su Controvento, bollettino interno dell'Associazione Culturale Tyr Perugia, del 2008 in occasione dei 110 anni dalla nascita.

Julius Evola è uno di quegli uomini della riflessione, che siam soliti chiamare filosofi, di cui spesso si sente parlare anche a sproposito all’interno di certi ambienti culturali, ma che, fondamentalmente viene dai più completamente accantonato. Come si è avuto modo di spiegare in più circostanze e come è sempre bene ribadire, ogni pensatore vive di sé e degli altri che con lui si pongono in confronto. Non è possibile inquadrare né tantomento catalogare nelle strettoie di un incartamento becero ed infantile, la portata straordinaria di ciò che ogni uomo del pensiero ci offre con le proprie osservazioni, con le proprie intensità e con le proprie sensazioni, sempre inserite nel tempo e figlie di un divenire, che non può disconoscere la sua essenzialità ontologica. Se un grande insegnamento la filosofia cosiddetta continentale ci ha dato, è proprio quello connesso al carattere prospettico e impersonale della realtà che ci circonda: senza dilungarci troppo sul valore fondamentale della riflessione ermeneutica dobbiamo comunque osservare il contesto in cui Evola storicamente si inserisce, il tratto storico-teoretico che tutta la riflessione occidentale ha vissuto come compimento della parabola cominciata decenni prima con l’irruenza antimetafisica di Friederich Nietzsche, forgiata attraverso la fenomenologia di Husserl, portata a concretizzazione da Heidegger e proseguita da Gadamer, senza che niente venisse scalfito dai mille eventi che avevano nel frattempo radicalmente cambiato la situazione europea (due guerre mondiali, indipendentismi, processo di Norimberga, terrorismo, sessantotto e via dicendo). La reazione contro la metafisica tradizionale, il ritorno ai pre-socratici (Eraclito, Parmenide, Anassimandro…), la decostruzione dell’antropocentrismo, il superamento del rapporto soggetto-oggetto, la critica della Ragione, il nichilismo quale fenomeno onto-storico e destino improcrastinabile di un’umanità ormai irretita nell’ambito dei vecchi e degenerati schemi del pensiero occidentale (la sottile linea antropocentrico-escatologica che legava platonismo, ebraismo, cristianesimo, illuminismo, empirismo, marxismo ed idealismo), il circolo ermeneutico come unica fonte di conoscenza, il rifiuto del mondo della tecnica quale dominio scellerato ed invasivo della volontà di potenza ai danni del mondo reale e tradizionale, erano tasselli su cui tutto il pensiero Novecentesco si è mosso, sin dai suoi albori. La morte di Nietzsche, avvenuta esattamente nell’anno 1900, e le sue profetiche e terrorizzanti parole (“Quella che vi sto per raccontare è la storia dei prossimi due secoli…”), hanno segnato indubbiamente un’epoca che ha vissuto sulla paura e sulla desolazione completa, in ogni angolo della cultura, filosofico, ovviamente, letterario, artistico, umanistico e politico. Per quanto, stracitato e spesso chiamato in causa anche oltre gli stessi intenti dell’autore, basti pensare all’importanza rivestita da un testo fondamentale come “Il tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler. Proprio da quest’ultimo, Julius Evola sembra particolarmente colpito, nel momento in cui, comincia a formarsi. La tormentata e controversa personalità del filosofo romano, stava attraversando un periodo particolarmente tragico, al momento del ritorno (nel 1919) dal fronte. Vicino al suicidio, affermò (come leggiamo nel suo Il cammino del cinabro), di aver rinunciato a questo gesto, dopo l’illuminazione in seguito alla lettura di un testo buddhista. Questo incontro, sulle stesse orme che mossero anni prima Schopenauer, non si esimerà dall’essere foriero di una nuova impostazione, che lo porterà a conoscere l’induismo e le teorie dell’Uno, così tanto sconosciute nel profondo e così tanto occidentalizzate, commercializzate e spudoratamente violentate nel corso degli ultimi decenni dalla cosiddetta new age o next age. A questo interesse si accompagnano i mai sopiti spunti esoterici e gnostici che lo hanno accompagnato. Testi come Imperialismo Pagano e soprattutto il più conosciuto Rivolta contro il mondo moderno, pubblicato in piena era fascista, non gli valsero le simpatie, ma anzi gli procurarono diverse noie e pure delle censure. Fu scomodo, per molti gerarchi, per quei cosiddetti fascisti della seconda ora, quelle fazioni conservatrici e burocrati, soggiunte a Fascismo ormai assestato e definito. La sua visione del resto ha sempre rimarcato un carattere sovra politico, anzi impolitico, che poco aveva a che spartire con la brutale normalità istituzionale ed amministrativa, e che mirava in alto, verso la più pura teoresi di quel mondo della Tradizione, da lui decantato e osannato. Ma cosa era in realtà questa Tradizione? E a cosa si contrapponeva? Fu nel dopoguerra, e precisamente nel 1951 che Evola, venne chiaramente coinvolto nel processo al movimento paramilitare dei FAR, organizzazione neofascista, quale presunto teorico e intellettuale di riferimento. Fu naturalmente assolto con formula piena, malgrado l’isteria antifascista di tutto il dopoguerra avesse persino portato sul banco degl imputati, una persona totalmente estranea ai fatti, senza prove, senza legami espliciti o meno, ma solo sulla base di una presunta connessione intellettuale. Da quel tipo di difesa e da quel distacco intrapreso verso tutto ciò che riguardava la dimensione politica nel senso più strettamente partitico del termine, possiamo subito capire che le origini del pensiero evoliano, nascevano molto più indietro e avevano radici ben salde in una sorta di filosofia della storia, che (non di rado ispirata da Guenon), rileggeva il passato del corso temporale attraverso una disamina chiara e precisa, che poneva in netto contrasto due principi: il mondo della Tradizione da un lato, ed il mondo dell’antiTradizione dall’altro. L’umanismo nel mezzo, a far da mezzavia, era indicato come il momento critico, il punto dell’irreversibilità antitradizionale, nel quale vengono poste le basi per lo sviluppo del cosiddetto homo hybris, nel quale scompare ogni richiamo al Sacro, ogni senso gerarchico, ogni assoluto. La trascendenza, quale mezzo di coglimento per l’uomo della Tradizione, svanisce sotto i colpi del laicismo, sotto i colpi dei miti del progresso e dell’homo faber fortunae suae, tipici della tendenza trionfante all’interno della pur vasta cultura umanistico-rinascimentale. L’individualismo trasudante e baldanzoso, che uscì fuori da questa rivoluzione catastrofica, si traslò sul piano più strettamente ideologico nel liberalismo, nell’anarchismo sociale, nel marxismo e nel totalitarismo, sia democratico sia dittatoriale. Riprendendo Guenon, l’umanismo era esattamente la sintesi del programma che l’Occidente moderno aveva ormai inteso seguire, per mezzo di una vasta opera di riduzione all’umano dell’ordine naturale: qualcosa di presuntuoso e sconvolgente, la cui precisa critica mostra chiaramente i punti di contatto con la Genealogia della morale affrontata da Nietzsche e con i Saggi di Heidegger. La Rivolta evoliana è qualcosa che, probabilmente resta indietro rispetto ai maestri tedeschi, e in parte paga ancora un lascito terminologico alla metafisica che invece Egli intendeva abbattere, ma indubbiamente il valore, il nisus, il punto ottico di osservazione teoretica pare quasi essere lo stesso. Il progresso è niente altro che una “vertigine”, un’illusione, con la quale l’uomo moderno viene ammaliato e ingannato: una auto illusione, che lo porta in una dimensione di progressivo oblio dell’essere autentico (ancora Heidegger, come vediamo), in favore dell’ormai avvenuto e sempre più imbattibile matrimonio con l’antropomorfizzazione del mondo. La Tradizione, con i suoi valori gerarchici (“dall’alto verso l’alto”), con il suo carattere cosmologico e ciclico (indistinzione uomo-natura, homo hyperboreus e circolarità storica – ancora Nietzsche con l’eterno ritorno), con la sua concezione sacrale-trascendentale, si mostrava come la sola vera arma in condizione di opporsi alla degenerazione causata dai miti metafisici, antropocentrici e razionalistici, e da fenomeni sociali quali il progressismo, la secolarizzazione, il laicismo e l’ateismo materialista. “Umanistica è quella cultura nella quale principio e fine cadono entrambi nel semplicemente umano: è quella cultura priva di qualsiasi riferimento trascendente o in cui tale riferimento si riduce a vuota retorica, che è priva di ogni contenuto simbolico, di ogni adombramento di una forza dall’alto. È umanistica la cultura profana dell’uomo costituitosi a principio di sé stesso, quindi metafisicamente anarchico e intento a sostituire a quell’eterno, a quell’immutabile e a quel super-personale, di cui egli ha finito col perdere il senso, i fantasmi vari e mutevoli dell’erudizione o dell’invenzione dell’intelletto o del sentimento, dell’estetica o della storia”: in queste riflessioni potremmo sintetizzare il pensiero più radicale ed interiore di Evola, osservando in esse il carattere tradizionale, che lo portò a negare la validità del darwinismo, dell’evoluzionismo e dell’ugualitarismo, in favore di una weltanschauung forgiata sui significati antichi di imperialità, gerarchia e razzismo (o meglio ancora, razzialismo) spirituale. La morte di Dio, annunciata dal folle deriso nella Gaia Scienza di Nietzsche, è un punto di partenza ineludibile, per comprendere cosa significhi nel profondo la perdità dell’ordine, il senso di sconforto per l’abbattimento dei valori tradizionali e il senso di disorientamento, quale destino onto-storico (il nichilismo come ospite indesiderato) di una civiltà autodistruttiva come quella umana, appunto, affidatasi volitivamente a nuovi (dis)valori, in aperto contrasto con quella che è l’essenza più autentica dell’ordine naturale del mondo, abbandonando ogni senso atemporale ed ontologico del pensiero, e sviluppando una concezione calcolante, transeunte e mercantile della ragione umana, finalistica e teleologica, individualista e materialista. Pensare di poter ricondurre il suo pensiero alla mera dimensione politica, sarebbe una violenza inaccettabile, così come tentare di elasticizzarne le asperità o le parti più scomode. Di fronte ad un grande uomo del pensiero, abbiamo sempre un grande tesoro, forte di un’apertura semantica continuamente attingibile e sempre esplorabile attraverso nuove chiavi di lettura. Non chiudiamone il raggio, non limitiamoci a ciò che più interessa ad ognuno di noi, non compriamone una parte per buttarne via delle altre: non siamo al mercato, non siamo mercanti, non siamo clienti. Siamo uomini.

Associazione Culturale Tyr Perugia