sabato 29 gennaio 2011

Irlanda del Nord: Tiochfaidh àr là!


Irlanda del Nord: dal Bloody Sunday ai giorni nostri, in lotta per la libertà.



Di Fabio Polese, Rinascita del 29-30-gennaio 2011



E’ il 30 gennaio del 1972 quando a Derry, in Irlanda del Nord, durante una manifestazione civile promossa dal Nothern Ireland Civil Rights Association, i soldati britannici uccidono quattordici civili inermi, cinque dei quali colpiti alle spalle. Le urla, il terrore e gli spari esplosi vigliaccamente dal primo battaglione del reggimento di paracadutisti di sua maestà furono gli infelici protagonisti di quella giornata. La situazione nella parte dell’Irlanda occupata era tragica, molti giovani irlandesi erano detenuti nelle prigioni con pochissima possibilità di essere rinviati a giudizio o di essere rilasciati grazie ad una nuova norma varata dal Governo di Londra che permetteva l’arresto preventivo per un tempo non definito a chiunque fosse solo minimamente sospettato di essere un militante nazionalista repubblicano. I manifestanti, armati di “pericolosissimi” fazzoletti bianchi, sventolati in segno di pace, furono ripetutamente colpiti da fucili ad alta capacità, calibro 7,62. L’immagine di padre Edward Daly che soccorre una delle vittime sventolando un fazzoletto bianco è forse lo scatto più significativo di quella fredda domenica invernale. Ogni anno, a Derry, la data del 30 gennaio viene ricordata con una tradizionale marcia commemorativa che ripercorre lo stesso tragitto intrapreso dai manifestanti nel 1972, alla quale oltre a migliaia di patrioti irlandesi, partecipano delegazioni da vari paesi europei e mondiali. Molto probabilmente, la marcia di commemorazione di quest’anno, che partirà regolarmente da Creggan per arrivare a Bogside, potrebbe essere l’ultima. Dopo la Relazione di Lord Saville e la conseguente ammissione di colpevolezza da parte britannica, alcuni familiari delle vittime hanno proposto di celebrare una festa più che una commemorazione. Altri, invece, sottolineano che la continuazione della marcia di commemorazione sia importante per i diritti civili e i diritti umani di tutti i popoli che lottano per la propria indipendenza. Dopo trentotto anni, il 15 giugno del 2010, il Rapporto di Lord Saville, voluto da Tony Blair nel 1998, ha reso pubblica la verità e ha dato ai familiari delle vittime uno spiraglio di giustizia. Nelle 5000 pagine della relazione Saville viene dimostrato, infatti, che il massacro del Bloody Sunday fu assolutamente ingiustificato e che nessuna delle persone uccise dai soldati della Compagnia di Supporto era armata con un’arma da fuoco o una bomba di qualsiasi tipo. Inoltre, viene sottolineato che nessuno stava minacciando di provocare la morte o lesioni gravi ai soldati e in nessun caso è stato dato alcun avviso prima di aprire il fuoco. Questa indagine che ha avuto un costo di circa 200 milioni di sterline e che è durata dodici anni, è seguita alla prima inchiesta del Widgery Tribunal, dove i militari e l’autorità vennero largamente prosciolti da ogni colpa, compreso l’ex capo di gabinetto di Tony Blair, Jonathan Powell, distorcendo la realtà e nascondendo le tragiche responsabilità del paese di sua maestà. Gli avvenimenti del 30 gennaio del 1972 costrinsero inoltre molti giovani irlandesi ad una scelta tanto drammatica quanto inevitabile: rispondere con le armi, come i loro padri prima di loro, a chi, con le armi, negava loro la libertà e cercava lo sradicamento dell’identità del loro Popolo. Ancora oggi, nonostante una pacificazione di facciata e una informazione lobotomizzata dei mass-media di massa, in Irlanda c’è ancora chi brandisce con orgoglio il vessillo della propria identità, in fede a quello che da sempre fu il motto dell’I.R.A, “tiochfaidh àr là” – in gaelico, il nostro giorno verrà -. Tuonano forti le recenti dichiarazioni della Real I.R.A. fatte in esclusiva al Sunday Tribune all’alba del nuovo anno con le quali si annuncia una espansione delle operazioni volte a colpire le istituzioni e il personale militare britannico. Nel ricordo delle vittime del Bloody Sunday e nell’avvicinarsi al trentennale della scomparsa di Bobby Sands, modello non destinato ai più, non ci resta che prendere esempio dal popolo irlandese, quello vero, quello puro, quello ribelle, che con una tenacia d’altri tempi ancora lotta per la propria terra, per la propria gente e per la propria autodeterminazione; quello che non si è scordato di chi, con il sangue, ha lottato per vedere l’isola verde una e unita e senza padroni stranieri. Gli stessi stranieri che tutt’oggi sono esportatori di democrazia alla ruota dei loro degni cugini d’oltreoceano.




http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=6150

http://www.fabiopolese.it/?p=224


martedì 25 gennaio 2011

Irlanda del Nord: fuochi di rivolta. 30/01 ore 19.00 – Old Court Place Pub – Roma.






Fuochi della rivolta


Irlanda del Nord 2011



Domenica 30/01/2011 ore 19.00



Interventi di:

ALESSIA LAI (Rinascita)

FABIO POLESE (Ass. Cult. TYR Perugia)



Introduce

GIANGUIDO SALETNICH



A seguire cena, birra e proiezione del film Bloody Sunday di Paul Greengrass



Info: Circolo Ordine Futuro Roma

roma@ordinefuturo.info

340/6650234


mercoledì 19 gennaio 2011

Se Israele è vittima, i palestinesi sono i carnefici?


Fabio Polese intervista Angela Lano, www.agenziastampaitalia.it



(ASI) La situazione sulla Striscia di Gaza è al collasso. A distanza di due anni dalla criminale operazione denominata “Piombo Fuso” si registrano ancora continui attacchi da parte dell’aviazione israeliana che provoca morti e feriti tra la popolazione palestinese e il silenzio quasi totale dei media “civilizzati”. Il popolo di Gaza è composto da 1,5 milioni di abitanti e, 900,000 di questi, abitano nelle tendopoli dei Campi Profughi che sono gestiti dall’Onu e dalle associazioni di aiuto umanitarie internazionali. Il blocco delle importazioni e delle esportazioni sta soffocando Gaza, i dati parlano chiaro: il 93% delle industrie sono chiuse, oltre il 70% della forza lavoro disoccupata e l’88% della popolazione vive di aiuti sotto la soglia di povertà. Proprio per questo motivo, la “Freedom Flottila”, una spedizione internazionale composta da 700 persone provenienti da 36 diversi paesi aveva provato a rompere l’embargo. Questa spedizione, armata di 10.000 tonnellate di aiuti umanitari, viene crudelmente attaccata il 31 maggio del 2010 in acque internazionali dalla marina militare israeliana. Il risultato è tragico: 9 i morti e numerosi i feriti. Agenzia Stampa Italia ha contattato Angela Lano – Direttore responsabile dell’agenzia di stampa InfoPal.it e specializzata in islam e mondo arabo-islamico, ha collaborato con diverse testate giornalistiche nazionali ed estere ed è autrice di diversi libri – che era l’unica donna italiana presente nei terribili momenti dell’attacco alla “Freedom Flottila” per porgli qualche domanda.



Ogni giorno, grazie alla perseveranza dell’agenzia di stampa InfoPal.it, veniamo a conoscenza delle crudeltà che vive la popolazione della Striscia di Gaza. Come mai, tranne rare eccezioni, i mass media di massa non parlano di quello che succede in quei territori? Secondo lei, esistono davvero degli ingranaggi invisibili che manovrano l’informazione? 



Non so se esistono ingranaggi invisibili. Certamente ne esistono di molti e visibili. I media italiani sono prevalentemente “embedded” con Israele, per ragioni politiche ed economiche. La Israel Lobby non è un’entità astratta e impalpabile: è concreta e ben radicata. E’ un gruppo di potere, come altri nel mondo.  Israele è il baluardo e l’emblema di un sistema coloniale e imperialistico occidentale nato nell’Ottocento e sviluppatosi nel Novecento. Ora, questo sistema è in declino, in tutto il cosiddetto Occidente. Altre potenze e realtà geografiche, economiche e politiche stanno emergendo e presto cambierà anche la percezione di Israele. I nostri media sono fermamente ancorati a carrozzoni politici ed economici che fanno capo a quel vecchio modello di sviluppo, dunque non è nel loro interesse raccontare “verità altre”. Raccontare delle ingiustizie e delle violenze inflitte quotidianamente, da 62 anni a questa parte, al popolo palestinese. Semplicemente, quando va bene, ignorano i fatti; quando va male, li manipolano in modo tale da far apparire Israele come vittima e i palestinesi come i carnefici. I media “mainstream” sono la grancassa del neo-liberismo in declino. Perché una dopo l’altra le democrazie latino-americane riconoscono lo “stato di Palestina”? Perché sono realtà libere, autonome dalla sfera di influenza statunitense e israeliana, e orientate, a livello geo-politico, verso altri mondi in fermento, crescita e sviluppo.



Nel suo sito personale scrive: “Nelle società mondiali del XXI secolo, il giornalismo è un arma” – e ancora, parafrasando Von Klausewitz – “Il giornalismo è la continuazione della guerra con altri mezzi”. Nulla di più vero.  Quali difficoltà ha trovato nella strada che ha intrapreso?



Innanzitutto, occupandosi di Palestina, non si fa carriera. La mia s’è interrotta tempo fa, quando, come giornalista specializzata in mondo arabo-islamico, non ho prestato la mia professionalità alla strategia islamofobica creata dai media su “input” spesso esterni all’Italia. Se si antepone la propria coscienza alle lusinghe, non si fa carriera. E sono contenta di non averla fatta, come è invece accaduto ad altri colleghi che sono passati sopra a fatti e verità sostanziale per costruirsi patrimoni personali. Almeno io posso guardarmi allo specchio senza vergognarmi. Sono contenta del lavoro che svolgo e per cui ho studiato tanti anni. E’ un lavoro che è una passione e una missione umanitaria. A stare dalla parte delle vittime me l’hanno insegnato i libri di don Lorenzo Milani: è sempre stato il mio modello di impegno e coraggio.



E’ uscito, ad ottobre, il suo ultimo libro “Verso Gaza. In diretta dalla Freedom Flotilla” edito da EMI Editrice, che racconta i fatti accaduti con gli occhi di chi realmente, come lei, li ha vissuti. Immagino che i ricordi di quel 31 maggio siano indelebili. Ci può riassumere i sentimenti, i pensieri e i fatti di quell’angosciante vicenda?



L’attacco alla Freedom Flotilla è stato qualcosa di inaspettato, mostruosamente spettacolare: l’esibizione della consueta forza di uno stato de-umanizzato. Tutti noi, passeggeri della flotilla, ne conserviamo un ricordo netto, non cancellabile, ma proprio la brutalità dell’assalto e la sua illegalità ci rendono più determinati di prima a lavorare, chi in un campo chi nell’altro, alla costante denuncia degli atti israeliani contro il popolo palestinese. Quel che è successo alla FF è soltanto una parte delle aggressioni che da decenni subiscono i palestinesi. Pensiamo solo all’Operazione Piombo Fuso, di cui in queste settimane ricorre il secondo anniversario: 1500 morti, prevalentemente civili, migliaia e migliaia di feriti, famiglie sterminate, bambini resi disabili. Un’apocalisse al fosforo bianco (e a molto altro ancora) piombata su una striscia di terra sovrappopolata. E prima ancora, altri massacri, altri genocidi, criticati, condannati dalle istituzioni internazionali, ma rimasti sempre impuniti.



Quando partirà una nuova “Freedom Flotilla”?



La Coalizione internazionale della Freedom Flotilla sta lavorando a pieno ritmo per l’allestimento della seconda missione, che partirà tra marzo e maggio di quest’anno. Ci saranno una ventina di navi da tutto il mondo, e migliaia di passeggeri. 



Il presidente statunitense Obama ha promesso al premier israeliano Netanyahu, in cambio di un congelamento provvisorio della costruzione di insediamenti di coloni in Cisgiordania, la fornitura ad Israele di armi, munizioni, ingegneria bellica e, soprattutto, altri 20 aerei da combattimento F-35 JSF dal valore di tre miliardi di dollari. In questo simile quadro, quale futuro attende il popolo palestinese?



Se dipendesse solo da Stati Uniti ed Europa, con il loro pieno sostegno a Israele, non ci sarebbe futuro per i palestinesi. Per fortuna, gli equilibri mondiali si stanno spostando verso altre aree del pianeta, che non sembrano così schierate a favore delle politiche di aggressione israeliane. Questo fa ben sperare.



http://www.fabiopolese.it/?p=204



http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1744:se-israele-e-vittima-i-palestinesi-sono-i-carnefici&catid=3:politica-estera&Itemid=35


mercoledì 12 gennaio 2011

Comandante Massud, il Leone del Panshir ruggisce ancora.


(ASI) A seguito dell’uccisione del caporal maggiore degli alpini Matteo Miotto, si è tornati a parlare insistentemente e per più di un giorno di Afghanistan. Non dovrebbe sembrare una novità, dal momento che in quelle distanti lande sono impiegate delle nostre forze armate ormai dal 2002.



In missione di pace, è convenzione dire; ma è una missione di pace piuttosto singolare, dato che è quotidianamente invischiata in affari di spari, bombe, morti e feriti. Il solo contingente italiano ha sinora emesso un contributo di sangue stimabile nella cifra di 35 militari caduti. Tutto questo, mentre quaggiù, in occidente, il peso della responsabilità di quanto lì accade sembra essere poco percepito. Raramente ci pervengono informazioni sulla situazione afghana che ci vede coinvolti, a parte le occasioni in cui c’è da aggiornare il tragico bollettino dei morti. Questo continuo stillicidio non lascia certo presagire nulla di positivo, nulla che corrisponda al definitivo affrancamento afghano dalle ingerenze militari straniere e dalla guerra che ne consegue. La guerra per l’Afghanistan non rappresenta del resto negli ultimi decenni un fatto nuovo: nel secolo scorso, i primi a dover fare i conti con il suo impervio ambiente montano e con la decisa ostinazione dei suoi abitanti a ricacciare ogni attacco straniero furono i britannici nel 1919, costretti nell’agosto di quell’anno a dover abbandonare ogni velleità su quella terra dopo un conflitto durato dal 1839. Dopo anni in cui la serenità continuò spesso a latitare dall’Afghanistan a causa delle continue guerre civili, i nuovi invasori si presentarono nel 1979 tentando di imprimere su quelle terre il marchio della stella rossa. Tuttavia, anche gli equipaggiati ed agguerriti sovietici, dopo dieci anni di violenti scontri ed estenuanti battaglie di posizione tra i territori montani, si ritirarono definitivamente nel febbraio del 1989. Non servì però questa titanica e disperata impresa a rasserenare l’atmosfera, date le continue ed incessanti faide interne tra gli integralisti islamici Talebani ed una coalizione nazionale denominata Alleanza del Nord. Faide che troveranno il loro culmine dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e dopo il conseguente intervento americano finalizzato all’estradizione del capo talebano Osama Bin Laden, individuato come il mandante di quelle tragedie che colpirono il cuore degli USA. Altra benzina sul fuoco, altre migliaia di decessi che ingrossano le file già gonfiate da milioni di morti, di mutilati; un destino di guerra che sembra essersi abbattuto su quelle terre. Destino che non nasce dal caso, bensì dalla cupidigia umana, dalla brama imperialistica di possedere un importante corridoio di oleodotti, un territorio florido in quanto a produzione di oppio, un pretesto utile a lasciar proliferare l’industria della guerra e i suoi spettri mediatici tesi a legittimare all’opinione pubblica questa spirale di sangue e fuoco. Ma l’orgoglioso popolo afghano non sembra esser disposto a chinare il capo rispetto a questi disegni che lo vedrebbero agnello sacrificale di progetti ad ampio raggio geopolitico; ne sono consapevoli gli attuali invasori occidentali, così come potrebbero meglio spiegare coloro che, nel passato, hanno avuto modo di scontrarsi con la fierezza guerriera degli afghani. Fierezza che si incarna in una figura, quella dell’eroe nazionale, di quel volto longilineo con gli occhi sorridenti incorniciato in una caratteristica barba e in un tipico cappello bianco chiamato pakul; quella di Ahamd Shah Massoud.



Il Leone del Panjshir (questo il fiero soprannome affibbiatogli dal suo popolo), morto a causa di un attentato il 9 settembre del 2001, nacque appunto nel Panjshir, regione a bassissima densità urbana, retta su di un’economia esclusivamente agricola. E’ a questo contesto rurale, contraddistinto dall’intenso rapporto dei suoi abitanti con la terra e dalla semplicità dei loro gesti quotidiani, che Massoud rimase sempre legato, anche dopo il trasferimento a Kabul avvenuto abbastanza presto per motivi lavorativi del padre, ufficiale dell’esercito. Nel Panjshir continuò a far ritorno ogni qual volta sentisse il bisogno di immergersi nel profondo del proprio animo ed accarezzare le sue radici, ancestrali sostegni umani. Sarà stato probabilmente questo suo mai sopito senso d’appartenenza – accresciuto da un fervore essenziale in ogni battaglia antimondialista: l’osservanza religiosa dei padri, quella islamica nella fattispecie – a spingerlo negli anni ’70 a prender posizione in modo concreto rispetto a quanto avveniva in Afghanistan. La velleità sovietica su quella terra, sempre più minacciosa, lo portò a fare una scelta categorica, quella di abbandonare il libro a beneficio del moschetto. Egli, infatti, lasciò gli studi in architettura all’università di Kabul per darsi alla macchia, per lanciarsi in quella audace avventura condita dal costante senso di oppressione che corrisponde alla clandestinità dei nascituri movimenti di resistenza del popolo afghano. Distintosi per carisma, coscienza ed eccellente capacità di gestione militare, Massoud fondò e guidò per anni quella struttura organizzativa che seppe scrivere un’importante pagina di storia: nata ai confini con l’Afghanistan, col continuo fiato sul collo delle autorità governative filorusse che la setacciavano, seppe svilupparsi a tal punto da ascrivere il suo epico successo nel glorioso elenco delle miracolose vittorie militari. Già, perché è grazie a Massoud ed ai suoi coraggiosi uomini che anche l’Afghanistan, tra le maestose montagne dalle alte vette, possiede le sue Termopili. La nostra mente non può che condurci in quel sacro valico greco che conobbe l’antonomasia del lustro guerriero quando leggiamo di un esercito clandestino, formato da manipoli di temerari afghani poco attrezzati ma animati dal desiderio di liberare la propria terra, che seppe tener testa per dieci lunghissimi anni – ed alla fine a provocar cocente quanto inaspettata sconfitta – all’esercito forse più organizzato e fornito di quell’epoca: l’Armata Rossa. Un’impresa basata su quella forza di volontà che per primo seppe trovare Massoud, trasmettendola ai suoi uomini, ai Mujaheddin: una vita votata alla guerra, al conseguimento di un folle obiettivo che nessuno stratega militare avrebbe mai osato immaginare, la testa chinata su quei testi scritti dai teorici della guerriglia nei pochi momenti in cui la pausa si concedeva alla concitata giornata di un capo militare, la strabiliante capacità di saper riunire innumerevoli fazioni in un unico fascio capace di sferrare colpi mortali al nemico invasore. Dopo dieci anni di incessanti battaglie all’ultimo sangue, di guerriglie, di dolore e privazione, le truppe di Massoud, grazie anche all’alleanza con quegli impervi territori montani che resero e rendono tutt’oggi vita difficile ad ogni invasore dell’Afghanistan, conseguirono la loro formidabile vittoria. Era il febbraio 1989 quando le televisioni mostrarono a tutto il mondo il preludio di quanto avvenne mesi più tardi con la caduta del Muro di Berlino: l’esercito più temuto dall’occidente, capace di imprese efferate che portarono l’Unione Sovietica ad assumere un ruolo egemonico su distese geografiche enormi, ha fatto fagotto, si sta ritirando dai palcoscenici della storia. I suoi uomini, stanchi ed umiliati, abbandonano l’Afghanistan senza aver conseguito la missione di “evangelizzazione comunista”, in passato (dalla seconda guerra mondiale in poi) riuscita ovunque si fosse tentato. Volere è potere è l’insegnamento di Massoud. La sua titanica impresa fu dunque riuscita. Intorno alla sua figura venne presto costruita una retorica antisovietica di stampo americano, nel tentativo di collocare la lotta di liberazione afghana in un ipotetico intento di conversione alla dottrina liberale imposta in occidente. Nulla di più falso e strumentale. Nella realtà dei fatti, a guerra contro l’URSS conclusa, il "Leone del Panjshir" fu costretto a dover fare i conti con l’ennesima faida interna al paese. La sua tanto auspicata “strategia nazionale” venne insidiata dai Talebani del ricco ereditiere Osama Bin Laden, scaltro guerrigliero di origini yemenite che prese parte alla guerra contro i sovietici in Afghanistan nel 1984, stabilendosi fin da subito come interlocutore con la CIA, che lo utilizzò come tramite per far pervenire ai ribelli afghani armi e finanziamenti. Lo scontro frontale tra due filosofie di vita si fece inevitabile; tra chi, desideroso di poter finalmente un giorno vedere un Afghanistan affrancato dal giogo delle potenze imperialistiche, faceva capo a Massoud e chi, avvezzo ad oscuri intrighi finanziari mascherati dietro la patina del fondamentalismo religioso da imporre omogeneamente in Afghanistan e negli altri paesi di fede musulmana (in barba ad un complesso mosaico culturale qual è quello islamico). Massoud ed i suoi uomini, sempre più sfiancati dal continuo stillicidio avversario, foraggiato dai finanziamenti stranieri, si trovarono braccati e disperatamente pronti all’ultima raffica di mitra prima dell’eroica dipartita sul campo di battaglia. Sul finire degli anni ’90 e agli inizi del 2000, in una città assalita dai Talebani, il destino di Massoud sembrò ormai segnato. Scampato a diversi agguati, il Leone venne infine trafitto per mano di un vile inganno. Il 9 settembre del 2001, due giorni prima di quei fatti di sangue e mistero che in una latitudine lontana segnarono la storia del suo paese, Massoud venne convocato per una presunta intervista da due terroristi fintisi – evidentemente in modo verosimile – giornalisti marocchini di un’emittente con sede a Londra ma in possesso di passaporti belgi. L’esplosione di una bomba nascosta nella telecamera provocò la sua morte. E’ da supporre che gli attentatori, malgrado mai avvenne una rivendicazione, siano da ricondurre ai Talebani. Probabilmente su commissione di qualche potenza straniera, di chi sempre ha garantito a questa ambigua formazione terroristica finanziamenti ed appoggi logistici, fin dall’apparizione di Bin Laden nel lontano 1984. Riguardo alle connivenze tra Talebani e USA, Massoud ebbe sempre le idee piuttosto chiare. Questo il suo pensiero, a cui va dedicata attenzione soprattutto nella parte finale: “Contro tutte le aspettative, noi, ossia i popoli liberi e gli Afgani, abbiamo arrestato e abbiamo dato scacco matto all’espansionismo sovietico. Ma il vigoroso popolo del mio paese non ha saputo conservare i frutti della vittoria. Al contrario e’ stato spinto in un vortice di intrighi internazionali, inganni, strapotere dei grandi e lotte intestine. Il nostro paese e il nostro nobile popolo e’ stato brutalizzato, vittima di avidità mal riposta, disegni di egemonia e ignoranza. Anche noi afgani abbiamo sbagliato. La nostra povertà è risultato di innocenza politica, inesperienza, vulnerabilità, vittimismo, liti e personalità boriose. Ma in nessun caso questo giustifica quello che alcuni dei nostri cosiddetti alleati nella Guerra Fredda hanno fatto per minare proprio questa vittoria e scatenare i loro diabolici piani per distruggere e soggiogare l’Afghanistan”. Per comprendere quanto scomodo fosse questo eroe nazionale afghano rispetto agli interessi americani su quella terra, è utilissimo riportare questo racconto di Kako Jalil (collaboratore di Emergency) risalente al 2002, pochi mesi dopo l’intervento americano in Afghanistan: “Quando il segretario di Stato Usa Madeleine Albright venne in Panjshir per parlare con Massoud e per chiedergli come avrebbe visto un intervento militare americano in Afganistan per cacciare i talebani, lui rispose che non avrebbe mai consentito a nessuno straniero, per nessun motivo, di entrare militarmente in Afghanistan; poi si tolse dalla testa il suo pakul e lo lanciò a terra dicendo che se mai fosse avvenuto avrebbe difeso l’indipendenza del suo paese combattendo fino alla fine, fino a che fosse rimasto anche solo un fazzoletto di terra libera da difendere grande come il suo pakul. Se il ‘Leone del Panjshir’ fosse ancora vivo oggi l’Afghanistan sarebbe molto diverso. Non ci sarebbe un pashtun al potere e soprattutto non ci sarebbero gli americani”… E non ci sarebbero neanche gli italiani, risparmiando a noi il dolore dei lutti nazionali.



Di Federico Cenci,


http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1618%3Acommandante-massud-il-leone-del-panshir-ruggisce-ancora&catid=3%3Apolitica-estera&Itemid=35


Notizie dalla Palestina.






I bambini palestinesi, involontari protagonisti innocenti.



(ASI) Il sette gennaio, nella conferenza stampa tenutasi a Beirut da “Medici per la rottura dell’assedio II” è stato dichiarato: “Il numero dei bambini di Gaza che presentano patologie gravi conseguenti a ferimenti o infezioni provocate dalle sostanze contenute nelle armi proibite – usate da Israele – è troppo alto”. “Gli effetti più devastanti sono stati provocati da bombe al fosforo e dall’uranio impoverito. Ad aggravare la situazione – ha detto il coordinatore Najib Hammadah – sono gli ospedali della Striscia di Gaza che non dispongono di attrezzature, dispositivi e farmaci necessari per la cura di patologie molto diffuse sul territorio come il cancro e le malattie renali”. Intanto, oggi, undici gennaio, l’agenzia di stampa Infopal – www.infopal.it – ha reso noto che sono settanta i palestinesi arrestati da Israele nei primi dieci giorni del 2011. Tra i settanta arresti ci sono tredici minorenni e due bambini di sette e sei anni che, secondo le fonti dell’agenzia stampa, sono stati fermati per “lancio di pietre contro i coloni” ad al-Quds – Gerusalemme -. A tutto questo, si aggiungono i continui attacchi dell’aviazione israeliana sulla Striscia di Gaza che colpiscono soprattutto civili e bambini che diventano, involontariamente, protagonisti innocenti. Domenica scorsa, l’hotel Shepherd, residenza dell’ex Gran Mufti di Gerusalemme Amine al Husseini durante la seconda guerra mondiale, che si trova nella parte orientale di Gerusalemme – in quella che secondo gli accordi internazionali dovrebbe essere la capitale del futuro stato palestinese – è stato abbattuto per far posto ad una nuova colonia ebraica. E così, gli abitanti della Striscia di Gaza, sono costretti a vivere quotidianamente tra incursioni aeree, arresti indiscriminati e il blocco dell’importazioni e dell’esportazioni che hanno fatto arrivare l’economia al collasso. I dati parlano chiaro: il 93% delle industrie sono chiuse, oltre il 70% della forza lavoro disoccupata e l’88% della popolazione vive di aiuti sotto la soglia di povertà. Quale futuro?



Di Fabio Polese,
www.agenziastampaitalia.it





Assedio su Gaza: sarà operativo un solo valico commerciale.



Gaza - InfoPal. Il Comitato popolare per rompere l'assedio su Gaza ha reso nota la decisione israeliana di tenere chiuso il valico di Karni (al-Mintar), a nord-est di Gaza, e di dirottarne il traffico su quello di Kerem Abu Salem, a sud.



Ciò non sarà sufficiente a rispondere alle esigenze della Striscia di Gaza assediata: la struttura di Kerem Abu Salem non potrà compensare il passaggio di beni, merci, medicinali, materiali da costruzione che passerebbero invece dagli altri quattro valichi.



L'Autorità nazionale palestinese (Anp) aveva firmato un accordo con il governo israeliano sulla chiusura di Karni, per mantenere unicamente Kerem Abu Salem come principale passaggio per il transito delle merci.



Il Comitato ha affermato che, con questa scelta, "l'occupazione israeliana mira a raggirare il proprio dovere di rimuovere definitivamente l'assedio su Gaza, dove c'è urgente bisogno di ogni sorta di beni e materiali atti a salvare l'area dalla catastrofe umanitaria e avviare una ripresa".



I quattro passaggi commerciali presenti sul territorio palestinese assediato sono: Karni, la cui chiusura preclude l'ingresso di materiale edilizio; ash-Shaja'iyah, dove, in passato, arrivavano carburante e gasolio. L'intermittenza con cui Israele ne ha permesso l'apertura, ha creato frequenti crisi energetiche, con la chiusura dell'unica centrale elettrica presente sul territorio assediato. Oggi, il passaggio è stato definitivamente chiuso. Il valico commerciale di Sufa, a sud, resta totalmente sigillato dal 2007. Nahal Oz, a nord di Sufa, è anch'esso inattivo dall'assedio imposto da Israele nel 2007. Resta solo quello di Kerem Abu Salem, sotto pieno controllo israeliano e destinato al passaggio esclusivo di poche tipologie di merci.



Questa situazione è aggravata dalla riduzione dei giorni lavorativi concessi ai passaggi della Striscia di Gaza: frumento e mangimi possono essere introdotti due giorni alla settimana, mentre i materiali da costruzione, destinati a progetti finanziati dall'estero, vengono permessi solo di rado.



"Israele sta tentando di attuare una trasformazione graduale della funzione di questi valichi, limitandone la funzione a meri passaggi di precise merci".




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Raid aerei israeliani contro la Striscia di Gaza. Colpita sede della guardia costiera palestinese.



Gaza - InfoPal. Una sequenza di raid aerei israeliani ha preso di mira la Striscia di Gaza, ieri sera e questa mattina.



L'aviazione di guerra d'Israele ha lanciato una serie di attacchi contro siti della resistenza palestinese sia nel centro sia nel sud della Striscia, e contro la sede della guardia costiera.



Il nostro corrispondente ha spiegato che, questa mattina, gli aerei israeliani hanno lanciato due missili contro il sito "Abu Jarad", delle Brigate Izz id-Din al-Qassam, nel centro della Striscia di Gaza. Il bombardamento ha causato un incendio, ma non ci sono notizie di vittime.



I due missili israeliani abbattutisi contro la sede della guardia costiera palestinese, a ovest del campo di an-Nusseirat, nel centro della Striscia, ne hanno provocato la completa distruzione. Non ci sono state vittime tra i poliziotti, che erano stati evacuati già da giorni.



Nel sud della Striscia di Gaza, a ovest della cittadina di Khan Younes, l'aviazione da guerra ha sganciato due missili contro una postazione delle Brigate al-Quds, ala militare del Jihad islamico.



L'attacco fa seguito al bombardamento di ieri sera, a Khan Younes, che ha portato alla morte di un combattente delle Brigate al-Quds.




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sabato 8 gennaio 2011

Strage di Acca Larentia tra storia e commemorazione.


(ASI) La data del 7 gennaio assume sempre un significato particolare, almeno per quanti si radunano ritualmente in Via Acca Larentia, piccolo anfratto tra i palazzi nel quartiere Tuscolano, a Roma. Un clima mesto sembra infittirsi intorno al piazzale antistante alla storica sezione del MSI ogni volta che il calendario presenta questa data, calando su di una piccola parte d’Italia le grigie tinte che contraddistinsero gli anni di piombo.



Il 7 gennaio del 1978, durante una gelida serata, un gruppo sparuto di militanti sta uscendo dai locali di questa sede del Movimento Sociale, quando dall’oscurità appaiono cinque o sei uomini armati avanzanti verso di loro. Neanche il tempo di realizzare, che il piombo di una mitragliatrice Skorpion (arma resa celebre dalle BR, ma che farà in questa occasione la sua prima comparsa nella storia del terrorismo italiano) inizia a far fuoco in direzione dei giovani missini. La prima vittima di questa improvvisa spirale di fuoco è il diciannovenne Franco Bigonzetti che, colpito mortalmente alla testa, si accascia dinnanzi la porta della sede. Alcuni militanti, tra i quali uno ferito ad un braccio, riescono a rientrare nel locale e a chiudersi dentro, scampando ad un’esecuzione certa. Chi non riesce ad evitare l’appuntamento estremo è Francesco Ciavatta (18 anni), rimasto fuori dal portone insieme all’amico Franco Bigonzetti. Francesco tenta una disperata fuga lungo una rampa di scale nel cortile esterno ma una raffica di proiettili lo raggiunge nella schiena. Non muore immediatamente, bensì riesce a raggiungere con fatica la cima della rampa, finché non cade esausto rantolando per qualche minuto prima di spirare. Il commando assassino si dilegua sparendo per sempre, non prima d’aver sbraitato volgari improperi all’indirizzo delle loro vittime. Al via vai di polizia, carabinieri, ambulanze e giornalisti che si fa frenetico fin subito dopo la strage, fa fronte un accorrere continuo di decine e decine di giovani di destra che, ricevuta la notizia, decidono di radunarsi nel cortile della disgraziata sezione. L’aria è tesa e la rabbia travolgente, sebbene la folla di missini rimanga impietrita dal dolore in un’atmosfera di caos calmo. L’apparente tranquillità si trasforma in rivolta quando un giornalista getta un mozzicone di sigaretta – si presume distrattamente – proprio sulla chiazza di sangue di una delle due vittime. Il gesto è interpretato come un atto di disprezzo e genera la reazione dei militanti. Prima si avventano sul colpevole di tale affronto scaraventandolo a terra e distruggendo la sua cinepresa, poi iniziano dei violenti tafferugli con le forze dell’ordine. La follia di un carabiniere aggiunge alla tragedia un altro lutto: al tentativo vano, a causa di un inceppamento della pistola, di sparare in aria dei colpi per far desistere gli scontri, fa seguire una raffica di proiettili verso i militanti sparata dalla pistola di un collega a cui l’aveva appena tolta vista la cilecca della propria. Stefano Recchioni, altro diciannovenne, stramazza al suolo e muore in ospedale due giorni dopo esser stato vittima dei colpi sconsiderati sparati dal funzionario. E’ la terza vittima di questa dolente serata invernale, in cui un’insaziabile sete di sangue sembra essersi impadronita di alcune coscienze guidandole verso una cinica e dissennata caccia al fascista.



L’amaro ricordo di quanto avvenne non è oggi certo assopito, a trentatré anni di distanza, a causa di una verità e di una giustizia rimaste latitanti. E’ un sapore amaro quello che si percepisce nell’aria di Via Acca Larentia ad ogni 7 gennaio, laddove diverse generazioni di una comunità umana, che si riconosce nelle idee per cui Franco, Francesco e Stefano persero la vita, si raduna annualmente per commemorare tutti i suoi caduti, scegliendo la data e il luogo simboli di uno stillicidio di morte che ha mietuto tante vittime tra le file dei loro camerati in quegli anni feroci. I più anziani rivivono con la mente quella serata intensa che rimane incisa sulla loro pelle, i più giovani si proiettano idealmente in un periodo storico che per ragioni anagrafiche non hanno potuto vivere ma del cui messaggio di radicalità hanno scelto di farsi interpreti. Tante persone provenienti da esperienze umane e politiche variegate ma unite dalla condivisione di un comune patrimonio culturale si sono ritrovate anche quest’anno per dedicare ai propri caduti il solenne “presente”. Un suono forte esce dalle casse di uno stereo poste appena fuori la porta della sezione. Le note sono quelle della canzone “Generazione ’78″, il cui testo è diventato l’emblema degli anni di piombo vissuti “da destra”. L’imponente silenzio dà la misura del raccoglimento che simili note possono provocare in ciascuno dei presenti. Poi, terminata la canzone, una voce chiama all’attenti e dopodiché inizia a citare un lungo elenco funebre, quello dei militanti rimasti uccisi. Terminato l’elenco, sempre la stessa voce chiama per tre volte un “camerati caduti!”, a cui sempre risponde una possente voce in coro: “Presente!”. L’urlo squarcia il silenzio e riecheggia tra le strade del quartiere, le braccia destre sono tese al cielo quasi a voler raggiungere i propri caduti, come a volerne raccogliere il testimone. Nella mattinata vi era stato anche l’omaggio istituzionale: una corona di fiori deposta dal ministro della Gioventù Giorgia Meloni. Alla cerimonia ha partecipato anche l’assessore ai Lavori Pubblici del comune di Roma Fabrizio Ghera, in rappresentanza del sindaco Alemanno, impossibilitato dagli impegni ad esserci di persona. Lo stesso sindaco promise due anni fa l’intitolazione di una via ai “martiri di Via Acca Larentia”. Promessa che evidentemente è rimasta fin’ora chiusa in una busta della scrivania del sindaco.



di Federico Cenci, http://www.agenziastampaitalia.it


venerdì 7 gennaio 2011

Acca Larentia: per non dimenticare.




07/01/1978 - 07/01/2011

 


Notizie dall’Irlanda del Nord.


La commemorazione del Bloody Sunday del 2011 potrebbe essere l’ultima. La Real Ira ha dichiarato una espansione delle proprie operazioni.



Di Fabio Polese, www.agenziastampaitalia.it



(ASI) A Derry, in Irlanda del Nord, in un freddo pomeriggio del 30 gennaio del 1972 durante una manifestazione indetta dalla Nothern Ireland Civil Rights Associationper protestare contro la mancanza dei diritti civili e per le nuove norme di polizia che permettevano una reclusione preventiva per chiunque fosse solamente sospettato di essere un militante patriottico repubblicano, vennero uccisi quattordici civili inermi e molti furono i feriti. Ogni anno a Derry, nella data del 30 gennaio, viene fatta una manifestazione in ricordo degli irlandesi barbaramente uccisi dal primo battaglione del reggimento dei paracadutisti britannico alla quale partecipano, oltre a migliaia di patrioti repubblicani, anche diverse delegazioni europee. In questi giorni si sta discutendo sulla sorte della marcia commemorativa, infatti, quella del 30 gennaio del 2011 potrebbe essere l’ultima. Tony Doherty, rimasto orfano di padre nella giornata della manifestazione e che viene ricordata da tutti come Bloody Sunday, ha dichiarato: “Penso che molte persone siano del parere che la prossima marcia dovrebbe essere l’ultima, e sarebbe adeguato approfittare dell’occasione per la celebrazione di una festa piuttosto per che una commemorazione”. Le celebrazioni di una festa si riferiscono al Rapporto di Lord Saville, nelle 5000 pagine della relazione viene dimostrato che il massacro del Bloody Sunday fu assolutamente ingiustificato e che nessuna delle persone uccise dai soldati della Compagnia di Supporto era armata con un’arma da fuoco o una bomba di qualsiasi tipo. Nessuno stava minacciando di provocare la morte o lesioni gravi ai soldati e in nessun caso è stato dato alcun avviso prima di aprire il fuoco da parte dei soldati.  Dopo 12 anni di inchiesta e con un costo di circa 200 milioni di sterline, il 15 giugno del 2010 è stata chiusa l’indagine voluta da Tony Blair nel 1998, rendendo così uno spiraglio di giustizia e rendendo pubblica la verità per la quale i familiari delle vittime non avevano mai smesso di lottare sin dal lontano 1972. I pareri sul destino della manifestazione sono però differenti, Liam Wray, che in quella manifestazione perse suo fratello, ha detto: “Non credo siano i familiari – delle vittime -i proprietari della marcia, credo lo sia la gente di Derry. Non credo che la marcia dovrebbe smettere perchè i nostri familiari hanno ottenuto giustizia, la marcia è molto più di questo; molte altre organizzazioni hanno partecipato a questa marcia e hanno avuto l’occasione per evidenziare la loro causa. Penso che sarebbe molto triste e dannosa per i diritti civili e i diritti umani, se dovesse scomparire”. Intanto, la situazione in Irlanda del Nord resta molto tesa, all’alba del nuovo anno, la Real Ira, in esclusiva al Sunday Tribune, ha dichiarato una espansione delle proprie operazioni. Nel comunicato si legge: “Durante l’anno a venire, cercheremo di espandere il teatro delle nostre operazioni in linea con la nostra strategia. Continueremo a colpire le istituzioni e il personale in campo militare, politico, di polizia, della giustizia ed economico e commerciale”. Nelle sei contee dell’Irlanda occupata, c’è chi ancora vuole ricordare i propri caduti e continuare la lotta per la libertà.



www.fabiopolese.it


lunedì 3 gennaio 2011

Crisi Economica, riflesso della crisi dei valori.



(ASI) La crisi c’è e si percepisce, si comprende anche da come cambiano certe nostre abitudini, e non solo dalla Legge di Stabilità e dai  numerosi conseguenti tagli che, per rispettare i vincoli economici imposti dall’Europa, ogni governo è costretto annualmente a fare.  



La solita ricetta ultra liberista che propone lo stesso schema: Si levano risorse importanti allo stato sociale, alla ricerca, all’Università ai trasporti, alla cultura  mentre si prospettano fasulle liberalizzazioni e  la svendita dei settori strategici dello stato.



Gli effetti negativi li pagano in prima persona le classi sociali più deboli e i lavoratori costretti a fare maggiori sacrifici.



Inoltre questa situazione economicamente poco edificante fa aumentare la disoccupazione, rende più difficile l’occupazione e l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. La difesa del lavoro diventa un’emergenza e una prioritaria battaglia sociale.



 In pratica si riduce il livello di vita degli italiani, senza poi contare che la crisi globale ammorba il pianeta con leggi finanziarie che, invece di sostenere le imprese, le famiglie e far ripartire il sistema, restringono la concessione di credito favorendo la grande usura internazionale, unica, insieme alla malavita organizzata ad avere ingenti liquidità da investire. 



Una delle tante contraddizioni dovute dall’accelerazione  capitalistica  è l’infondere falsi bisogni nell’uomo, creando un sistema economico basato sull’asse perpetuo  produzione e consumo e viceversa, ma non si dà alle gente i mezzi per consumare e vivere decorosamente.  Strano sistema quello ultra liberista per cui i ricchi diventano più ricchi, i poveri più poveri, e la classe media scivola lentamente verso la soglia ritenuta di povertà. Si fa fatica a programmare il futuro, fare una famiglia e dei figli diventa un costo alto da sostenere. Però ci si lamenta che l’Italia detiene il triste primato della denatalità e delle morte bianche sul lavoro.



Eppure da un lato si fa fatica a creare posti di lavoro e a far riprendere l’economia, dall’altro si ammette che la grande usura apolide, agisca impunita a livello globale, senza sudare con semplici spostamenti di capitali, faccia ingenti guadagni, speculando e riducendo in miseria gli stati sovrani. Poi saranno sempre i grandi usurai a finanziare il debito a tassi che rappresentano una corda al cappio dalla quale sarà difficile svincolarsi e rendersi liberi.  Poi per ripagare i prestiti l’abbiamo detto sopra come i governi agiscono  e  le  pesanti ricadute sociali  che il popolo è costretto a sopportare.



 Basta vedere quello che accaduto in Grecia, Irlanda e quello che si potrebbe prospettare per Portogallo,Spagna ed Italia.



Alla fine però non si capisce perché le persone non prendano consapevolezza di questa deriva, del meccanismo perverso che si è innestato, il perché i grandi burattinai possano agire indisturbati e farla franca. Perché si debba pagare noi gli effetti prodotti dalla bramosia smisurata dei grandi usurai.



E’ tempo che si ripensi al modello politico da attuare, che l’uomo prenda coscienza di quali sono le  sue reali necessità mentre elimini i falsi bisogni indotti e gli sprechi, ritorni all’essenzialità delle cose.



Lo Stato sia etico, formi Uomini saggi, abitui al concetto di comunità umana e solidale, prevalga la prosperità dei molti e non la ricchezza dei pochi,    premi i meriti,  favorisca la libera concorrenza finalizzata alla creazione di un benessere esteso, nel rispetto della natura e dell’ottenimento del lecito profitto di chi investe.  Tutti devono avere la possibilità  che gli venga  garantito un livello di vita dignitoso.  Non è utopico quello che prospetto,  ma semplicemente rivoluzionario nella sua antica e saggia accezione, cioè  il  ritorno alla normalità delle origini in cui l’essere viveva di cose basilari. Per fare ciò occorre abbattere definitivamente i falsi idoli e il vitello d’oro innalzato  dall’egoismo umano, dalla paura della morte e non considerare sacra l’esperienza umana. Per questo una visione spirituale del cosmo ci aiuta a dare un ordine,  a comprendere le priorità della vita, a distinguere la verità dal falso, le cose giuste e ammesse.



http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1472%3Acrisi-economica-riflesso-della-crisi-dei-valori&catid=4%3Apolitica-nazionale&Itemid=34