mercoledì 27 ottobre 2010

LA CASA DEL SOLDATO. Altrilibri consigliati.


Le ultime ore dell’Europa.



Questo testo si può forse considerare l’opera più suggestiva di Adriano Romualdi. L’autore trasmette tutta l’atmosfera della tragedia della seconda guerra mondiale, con tutte le tensioni, le aspettative e le contraddizioni, dei combattenti della parte sbagliata. Riportiamo qualche riga suggestiva:“[…] Hitler è morto, ma i commandos delle Waffen SS si battono ancora nei pressi della Cancelleria. Ci si batte per rabbia, per disperazione, per competizione. Stalin vuole che Berlino cada il 1° maggio, e non gli si vuole dare questa soddisfazione. Il fronte è ormai rotto in tanti frammenti di resistenza. Ognuno fa la “sua” guerra, contro i “suoi” Russi, per spirito sportivo. La Croce di Cavaliere è concessa per ogni 7 carri nemici distrutti e ognuno vuole morire con la sua Ritterkreuz al collo. Gli Scandivani han saccheggiato un magazzino della Wehrmacht: scommettono una bottiglia di Schnaps per ogni carro russo saltato. I guidatori russi sono presi dal panico. Per farli proseguire, in molti commissari politici devon loro puntare la pistola.”



Autore: A. Romualdi

Editore: Settimo Sigillo

Pagine: 175, brossura con 30 foto b/n

Anno: 2004

Prezzo: 15 €


 



Il capo di cuib.



"Le guerre sono vinte da coloro che hanno saputo attrarre dall'alto, dai cieli, le forze misteriose del mondo invisibile e assicurarsi il concorso di queste forze. Queste forze misteriose sono gli spiriti [...] dei nostri antenati [...] Prima di essere un movimento politico [...] il movimento legionario è una scuola spirituale in cui entra un uomo per uscirne un eroe [...] Cercate programmi? [...] Sarebbe meglio cercare uomini [...] - non di programmi si sente il bisogno nel paese, bensì di uomini e di volontà [...] Il nostro movimento legionario rivela essenzialmente il carattere di una grande scuola spirituale. Esso tende a suscitare fedi insospettate, esso mira a trasformare, a rivoluzionare le anime. Gridate ovunque che il male, la miseria, la rovina vengono dall'anima. L'anima è il punto cardinale su cui occorre operare nel momento presente. L'anima dell'individuo e l'anima del popolo".



Ciò che fa l'inattualità, quindi la perennità, di questo libretto - breviario di ortodossia e di ortoetica che, steso da Codreanu per i legionari della 'Guardia di Ferro', venne da Nae Jonescu paragonato agli Esercizi spirituali di s. Ignazio di Loyola - è il suo intendimento di allevare anime. Di fare dell'anima il soggetto che nell'uomo guida la contemplazione e ne disciplina la concentrazione e la comprensione: il presidio da cui sorvegliare i moti del corpo della storia. Nel tempo l'émpito della decadenza vorrebbe affondare tutto - essenze spirituali, stili di vita, lineamenti estetici -, e poi trascinare il tempo stesso verso la dissoluzione. E allora ciò che fonda il tempo, che lo precede e domina, a insorgere e ad aspettare la storia al varco: per purgarla e purificarla. Ben accordati dai canoni etici di Codreanu, gli strumenti delle anime dei legionari tentarono questa opera, e se, nell'immediato, le loro voci non riuscirono a soffocare il rumore del tempo, la vibrazione che ne rimane ancora tonifica l'attenzione ed edifica l'attesa per l'Ordine - all'interno dell'uomo e delle sue comunità - da parte di quanti non si piegano alla congiuntura della storia.



Autore: Corneliu Z. Codreanu

Editore: Edizioni AR

Prezzo: 12 €



Ordinali a: lacasadelsoldato@libero.it o controventopg@libero.it



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Serbia: orgoglio nazionalpopolare .


Tanto poté la propaganda d’occidente – frammista ad alcuni sdruciti scampoli di socialismo reale - che alla fine gli jugoslavi quasi ci crederono di vivere sotto un “regime”. Chi ha avuto la ventura di trovarsi a Belgrado una decina di anni or sono ricorderà: la voce bassa con cui si parlava di politica nei bar, o al ristorante; la presenza discreta della polizia in borghese, tradita solo da qualche presenza più nera del nero, scarpe nere, pantaloni neri, maglia nera, giacca nera, occhiali neri, pistola nera alla cintura; i necrologi a pagina intera per i dirigenti pubblici, con la loro foto listata a lutto sulle vetrine dei negozi; i ristoranti di Stato, i grandi magazzini di Stato, le cabine telefoniche di Stato; la cattedra di economia socialista all’università, poche canzoni in inglese, le cravatte regimental; carta da parati pastello, velluto sdrucito, stampe propagandistiche di bagni termali dismessi; qualche sparo in aria per la partita, la borsa nera, le banconote a nove zeri, i manifesti antiamericani stampati a milioni dalle tipografie dello Stato, altro che ciclostile; un poliziotto alticcio, qualche cingolato, tante bandiere; qui non si può fotografare, qui sì ma è meglio di no; le cose dai nomi semplici: la fabbrica della birra di Belgrado si chiamava “Fabbrica della birra di Belgrado”, la fabbrica delle sigarette di Vranje si chiamava “Fabbrica delle sigarette di Vranje”; niente foto a colori sui giornali, anzi: niente foto del tutto; l’obbligo di registrarsi alla polizia, il lasciapassare turistico, la sacrosanta diffidenza per lo straniero; marmo e cemento prefabbricato, poco spazio alle architetture progressiste; il ristorante cinese col ritratto di Mao, le piante d’appartamento, il verdino, il marrone, l’azzurrino, il nero, e poco spazio al rosso: giusto qualche adesivo Coca-Cola sbiadito dal sole in memoria di qualche prurito moderno dei primi anni Novanta.



Košava è il nome che i serbi hanno dato a un vento che soffia sul loro Paese, un vento che nasce dai Carpazi, segue il corso del Danubio, investe Belgrado e, in inverno, si infila come una lama di ghiaccio nel cuore della Serbia centrale. Talvolta, per particolari occasioni, capita che questo vento non scorra solo sulle invisibili direttrici atmosferiche, ma si sposti sulle trasmissioni dei radio-telegiornali, valichi l’Adriatico s’insinui nelle redazioni della grande informazione nazionale che si accorge quindi ancora dell’esistenza della disgraziata nazione balcanica, si ricorda dell’esistenza di quel “buco nero d’Europa” che diventa via via sempre più grigio. E i titoli a tutta pagina, le notizie d’apertura, gli editoriali dei grandi opinionisti diventano per un po’ un grido unanime, un “mamma li serbi!” urlato a gran voce. La riscoperta della Serbia da parte della nostra grande informazione segue una tempistica e delle regole a dir poco originali. Per anni, ad esempio, c’è stato chi ha denunciato la barbarie giuridico-internazionale dell’autoproclamata indipendenza kosovara, che – incrinando l’ordine di Vestfalia – avrebbe condotto all’anarchia i rapporti tra Stati e tra Stati e regioni; eppure la nostra stampa non ha reputato di dover spendere inchiostro per la questione: congiura del silenzio. Oppure, c’è stato chi reiteratamente ha denunziato la menzogna su cui si fondava la propaganda euro-occidentale-statunitense della “pulizia etnica” messa in atto dalla Serbia nei confronti delle minoranze nazionali, opponendo prove scientifiche di indubbia veridicità, ma anche qui nulla: ferme le rotative, silenti gli autorevoli commentatori, al massimo qualche accusa di complottismo. O ancora: esperti e studiosi d’ogni sorta, civili e militari, hanno svelato la natura terroristica delle operazioni militari Nato del 1999, che hanno distrutto l’ecosistema locale, inquinato per secoli l’acqua, l’aria e il terreno fino al punto da colpire con morbi letali gli stessi soldati degli eserciti occupanti; chi ne ha fatto menzione? Rinascita, d’accordo. E poi? La Repubblica e Il Corriere? Finito lo spazio? Troppo presi a pontificare tra arguzia e morale? Oppure avevano paura di essere confusi con quei giornalisti della radiotelevisione jugoslava che erano stati maciullati da un missile? Tanto non erano neanche giornalisti veri, erano “gli strombazzatori di Milošević”, che proprio Milošević aveva messo lì come bersaglio umano. Poi: quanti hanno sentito parlare della situazione socioeconomica nella Serbia del decimo anno dell’Era Democratica? Dello stato sociale estirpato, della disoccupazione incontrollata, della dismissione del patrimonio pubblico, della povertà e dell’emarginazione? Senz’altro in pochi: di queste cose i nostri informatori non fanno menzione; ci sono temi più importanti da trattare: “dove si nasconderà Mladić?”, ad esempio. Oppure, ad esempio, un’analisi della società belgradese alla luce delle ultime dichiarazioni del portavoce della Lega per i diritti degli omosessuali di Salt Lake City.



Oppure, come in questi giorni è capitato, basta un tafferuglio in uno stadio, uno striscione irriverente, un coro fuori dal coro, e tutti giù a riscoprire la questione serba.



Che i serbi devono ancora uscire dal purgatorio, che è ancora un Paese arretrato, che chiamano ancora “milicija” la polizia; e si mandano dieci inviati a Belgrado che – a caccia di scoop – scoprono che l’uomo nero dello stadio Marassi in patria ha stretti contatti con gli ambienti ultras e non, che so, con gli avventisti del settimo giorno o coi bieticoltori.



Altro evento dimenticato dalla nostra grande informazione è stato il decennale degli eventi dell’ottobre 2000, quando un colpo di stato diretto dall’estero ribaltò la volontà popolare e rovesciò il legittimo presidente Slobodan Milošević. Un colpo di stato edulcorato dalla terminologia con cui è stato in séguito definito, “rivoluzione colorata”, ma che è stato caratterizzato – come tutte le manovre politiche orchestrate a Washington – dalla violenza e dalla prevaricazione. Questa dimenticanza ha senz’altro i suoi perché: non si sarebbe trovato il coraggio di constatare quali sono state le reali conseguenze dell’instaurazione di un governo filo-occidentale a Belgrado: la definitiva morte di una nazione. La Serbia è infatti oggi, a dieci anni di distanza, un Paese umiliato da una classe politica inetta e serva degli input atlantici, costretta a barattare la sovranità di una parte fondamentale del proprio territorio in cambio di una sedia di terza fila in qualche consesso internazionale, in cui lo Stato non ha più un sistema sociale e previdenziale, in cui non esiste più un barlume di patrimonio pubblico, in cui ogni impresa, azienda o sistema produttivo è stato gettato nella vasca di squali chiamata “Agenzia per le privatizzazioni” in cui potentati economici non autoctoni si accaparrano per cento lire interi settori di economia pubblica. E’ una nazione in cui la stampa e la televisione hanno cominciato a torturare le coscienze coi messaggi di Radio Free Europe, in cui le telenovele di quarta mano hanno soppiantato la scarna ma pur dignitosa programmazione precedente, in cui il nuovo Verbo e in lingua inglese, come se “il giorno della fine” si allontanasse, anziché avvicinarsi. Un Paese che emigra in massa a cercare l’America, quando non si ha la fortuna di fare in casa il trimestrale per Marchionne a trecento euro al mese. Gli stessi operai che dieci anni fa, dopo il bombardamento della già nazionalizzata industria dell’auto socializzarono la fabbrica e la rimisero in funzione; non si poteva mica permetterglielo: c’era Milošević, e la democrazia era in pericolo. Una Nazione, insomma, che – come il resto d’Europa – più Europa non è.



Dove va la Serbia? Forse il processo di dissoluzione è in una fase troppo avanzata, e i margini di restaurazione si affievoliscono. O forse no: i Balcani ci hanno abituato a conferire alla recente storia europea il buio del baratro ma anche le più alte vette di orgoglio nazionale e popolare. Certo è che la strada va invertita. Ricordiamo, nell’ottobre di dieci anni fa, la mattina successiva al colpo di stato. La teppa del giorno prima aveva sciolto i cortei e pagato i mazzieri, e di facce contente in giro se ne vedevano poche: gli sguardi che si incrociavano trasmettevano quello stato d’animo peculiarmente balcanico, quella indefinibile mistione di rassegnazione, arrabbiatura e timore. “Politika”, giornale governativo fino al giorno precedente e la cui redazione era stata democraticamente epurata, titolava “La Serbia sulla strada della democrazia”.



Proprio di fronte la redazione del giornale c’era un sobrio ma elegante ristorante tradizionale, in cui ogni sera, prima del golpe, una composta nomenklatura si mostrava fiera della nazione che dirigeva, libera e caparbia. Come da consuetudine secolare, prima di pranzo veniva servita una rakija, un forte distillato balcanico. Dopo tre anni ci siamo tornati, e c’era una sorta di imitazione di fast-food, ove anziché offrirti una rakija tentavano di avvelenarti con un milk-shake, dove veniva somministrato il cibo uniformato del progresso a stelle e strisce e dove – quantomeno – si può vagheggiare la speranza che almeno dallo stomaco parta l’impulso di ribellione al nuovo disordine. Perché finalmente la Serbia comprenda che quella “strada della democrazia” imboccata dieci anni or sono altro non è che il piano inclinato che la sprofonderà nell’abisso e nell’annullamento di sé.



Di Fabrizio Fiorini, www.rinascita.eu


martedì 26 ottobre 2010

Il popolo di Gabbo.


E’ partito il conto alla rovescia: l’11 novembre saranno tre anni dal delitto di Gabriele Sandri e l’1 dicembre si celebrerà a Firenze il processo d’appello contro Luigi Spaccarotella, il poliziotto già condannato in primo grado a sei anni per omicidio colposo. Tutto in pochi giorni, mentre a Ferrara è stato disposto un risarcimento di quasi due milioni di euro per la famiglia Aldrovandi (dovrà rinunciare al costituirsi parte civile in appello), colpita dall’uccisione del figlio diciottenne Federico, morto nel 2005 per le lesioni infertegli da quattro poliziotti durante un controllo. “Mi auguro che lo Stato faccia fino in fondo il proprio mestiere anche per i casi Cucchi e Sandri”, ha detto il sindaco di Roma Alemanno commentando il risarcimento per Aldrovandi. La vicenda di Gabbo iniziò sull’Autostrada del Sole una domenica mattina del 2007, stazione di servizio Badia Al Pino Est, vicina al casello di Arezzo. Spaccarotella, agente della Polstrada, come un cecchino si appostò sul lato più estremo della carreggiata, impugnando l’arma d’ordinanza con entrambe le mani, braccia parallele all’asfalto (“sembrava stesse al poligono di tiro” riferì un testimone), esplodendo un colpo di pistola per “reagire, dimostrando che il suo non era un bluff, che faceva sul serio – ha scritto il giudice di primo grado – e che l’arma era anche in grado e capace di usarla”. Quella pallottola attraversò tutta l’autostrada, sfondando il finestrino dell’abitacolo in movimento su cui viaggiava Gabriele Sandri, 26 anni, freddato a brucia pelo senza nemmeno rendersene conto. E soprattutto senza un motivo plausibile.

Nel nome di Gabriele

Per affermare la verità, distorta da depistaggi protesi ad una versione teppismo ultrà e violenza negli stadi di calcio, s’è resa necessaria la ricostruzione di cinque testimoni superpartes e lo sforzo della famiglia Sandri, stretta dall’affetto di un moto popolare senza precedenti, unito dalla richiesta di giustizia giusta: “Gabriele uno di noi, siamo tutti Gabriele Sandri, Gabriele vittima del sistema!” Ragazzi, tifosi, anziani, uomini e donne consapevoli che in quella macchina avrebbe potuto starci chiunque. E il luogo della tragedia si è trasformato in meta di pellegrinaggio: sciarpe, messaggi, fiori, adesivi, scritte e bandiere di ogni colore lasciate da ogni curva italiana. Una catena umana ininterrottamente presente a Badia Al Pino. “Io in quell’autogrill mi ci fermo anche solo per riflettere. Anche per piangere”, dice un uomo di Bari. Oggi però non ci sono più sciarpe e nemmeno messaggi. Forse li toglie chi vorrebbe mettersi dietro le spalle questa storia assurda, diventata presto ingombrante per le troppe omissioni e complicità. Per tutta risposta è nato il “Comitato Mai Più 11 Novembre”, promotore dell’iniziativa “Una firma per Gabriele”, per mettere una targa sul luogo del delitto. “Qualcuno fa finta di niente, credendo che la cronaca non debba scalfirlo, soprattutto se un efferato delitto l’ha compiuto un individuo preposto ad evitarlo - dicono dal comitato - Non si può dimenticare. E c’è solo un modo per farlo: ricordare, preservando la memoria con dignità e solidarietà, senza alimentare inutili strumentalizzazioni, scevri da condizionamenti, animati da senso civico e sete di verità e giustizia. Ecco l’idea di una targa con poche parole, contenute in poche righe, semplici ma significative, dove ognuno può ritrovare quegli oggetti materialmente rimossi, ma eternamente presenti proprio perché spontanei e sinceri: “Nel ricordo di Gabriele Sandri, cittadino italiano”.” Ci sono banchetti di raccolta firme nelle partite di Parma, Padova, Inter, Lazio e Roma. E poi in altre città, da Lecce a Cava dei Tirreni, da Palombara Sabina a Spezzano Albanese, tra paesini e centri del nord e sud Italia. Le prime stime parlano di almeno 20.000 sottoscrizioni, molte prese anche con internet (
www.petizionionline.it). La posa della targa è prevista tra un mese, a ridosso dell’11 novembre. “A noi non è giunta ancora nessuna richiesta, formalmente non sappiamo niente di questa iniziativa per la targa - dicono dalla società Autostrade per l’Italia SpA, destinataria della petizione - ma la valuteremo quando ci verranno depositate le firme”. 

Spaccarotella:

nuovo processo a Firenze

“Avremo fiducia nella giustizia solo quando vedremo che verrà fatta giustizia giusta e se l’omicida sarà realmente giudicato per il reato commesso”, afferma la famiglia Sandri. In Corte d’Assise d’Appello di Firenze l’1 dicembre ci sarà il nuovo processo, l’ultimo che potrà entrare nel merito prima dell’eventuale pronunciamento di legittimità della Cassazione. Parti civili, tribunale di Arezzo e Procura Generale della Toscana sono ricorse in secondo grado per omicidio volontario. L’agente Spaccarotella rischia fino a 21 anni di carcere, ma sinora non ha scontato nemmeno un giorno di pena. Intanto giunge dalla Grecia la notizia di un’altra sentenza, stavolta senza attenuanti né derubricazioni: il tribunale di Amfissa (150 chilometri da Atene) ha inflitto l’’rgastolo al poliziotto Epaminondas Korkoneas, che alla fine del 2008 uccise il quindicenne Alexandros Grigoropoulos con un colpo di pistola. Infine nella sede romana di Casa Pound Italia una conferenza dal titolo “Doppia Giustizia” ha messo per la prima volta insieme Cristiano Sandri, fratello di Gabbo, e Ilaria Cucchi, sorella del giovane deceduto un anno fa nell’ospedale Pertini dopo un pestaggio in cella: tra medici ed infermieri rinviati a vario titolo, l’accusa di omicidio preterintenzionale riguarda invece tre guardie carcerarie.



Di Maurizio Martucci, www.rinascita.eu


lunedì 25 ottobre 2010

CONTINUA L'NIZIATIVA DELLE ADOZIONI A DISTANZA DI PICCOLI ORFANI PALESTINESI.






SOSTIENI LA SPERANZA



L'Associzione Culturale Tyr Perugia in collaborazione con la Comunità Solidarista Popoli e l'Associazione Benefica di solidarietà con il Popolo Palestinese (ABSPP), lancia l'iniziativa di adozione a distanza di piccoli orfani palestinesi. Gli orfani provengono dalla Striscia di Gaza, dalla Cisgiordania e dai campi profughi palestinesi del Libano, Giordania e Siria.



COME FUNZIONA L'ADOZIONE A DISTANZA DI UN ORFANO?



Prevede il sostegno di un bambino orfano dei campi profughi palestinesi sparsi in medio oriente. L’importo è di seicento euro l'anno e può essere versato mensilmente (50 euro), o in un’unica soluzione. La somma sarà così impegnata mensilmente: 45 euro li gestiranno la famiglia del bambino per le esigenze primarie (alimenti) e 5 euro (integrati da ulteriori 15 euro assegnati dall’ABSPP) le associazioni di volontari presenti all’interno dei campi profughi per i progetti paralleli (cartella scolastica, assistenza sanitaria, vestiario e colonia estiva).



Chiunque può aderire al programma di sostegno a distanza: singoli, famiglie, gruppi di amici, scuole, ditte...



In genere l’impegno dura un anno, ma il sostegno può interrompersi per cause indipendenti da noi (per esempio il

trasferimento del bambino in un’altra località). In questo caso avvertiremo e proporremo un altro bambino. Inizialmente viene inviata la scheda del bambino/a contenente i dati personali, la fotografia, informazioni del programma di

sostegno. Periodicamenete vengono inviati aggiornamenti.



Invitiamo tutti a sostenere questa nostra iniziativa e ad adottare un orfano

palestinese.



Associazione Culturale Tyr Perugia


www.controventopg.splinder.com



Comunità Solidarista Popoli

www.comunitapopoli.org



Info: info@comunitapopoli.org - controventopg@libero.it


Eugenio Benetazzo. Domande scomode.



domenica 24 ottobre 2010

LA CASA DEL SOLDATO [Altrilibri]. ...Sta per arrivare!





- Piazza Fontana: una vendetta ideologica. Edizioni di Ar - € 10,00 

- Il regno perduto. 

Appunti sul simbolismo tradizionale della montagna.Edizioni di Ar. - € 12,00 

- L'enigma sociale. - Edizioni di Ar - € 14,00 

- Céline L.-F. - Bagattelle per un massacro.- Edizioni di Ar - € 24,00 

- Céline L.-F. - Bagattelle per un massacro. - Editrice Aurora - €18,00 

- Costamagna C. - Dottrina del fascismo.  

Vol. 1-2-3 - Edizioni di Ar - € 12,00 - € 10.00 - € 10,00 

- Dàvila G.Nicolàs. - Pensieri Antimoderni. - Edizioni di Ar - € 11,00 

- Degrelle L. - Militia. - Edizioni di Ar - € 12,00 

- Dario B. M. - Il Sole Invincibile.  

Aureliano riformatore politico e religioso.- Edizioni di Ar - € 12,00 

- Evola Julius. - Imperialismo pagano. - Edizioni di Ar - € 15,00 

- Isorni J. - Il Processo Brasillach. - Edizioni di Ar - € 15,00 

- Segatori A. - La comunità vivente. - Edizioni di Ar - € 9,00 

- Il Mondo Secondo Monsanto. - Arianna Editrice - € 18,60 

- Shock Shopping. - Arianna Editrice - € 10,80 

- Euroschiavi. - TERZA EDIZIONE, Arianna Editrice - € 14,50 

- Karen, un popolo in lotta. - Edizione l'Uomo Libero - € 10,00 

- Enrico Galoppini - Islamofobia. - Edizioni all'Insegna del Veltro - € 18,00

- Il disastro di una nazione.

Saccheggio dell’Italia e globalizzazione.
-Edizioni di Ar - € 16,00

- Johann Andreas Eisenmenger. Giudaismo Svelato. – Edizioni di Ar - € 16,00

- Rutilio Sermonti. Omaggio alla R.S.I. – Controcorrente - € 10,00

- Cristina Di Giorgi. Note Alternative. – Edizioni Trecento - € 15,00

- Valerio Cutonilli. Bologna 2 Agosto 1980.

STRAGE ALL'ITALIANA.
– Edizioni Trecento - € 20,00

-  
Umberto Malafronte. Il disordine demografico.– Edizioni di Ar - € 12,00

-
Nisticò U.. Prontuario oscurantista. – Edizioni di Ar - €  16,00

- Blondet Maurizio. Chi comanda in america. – Edizioni Effedieffe - € 13,00

- Blondet Maurizio. Stare con putin? – Edizioni Effedieffe - € 22,00

- Sonia Michelacci. Il comunismo gerarchico.– Edizioni di Ar - € 20,00



Per ricevere la lista completa dei testi, per avere maggiori informazioni e per ordinazioni contattare la mail: controventopg@libero.it




Facebook e la privacy perduta.


Un’inchiesta del Wall Street Journal ha rivelato che molte fra le più popolari applicazioni di Facebook sarebbero state usate per inviare informazioni riservate degli utenti a decine di società terze che, a loro volta, le utilizzerebbero per scopi commerciali. In pratica, chiunque passi il tempo a giocare a FarmVille, circa 59 milioni di utenti nel mondo, sarebbe soggetto a una possibile cessione non consentita dei propri dati. Al centro dell’inchiesta ci sono altre aplicazioni famose come Texas Hold’em Poker, 36 milioni di utenti, e Mafia Wars, 21 milioni di utenti. Il giro delle generalità coinvolgerebbe non solo coloro che giocano in prima persona ma anche i loro amici, in un circuito da mezzo miliardo di persone e oltre 550mila applicazioni. “Non tutte prodotte da Facebook” sottolineano i portavoce del social-network che promettono di aumentare i controlli. Ma la creatura nata dalla mente di Mark Zuckerberg, che solo quest’anno ha fatturato 1.1 miliardi di dollari, si dimostra sempre più come una scheggia impazzita nel panorama del world wide web. Il governo di Washington ha già promesso controlli stretti per evitare il pericolo terrorismo e oggi, chi si diverte nella fattoria virtuale, può vedersi rubare i dati. Cosa accade al sito delle facce? PeaceReporter lo ha chiesto a Daniele Minotti, avvocato penalista specializzato in reati informatici e nuove tecnologie.

 


Avvocato come giudica questa falla nel sistema di Facebook?


Facebook è stata più volte messa all’indice per questioni di privacy. Lo stesso padre, Zuckerberg, ha sempre dribblato la questione. Soltanto ultimamente, sulla base di forti pressioni, ha deciso di fare un programma che protegga la riservatezza. I bug nei programmi sono all’ordine del giorno, il problema è sapere se sono voluti o meno. In questo caso probabilmente si tratta di un bug non previsto, non prevedibile, quindi qualcosa di colposo, gravemente colposo, secondo me. Non escludiamo il fatto che comunque i dati sono una ricchezza molto importante nella vita informatica. Non si potrebbe escludere che, a volte, certe falle siano volute per permettere a terze parti di impossessarsi dei dati delle persone.

 


Facebook garantisce il rispetto della privacy. Se non ottempera a questo dovere, può essere denunciato?


Quando Facebook ci fa accedere a un’applicazione normalmente ci dice di stare attenti alla nostra privacy, avvisando che i dati potrebbero essere trasmessi a soggetti terzi. Quindi la piattaforma si tutela fin dall’inizio. Da ciò consegue che con Facebook ce la si può prendere poco. Sicuramente Facebook è abbastanza disinvolto nel gestire queste cose: nel senso che scarica il barile e intanto incassa determinati introiti. Perché, chiaramente, ciò che mette sulla propria piattaforma se lo fa pagare. Bisogna fare una distinzione: se c’è una chiara volontà di captare questi dati con le applicazioni, allora è responsabile soltanto il soggetto terzo. A Facebook può essere sufficiente avvisare preventivamente prima di accedere a questa applicazione. Nel caso sia una falla, invece, bisogna vedere dove sta la falla. Se sta lato facebook o lato applicazione. In questo caso non si può imputare nulla a Facebook.

 


È lecito per una società terza contattare un utente per offerte o pubblicità, senza un esplicito consenso?


Ultimamente c’è la questione dei call center. Telefonicamente vale il famoso registro di opt-out per cui una persona deve dichiarare esplicitamente di non voler più essere contattato da una certa società. Ma questo non vale per le altre forme di pubblicità. Nel momento in cui un terzo ha un dato per contattarmi, il numero di cellulare, la mail, un profilo di facebook, quello è un mio dato personale e non può trattarlo senza il mio consenso e senza avermi dato l’informativa. Il problema è che questi trattamenti avvengono spesso fuori dall’Italia, negli Stati Uniti quando va bene, o addirittura in luoghi con legislazioni carenti in materia. Il che, naturalmente, fa sorgere un problema di incrocio di regole locali e internazionali che alla fine frantuma e rende poco esercitabile il proprio diritto.

 


Cosa possono fare gli utenti per non vedere finire i loro dati nei database di aziende pubblicitarie?


L’utente deve imparare a difendersi prima di tutto. É brutto da dirsi, nel senso che bisognerebbe pretendere il rispetto della legge da parte degli altri. La gente dovrebbe sapere che ogni applicazione esterna, quindi non Facebook, è potenzialmente pericolosa per la privacy. In realtà prevenire è meglio che curare: l’utente deve capire quello che fa con un computer e rendersi conto che determinati comportamenti sono a rischio. A parte il fatto che ci vorrebbe in genere una migliore cultura informatica e telematica. Il fruitore deve partire con una sorta di pregiudizio e non pensare che una bella cosa non comporti problemi. Anzi, di solito il bel giochino divertente è uno specchietto per le allodole. Inoltre bisogna capire che nessuno fa niente per niente e quando qualcuno mette a disposizione una semplice piattaforma di gioco lo fa per ottenere un vantaggio. E il vantaggio è spesso quello di costituire una banca dati che sono beni preziosissimi. Avere una montagna di dati da utilizzare in proprio o rivendere a terzi, è un’attività che spesso può essere realmente lucrativa.

 


Da: www.peacereporter.net

Filippo Corridoni (Corridonia 19/08/1887 - San Martino Del Carso 23/10/1915)


In ricordo di Filippo Corridoni riproponiamo un nostro articolo uscito su Controvento il 23-10-2008.



Filippo Corridoni è uno di quei personaggi che ci sa rendere orgogliosi del nostro paese, come pochi altri. Sconosciuto ai più, la sua storia è diventata, sin dall’immediatezza della sua morte, un simbolo e d un esempio di vita per molti ragazzi e per molti lavoratori, che vedevano nelle allora nascenti idee del sindacalismo rivoluzionario una speranza ed una ragione di rivolta. Nei primi anni del secolo scorso, erano ancora molto forti le influenze di Georges Sorel, in tutti quegli ambienti del lavoro che rifiutavano l’idea sempre più assestata nell’area del socialismo ufficiale, della necessità di un partito socialista interno al sistema politico parlamentare, e di un sindacato confederale. L’idea sorelliana, al di là delle implicazioni teoretiche e della storica contrapposizione del mito vitalistico-rivoluzionario rispetto alla cosiddetta “utopia” marxista, sostanzialmente si basava su di un sindacalismo che prevedesse la difesa autonoma e diretta dei lavoratori, e il sovvertimento dello Stato borghese in uno Stato del Lavoro, senza alcuna mediazione di terzi. Tra il 1907 e il 1909, in pieno fermento operaio, si trova a Parma, dove guida, assieme al carismatico Alceste de Ambris, pesanti rivolte contadine, portando avanti uno dei più serrati e potenti scioperi del proletariato agrario. Proprio a Parma, concentrerà la sua più audace attività sindacale, intervenendo con acume e lucidità critica, sulle colonne de L’Internazionale, rivista della Camera del Lavoro sindacalista rivoluzionaria del capoluogo emiliano. Arrestato, fuggì a Lugano, per poi rientrare, dopo un’amnistia, nel 1910, nel modenese. Nel frattempo, collaborò con altre due riviste legate alla Camera del Lavoro e guidate da Edmondo Rossoni: Bandiera Proletaria e Bandiera del Popolo. La strada intrapresa dal Partito Socialista Italiano era chiara da tempo: un ingresso nella normalità democratica del Paese, tentando la via del riformismo. Corridoni non si arrese mai a questa prospettiva e perseguì anche a Milano, nel biennio 1910-1912, il suo tentativo di introdurre nel sindacato il metodo organizzativo basato sull’unità produttiva e sul ruolo qualificato dell’addetto: questo metodo, era il suo pensiero, avrebbe portato a nuovi tipi di relazioni industriali, ma nel contempo introdotto un principio interclassista dal punto di vista politico. Nel momento della scissione interna alla CGdL, che diede vita all’Unione Sindacale Italiana (USI), moltissimi seguaci del Sindacalismo Rivoluzionario tentarono l’approdo a questa nuova formazione, sperando in una ripresa forte del sindacalismo italiano di base. Quando l’Italia partì per l’impresa coloniale in Libia, Corridoni attaccò impietosamente la monarchia e il governo, mostrando una contrarietà molto tenace all’interventismo e al sistema borghese dell’Italia giolittiana. Questo malcontento ramificato all’interno delle masse lavoratrici, non sorprendeva più di tanto ormai, ma nessuno avrebbe mai potuto prefigurare, anche con la più espansa fantasia, la terribile Settimana Rossa. Si tratta del comizio antimilitarista convocato il 7 giugno (anniversario dello Statuto), per protestare contro le “Compagnie di disciplina”, contro il militarismo, contro la guerra, e a favore di Augusto Masetti e Antonio Moroni, due militari di leva. Il primo, rinchiuso come pazzo nel manicomio criminale (aveva sparato al suo colonnello prima di partire per la guerra in Libia), e l’altro inviato in una Compagnia di Disciplina per le sue idee (era sindacalista rivoluzionario). Essendo quella del 7 giugno una giornata piovosa, si decise di procrastinare il comizio alle ore 18 alla “Villa Rossa” sede del partito repubbicano di Ancona. Alla presenza di circa 600 persone, repubblicani, anarchici e socialisti, parlano il segretario della Camera del Lavoro, Pietro Nenni, Errico Malatesta per gli anarchici e Marinelli per i giovani repubblicani. Dalla Villa si decise di muovere verso la vicina piazza Roma dove si stava tenendo un concerto della banda militare. La forza pubblica, volutamente distribuita su due ali in modo da bloccare l’accesso alla piazza e far defluire in fila indiana verso la periferia della città la folla, dopo aver avvisato i manifestanti con ripetuti squilli di tromba, iniziò a picchiare indiscriminatamente anche donne e bambini, mentre dai tetti e dalle finestre delle case furono lanciati pietre e mattoni. Alcuni colpi di pistola vennero esplosi, probabilmente da una guardia, ed i carabinieri, credendoli (secondo la loro versione) partiti dalla folla, aprirono il fuoco: spararono circa 70 colpi. Tre dimostranti furono uccisi: Antonio Casaccia di 24 anni, Nello Budini di 17 anni, repubblicani, morirono all’ospedale e l’anarchico Attilio Gianbrignoni di 22 anni morì sul colpo. Vi furono anche cinque feriti tra la folla e diciassette tra i carabinieri. Il clima fu pesantissimo per settimane, e Corridoni venne efferatamente attaccato dalle colonne del Corriere della Sera, e additato quale agitatore di conflitti e scontri di piazza. Questo episodio segnò indissolubilmente la vita di Corridoni, che maturò sempre più posizioni sindacaliste rivolte all’interventismo. I suoi rapporti con Mussolini, all’epoca direttore dell’Avanti, furono sempre abbastanza gradevoli, ma divennero persino saldi e decisi, allorquando, l’ala interventista, interna al PSI, capeggiata dal futuro artefice del fascismo, raccolse molti consensi all’interno degli ambienti socialisti e sindacalisti e riunì le varie sigle sotto il nome dei Fasci d’Azione Rivoluzionaria. Corridoni riteneva che la sconfitta delle nazioni reazionarie e plutocratiche potesse in qualche modo favorire la posizione sociale dell’Italia, a partire anzitutto dal miglioramento delle classi operaie, sempre più schiacciate verso sé stesse, tanto internamente (Stato, Monarchia, padronato) quanto esternamente (imperi coloniali, reti creditizie). Partito volontario, ma minato dalla tisi, che lo affliggeva da anni, fu assegnato ai servizi di retrovia; ciononostante insisté per essere inviato al fronte: ci riuscì e partecipò ai combattimenti sul Carso, dove trovò la morte per ferita d’arma da fuoco in seguito a un assalto alla trincea austriaca. Risultò così profetica la sua affermazione eroica: “Morirò in una buca, contro una roccia o nella corsa di un assalto ma, se potrò, cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora!”. Venne insignito della Medaglia d’Argento al Valor Militare, convertita in una Medaglia d’Oro nel 1925 per volere di Benito Mussolini.



«Soldato volontario e patriota instancabile, col braccio e la parola tutto se stesso diede alla Patria con entusiasmo indomabile. Fervente interventista per la grande guerra, anelante alla vittoria, seppe diffondere la sua tenace fede fra tutti i compagni, sempre di esempio per coraggio e valore. In testa alla propria compagnia, al canto di inni patriottici, muoveva fra i primi e con sereno ardimento all’attacco di difficilissima posizione e tra i primi l’occupava. Ritto, con suprema audacia sulla conquistata trincea, al grido di “Vittoria! Viva l’Italia!” incitava i compagni che lo seguivano a raggiungere la meta, finché cadeva fulminato da piombo nemico.»

Trincea delle Frasche (Carso), 23 ottobre 1915



Associazione Culturale Tyr Perugia


venerdì 22 ottobre 2010

Acqua pubblica, nel 2011 il referendum.


Grazie all’impegno congiunto di forze sociali differenti, nel 2010 sono state raccolte le firme necessarie per chiedere un referendum contro la privatizzazione dell’acqua pubblica. Alex Zanotelli, in prima linea in questa battaglia, chiede ora a tutti i cittadini italiani di partecipare al referendum che ci sarà nel 2011, perché: "Se perdiamo l'acqua, abbiamo perso tutto".



La cittadinanza attiva italiana ha ottenuto una straordinaria vittoria raccogliendo un milione e quattrocentomila firme per chiedere un referendum contro la privatizzazione dell'acqua (Legge Ronchi,19 novembre 2009).



Questo grazie a una straordinaria convergenza di forze sociali che vanno da associazioni laiche come Arci o Mani Tese, o cattoliche come Agesci o Acli, da sindacati , da movimenti come NO TAV o NO Dal Molin, da reti come Lilliput o Assobotteghe.



In nessun referendum si era mai visto un tale schieramento di forze sociali così trasversali, che hanno trovato poi la capacità di organizzarsi a livello locale, provinciale, regionale.



È stata l'acqua, fonte della vita, che ha riunito in unità la cittadinanza attiva.



È fondamentale notare che tutto questo è avvenuto senza l’appoggio dei partiti, senza soldi e senza la grande stampa. I partiti al governo ci hanno attaccato pesantemente (le dure dichiarazioni di Ronchi e Tremonti), mentre i partiti dell'opposizione presenti in Parlamento (PD e Idv) ci hanno remato contro.



Il Comitato Referendario ha sfidato il popolo italiano con delle scelte ben precise. In piena vittoria del mercato e della finanza, i 3 quesiti referendari chiedevano che, primo, l'acqua venisse dichiarata un bene di non rilevanza economica, secondo, l'acqua venisse tolta dal mercato e, terzo, che non si facesse profitto sull'acqua. È il massimo che si può chiedere a un popolo in pieno neo-liberismo.



Intorno ai banchetti della raccolta firme, si è svolta "la battaglia antropologica fra la persona, dotata di diritti e doveri e l'homo economicus, furbo, speculatore irresponsabile e pronto a tutto, pur di arricchirsi", così ha scritto il costituzionalista Ugo Mattei.



Ha vinto la persona, ha vinto il diritto umano. Ed è la prima grande vittoria per il bene comune (insieme all'aria) più prezioso che abbiamo.



A Roma abbiamo festeggiato questa vittoria a Piazza Navona il 19 luglio, portando poi gli scatoloni contenenti le firme alla Corte di Cassazione. Che festa!



Ma ora si apre la campagna referendaria vera e propria! Per questo, il 4 settembre, i referenti regionali del Forum italiano dei movimenti per l'acqua pubblica, si sono ritrovati a Roma per valutare come procedere e sopratutto per preparare l'incontro nazionale di tutto il movimento in difesa dell'acqua pubblica, che si è tenuto a Firenze (18-19 settembre).





La Corte Costituzionale entro ottobre deve esprimersi sulla validità delle firme raccolte e poi darci i quesiti referendari, ed infine dovrà fissare la data del referendum dal 15 aprile al 15 giugno 2011.



È un appuntamento fondamentale questo, per cui dobbiamo organizzarci così bene da portare almeno 25 milioni di italiani a votare (è il quorum necessario per la validità del referendum).



Mi appello a tutti perché ogni cittadino italiano e ogni cristiano si impegni per salvare 'sorella acqua'. In questo cammino referendario, abbiamo avuto l'impegno serio di tante associazioni cristiane, di parrocchie e anche di diocesi (la diocesi di Termoli per esempio), ma ci è mancata la voce dei Vescovi, sopratutto della CEI.



Dopo le parole così chiare del Papa sull'acqua nella sua enciclica sociale, mi aspetto che i vescovi facciano altrettanto, perché questo è un problema etico, morale, vitale per il nostro paese e per l'umanità. Se perdiamo il referendum sull'acqua, abbiamo perso tutto.



Per questo chiediamo a tutti di impegnarsi a tutti i livelli. A livello personale chiediamo uno sforzo per informarsi e informare sull'acqua tramite internet, tramite cd o dvd (come Per amore dell'acqua), libri, opuscoli per potere poi rendere cosciente la gente con incontri pubblici, dibattiti, conferenze e serate sul tema. Solo così potremo portare 25 milioni di italiani a votare. La grande stampa e i media non ci aiuteranno!



A livello comunale, chiediamo a tutti di fare pressione sui propri consigli comunali perché votino a maggioranza che l'acqua è un bene di non rilevanza economica, modificando poi lo statuto comunale per inserirvi quella decisione. Questo potrebbe diventare un altro referendum popolare. Perché, per esempio, per la Giornata dell'acqua (22 marzo 2011), non potremo invitare quei Comuni che hanno così votato ad esporre un simbolo e a contarsi? Potrebbe essere questo il referendum dei Comuni. Ma c'è di più! Dobbiamo far passare la notizia che la legge Ronchi non proibisce il totalmente pubblico. E quello che la legge non proibisce, facciamolo!





Dobbiamo gridare dai tetti che i comuni, le province, le regioni e le comunità di valle che vogliono gestire la loro acqua come Azienda Speciale o Ente di Diritto Pubblico, lo possono fare. È questo il contributo della cittadinanza attiva di Napoli alla lotta contro la privatizzazione dell'acqua. Sono stati l'avvocato M. Montalto, sostenuto dall'Ordine degli avvocati dell'Ambiente di Napoli, e il costituzionalista A. Lucarelli della Federico II di Napoli, a dimostrare che questo si può fare. È questa la sfida in atto in Puglia per trasformare l'Acquedotto Pugliese da Spa a Ente di diritto pubblico.



È la sfida in atto nel Comune di Napoli di far passare l'Arin da Spa a Azienda Speciale. Speriamo che questo avvenga presto e Napoli diventi la 'capitale dell'acqua pubblica', anticipando il risultato del referendum.



Ci conforta in questo la decisione dell'assemblea Generale dell'ONU, che ha approvato lo scorso luglio la risoluzione che "dichiara il diritto all'acqua potabile e sicura e ai servizi igienici, un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani" .



"Questa risoluzione è un fatto storico importante - ha detto Petrella - , un significativo passo in avanti sul cammino dell'accesso all'acqua potabile per tutti". Questo nostro impegno per l'acqua pubblica, ha infatti una portata mondiale, sopratutto per i più poveri.



Sull'acqua ci giochiamo tutto sia per noi, sia per i poveri. Se perdiamo l'acqua, abbiamo perso tutto.



Dobbiamo vincere! Se ce l'hanno fatta l'Uruguay, la Bolivia, l'Ecuador, Parigi, ce la possiamo fare anche noi.



Diamoci da fare: si tratta di vita o di morte per noi, per i poveri, per il pianeta.




di Alex Zanotelli - 20/10/2010

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=35227


mercoledì 20 ottobre 2010

Sagome e "spezzatino".


Anche se ormai fuori moda, relegato al collezionismo e annichilito da una pletora di videogame di argomento calcistico, il Subbuteo – il calcio “in punta di dito” – è stato uno dei passatempi più diffusi e apprezzati dalle generazioni nate a cavaliere fra gli anni Settanta e Ottanta. Il gioco, semplice e sempre vario, riproduceva il football in tutto e per tutto: dal campo – un tessuto verde fissato su un piano – alle panchine, dai calciatori – riproduzioni in plastica appoggiate su una base semisferica – ai riflettori, dai tifosi – miniature umane atte a decorare gli spalti – alla pubblicità.

Se prima era il Subbuteo ad imitare il calcio, ora sembra che sia il calcio, sempre più finto e malandato, ad imitare il Subbuteo. Dopo il ricorso ai campi in erba sintetica si è arrivati addirittura a dipingere il pubblico sugli spalti: è quanto è accaduto a Trieste, dove in occasione dell’incontro di serie B tra la squadra giuliana e il Pescara, la gradinata Colaussi del “Nereo Rocco” – un moderno impianto con quasi 30mila posti per un pubblico abitualmente esiguo – è stata coperta con un “back drop”, un’enorme drappo disegnato, uno sfondo artificiale, una gigantografia raffigurante i tifosi di casa in condizioni di massimo afflusso. Umberto Saba – poeta triestino, amante del calcio, profondo ammiratore dell’atmosfera “che si forma intorno a quegli undici fratelli che difendono la madre” – inorridirebbe. Ma non potrebbe fare altro che rassegnarsi a quella che pare ormai una metamorfosi ludica e sociale tristemente ineluttabile.

Il ricorso al pubblico virtuale non deve infatti sorprendere. Le sagome disegnate all’interno di uno stadio desolatamente semivuoto sono l’epifenomeno di un processo, in atto da tempo, finalizzato alla trasformazione del tifoso da stadio in cliente televisivo. Nel nostro Paese, i provvedimenti più recenti sembrano andare tutti nella stessa direzione: “americanizzare” i calciofili italiani, cercando di convincerli che il salotto di casa – magari ben fornito di birra e leccornie – rappresenti la postazione migliore per godersi la partita in tranquillità.

Andare allo stadio – un rito collettivo a lungo semplice e diffuso -  può risultare quasi proibitivo. Gli ostacoli sono divenuti tanti e tali da scoraggiare anche i più appassionati. Non bastasse la continua erosione di fascino che da tempo investe il football – i cui protagonisti arrivano a minacciare scioperi come gli operai della Fiom -, l’ottusa burocrazia del calcio italiano continua ad arricchirsi di divieti ed impedimenti. Dopo le perquisizioni sfiancanti, le file interminabili, i tornelli e i biglietti nominali – che invece di avvicinare le famiglie hanno reso ostico anche l’accesso dei bambini -, è stata la volta dell’inopportuna “tessera del tifoso”: una “confessione d’impotenza”, come l’ha definita Zeman, che costringe migliaia di persone a pagare per pochi teppisti (come quelli che hanno cercato di aggredire il ministro Maroni ad Alzano Lombardo); un prodotto bancario multiuso che accresce il formalismo del calcio; un obbligo senza il quale non si può fare l’abbonamento né seguire la squadra in trasferta; una sostanziale schedatura che lascia dubbi sulla tutela della privatezza; uno strumento – molto diverso dalle “priority card” inglesi – incapace di garantire la fine della violenza negli stadi (tanto che si continuano a disputare partite a “porte chiuse”).

Il messaggio è chiaro: meglio stare in poltrona; meglio rassegnarsi alle partite a ciclo continuo del piccolo schermo. Sempre meno a misura di tifoso – gli impianti sono per lo più vecchi e inospitali – e sempre più a misura di televisione, il calcio propone incontri a tutti gli orari: il pallone televisivo non risparmia neppure il pranzo domenicale, irrompendo nelle case di molti italiani con una diretta alle 12,30. Non importa che anche nello sport il virtuale prenda il sopravvento sul reale. Non importa che un’abitudine sociale e collettiva diventi privata e solitaria. Non importa che tanto la tessera quanto l’offerta spezzatino costituiscano un passo ulteriore verso il solipsismo, verso l’a-socialità, verso l’atrofizzazione delle emozioni. Quello che conta è avere abbonati. Televisivi. Mentre ai nostalgici del calcio che fu non resta che l’immarcescibile “Tutto il calcio minuto per minuto”.

Nella poesia “Goal”, Saba esalta la folla da stadio, “unita ebbrezza” che al momento della rete – “pochi momenti come questo belli” – “par trabocchi in campo”. Ma quell’“unita ebbrezza” rischia di diventare solo un ricordo letterario, schiacciato dalla televisione e soppiantato dai tifosi virtuali.



Leonardo Varasano, Il Giornale del'Umbria del 20-10-2010


martedì 19 ottobre 2010

Uomini di Vetta.


A settanta anni dalla scomparsa di Emilio Comici lo ricordiamo riproponendo un articolo di Mario Cecere pubblicato su Controvento il 17 Maggio 2009.



Lammer, Comici: la montagna come prova di se'.



Una delle vie conoscitive ancora disponibili per l'uomo 'differenziato' è quella alpinistica. Molti potranno trovare l'accostamento addirittura risibile, vittime di un paradigma modernista che presuppone un'invalicabile separazione tra azione fisica e azione conoscitiva. In realtà, già la conoscenza è una forma di azione o prassi mentre l'azione è la manifestazione di un sapere ad un dato livello. Solo la volgarità dell'epoca presente poteva artificiosamente separare ciò che si dà soltanto unito ed estrarre due tronconi scissi dall'unità originaria: un sapere astratto e intellettualistico, arido e privo di vita interiore, da una parte; ed una attività meccanica e parossistica, cieca e priva di ogni interiore significato, dall'altra. Nell'alpinismo alcuni spiriti tra i più nobili e avventurosi dello scorso secolo, l'epoca in cui con maggior forza si fece sentire la crisi dovuta alla dissoluzione nichilista della civiltà europea, trovarono la via di fuga da un mondo alla deriva e, al contempo, la strada maestra per un ritorno, per la congiunzione di due lembi separati che sembravano per sempre lacerati e irricomponibili: volontà e pensiero, natura e cultura, vita e trascendenza, pericolo mortale e gioia contemplativa.

Due furono a mio avviso gli interpreti di maggior spicco di questa tendenza all'azione eroica e conoscitiva in montagna tra le due guerre: il triestino Emilio Comici (1901-1940) e l'austriaco Georg Lammer (1863-1945). Quest'ultimo, si contrappose decisamente all' "alpinismo delle guide", che ancora interpretava l'alpinismo come privilegio di pochi montanari professionisti accompagnatori di turisti passivi.

L'assalto condotto da Lammer a questa mentalità fu travolgente e si accompagnò ad una pratica spregiudicata, estrema e solitaria della conquista in montagna. A differenza di un Comici, davvero un artista mediterraneo di grazia e arditezza, l'austriaco caratterizzava come una sfida superba il suo rapporto con le vette. Rey, alpinista tipico "delle guide", sosteneva: "La fatica, il modo in cui il povero essere mortale si sforza di arrivare ai monti...mi è parso sempre cosa secondaria." Al contrario, per Lammer, "la cosa secondaria fu la montagna e ciò che soltanto m'importava, fu il modo di dominarla esteriormente e di appropriarmela interiormente. No, non era la montagna che io bramavo, ma il mio sforzo a cercare la via, l'alternativa ostinata tra vittoria e sconfitta, la battaglia leale senza aiuti e assicurazioni di chiodi, il nudo pericolo." La consapevolezza anche filosofica di questi uomini eccezionali è testimoniata da frasi come questa: "Le contraddizioni e le crepe minacciose nella muraglia della nostra cultura e dell'anima moderna non dovrebbero essere cementate e intonacate, ma denudate senza pietà." E ancora: "La nostra vita odierna mi sembra come a Nietzsche sommamente pericolosa e il mio compito finora fu sempre fare del male a me stesso e agli altri, in quanto smuovo sotto i nostri piedi il sasso apparentemente sicuro."

Georg Lammer, sopravvissuto incredibilmente,a differenza di altri suoi discepoli, a numerose catastrofi in arrampicata, è considerato padre spirituale dell'alpinismo estremo e il suo libro-manifesto del 1922 Jungborn (Fontana di giovinezza), fu bollato come un classico maledetto e mai più ristampato in Italia dagli anni Trenta. Fu proprio animato dalla indomita generazione alpinistica germanica successiva alla prima guerra mondiale che prese corpo quel fenomeno affascinante e sulfureo del cinema di montagna tedesco di Arnold Franck, Louis Trenker e Leni Rifensthal, "la regista di di Hitler". Giovani nordici legati al culto della natura e forgiati nella "volontà di potenza" nicciana trovarono, nella sfida alle grandi pareti, un dovere assoluto cui consacrare le proprie più intime energie e degno persino di essere pagato con la vita. Lammer morì vecchio e di stenti negli ultimi durissimi mesi della seconda guerra mondiale. La sua eredità spirituale, che ieri fu raccolta dai "profeti del sesto grado", sopravvive forse oggi nelle grandi imprese dei potenti himalaysti contemporanei, a cominciare da Reinhold Messner.

Emilio Comici fu anch'egli un grande alpinista, un'alpinista dallo stile eccezionale ed ineguagliato: per lui l'arrampicata era una composizione ed un'opera d'arte. Mai egli la ritenne, però, separabile dall'azione 'sacra' della conquista ardita, che in lui si accendeva di una particolare veemenza erotica, di un afflato talvolta davvero mistico con la montagna-Dea.

Per Comici, lo 'sforzo' della conquista non poteva essere isolato da una commossa partecipazione estetica ed emozionale alla maestosa vastità, severa e solare, delle Vette. Comici aveva una consapevolezza profonda della sofferenza, del patimento, del lungo e rischioso assedio alla linea verticale da vincere. La sua stessa scelta di lasciare Trieste e andare vivere a Selva di Val Gardena, dove scontò amaramente una solitudine senza rimedio, fu dettata da una lucida ricerca del compimento del suo destino; che, nel caso del più grande e nobile alpinista italiano di tutti i tempi, dovette essere beffardamente ineludibile. "Noi viviamo solo di sensazioni, intese nel senso più nobile della parola. Ognuno ha le proprie, altrimenti la vita sarebbe inutile e vuota. Ma per vivere compiutamente, bisogna pure arrischiare qualche cosa. Il Duce ha insegnato così". La raccolta Alpinismo Eroico, che contiene la descrizione delle straordinarie imprese di Comici, è una lettura che testimonia la totale alterità dell'alpinismo di quei tempi rispetto al nostro, laddove ci appaiono mondi di una ingenuità cristallina pronti al sacrificio di sè per l'ideale purissimo della Vetta.

Le parole di Comici ne sono una chiara evidenza. In lui si alternano emozioni di oscurità a descrizioni di slanci, da momenti di venerazione incantata si passa ad attimi di stupore euforico tesi fino all' autentico rapimento,fino ad abissi di disperazione risuonanti di incessanti preghiere. Comici era l'uomo "gioioso quando arrampicava, malinconico in vetta", nei bivacchi notturni "parlava con le stelle".

Vittima di un amore non corrisposto decise di arruolarsi volontario in guerra ma la sua domanda fu respinta per rispetto dal Ministero. Partito con alcuni amici ed amiche per una breve e facile arrampicata sui monti vicino casa Emilio Comici si sporge da una cengia legato ad vecchio chiodo con un cordino usurato che si spezza. Muore così, il 19 ottobre 1940, neanche quarantenne, il più prodigioso talento alpinistico italiano forse di sempre.


lunedì 18 ottobre 2010

Sangue contro oro: il Popolo Karen insegna.






BIRMANIA - Una delle tante guerre sconosciute è quella che il Popolo Karen porta avanti da oltre sessanta anni contro la giunta militare birmana per ottenere quello che gli era stato promesso alla fine del secondo conflitto mondiale: una forma di autonomia e il rispetto delle proprie identità e tradizioni. Ho conosciuto la storia di questo Popolo fiero circa tre anni fa grazie alla Comunità Solidarista Popoli (www.comunitapopoli.org) che sin dal 2001 porta aiuto concreto ai Karen con strutture mediche e didattiche. La storia e la tenacia di questo Popolo mi ha subito affascinato e così, dopo varie attività informative portate avanti a Perugia dall'Associazione Culturale Tyr (www.controventopg.splinder.com) , ho deciso di partire per il Myanmar (ex-Birmania) e partecipare ad una delle missioni che più volte all’anno la Comunità Solidarista Popoli organizza. Prima della partenza sono letteralmente elettrizzato, quasi incredulo al fatto che a breve avrò l’onore di conoscere il Popolo Karen. Il mio viaggio inizia da Roma, dopo un volo di undici ore sono a Bangkok, la capitale thailandese. Dalla capitale ci trasferiamo a Mae Sot, una cittadina al confine con la Birmania. Giusto il tempo di comprare le cose necessarie per noi e per gli abitanti del villaggio “Little Verona” dove la Comunità Solidarista Popoli mantiene una clinica medica e una scuola e, con il Colonnello dell’ Esercito Nazionale di Liberazione Karen (K.N.L.A.), Nerdah Mya, siamo pronti a partire. Il viaggio dura qualche ora e dopo aver percorso una parte della “strada della morte” attraversiamo il confine giungendo in territorio Karen. Qui ci aspettano diversi combattenti che ci scorteranno fino al villaggio, utilizzando piccoli trattori e percorrendo tratti a piedi per via del fango dovuto alle piogge che in questo periodo sono frequenti nel sud-est asiatico. Arrivati al villaggio, le mie attese non vengono tradite, si riconosce subito l’umiltà e la forza di volontà dei Karen. E’ sera e dopo la cena, con l’arrivo del buio è ora di andare a letto. Prima però veniamo deliziati dalla canzone della rivoluzione scritta e cantata da John, giovane volontario dell’Esercito di Liberazione Karen. Il giorno seguente distribuiamo gli aiuti portati e, il Dottor Turano, volontario di “Popoli”, visita tutti i bambini e gli abitanti dando vitamine e medicine quando necessario. I giorni scorrono e la vita dei Karen prosegue sempre con il pensiero che i militari del governo di Rangoon possano attaccare e bruciare il villaggio. La stessa “Little Verona” è stata distrutta e ricostruita ben due volte. Attraverso il terrore, gli stupri e la schiavitù i militari birmani intendono destabilizzare la cultura e le tradizioni del Popolo Karen e cercano di dirigere più gente possibile nei campi profughi che si trovano in territorio thailandese. Altre organizzazioni “umanitarie” pensano, invece, di risolvere il problema inviando i profughi  in altri paesi con permessi di immigrazione garantiti e un biglietto aereo di sola andata, mandandoli incontro a vari problemi dovuti alla poca conoscenza della lingua, alla lontananza dalle proprie famiglie e alla completa differenza di usanze. La Comunità Solidarista Popoli d’accordo con il Karen National Union (K.N.U.), al contrario, sostiene che i Karen devono rimanere nei loro territori e lottare per vivere nella loro terra da Uomini liberi. Mentre tutto questo accade, il mondo rimane a guardare e il governo birmano si arricchisce grazie agli ottimi rapporti con le lobby economiche internazionali come l’Oviesse italiana, la Wolkswagen tedesca o la Toyota giapponese e grazie al supporto militare di Israele, Cina ed India. E’ ora di tornare a casa e tra i sorrisi e saluti dei combattenti e dei civili Karen lasciamo il villaggio. La Comunità Solidarista Popoli continuerà a svolgere la sua missione per contribuire alla protezione di un magico angolo del mondo in cui i sani valori sono ancora una cosa attuale e, anche io, dopo questa esperienza, non vedo l’ora di poter tornare al loro fianco.



Di Fabio Polese, Free Press Perugia - Ottobre 2010


 







Per sostenere la Comunità Solidarista Popoli puoi destinare il 5x1000 inserendo nell'apposito quadro della dichiarazione dei redditi il codice fiscale/partita iva n°: 03119750234.Inoltre, puoi effettuare versamenti sul Conto Corrente n° 57192 presso il Banco Popolare di Verona e Novara, agenzia Verona B  "P. Erbe" - ABI 5188 - CAB 11703.IBAN:  IT19R0518811703000000057192o sul conto corrente postale n° 27183326.



La Comunità Solidarista Popoli, ha la sua sede operativa a Verona, in via Anfiteatro 10, e può essere contattata al numero telefonico 045 597 439 oppure tramite fax allo 0458 004 877 ed anche attraverso posta elettronica all'indirizzo
info@comunitapopoli.org
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http://www.mirorenzaglia.org/?p=16171


domenica 17 ottobre 2010

Discorso integrale di Ahmadinejad in Libano.


“Il Libano è la culla del monoteismo e della libertà, la scuola del sacrificio e della resistenza dinanzi ai prepotenti del mondo ed il simbolo della Jihad e della gloria. Il Libano è la bandiera issata della dignità e dell’indipendenza e la pietra preziosa dell’anello della regione, è la bellezza del pensiero, la purezza dello spirito ed il cuore d’oro del popolo di questo paese è accanto alla bellezza naturale di questa nazione, un miscuglio senza eguali ed un grande dono divino.

Visitare il “Libano dignitoso” ed incontrare i responsabili ed il popolo di questo paese è per me come un dolce sogno che si avvera. Io sono venuto qui partendo dalla terra dell’Imam Khomeini, per portarvi i migliori saluti del popolo iraniano e testimoniare l’affetto di questo popolo e del suo sommo leader nei vostri confronti. La pace di Dio sia sul popolo del Libano e tutti i grandi uomini di questo e tutte le etnie e la pace di Dio sì su tutti gli intellettuali, gli scienziati, gli artisti e soprattutto i giovani di questa naziona, i difensori della dignità e dell’indipendenza del paese.

La regione del Medioriente è ad un passo da un grande cambiamento. I prepotenti sfruttando il loro potere materiale, le armi, l’ipocrisia e l’inganno, vogliono dominare la nostra regione dato che ritengono il controllo di questa la chiave per poter controllare il mondo. Non sono disposti a scendere a compromessi ed il dominio dei nostri paesi è l’unica cosa che li soddisfa; loro fanno sempre apparire i nostri paesi colpevoli e si comportano sempre come se avessimo fatto a loro i peggiori soprusi ed è come se volessero solo i loro diritti. In pratica con il loro fare arrogante il dominio della nostra regione è divenuto un diritto nella loro ottica. Per loro non c’è la minima differenza tra musulmano, cristiano ed ebreo visto che qualsiasi fedele sincero per loro è un nemico e la loro mente materialista non può certo assecondare gli elevati insegnamenti dei profeti divini, che invitano all’amore e all’altruismo; è come se cercassimo di trovare qualcosa in comune tra il buio e la luce.

La verità è che gli schiavisti ed i colonialisti di ieri dopo la sconfitta dinanzi ai popoli sono tornati alla riscossa con nuovi slogan e con una nuova maschera, ma con gli stessi obbiettivi del passato. Ora visto che la giustizia, l’amore, la libertà e l’altruismo sono amati dai popoli, questi colonizzatori cercano di celare con un’apparenza tinta di diritti umani i loro loschi obbiettivi.

In forma premeditata e con la scusa di rimediare ai danni arrecati dalla Guerra Mondiale ed approfittando dello smarrimento dei popoli della zona, hanno occupato la Palestina con la forza, hanno ucciso migliaia di persone ed hanno costretto alla fuga milioni di persone per costruirvi il regime illegale e intruso, una minaccia permanente per tutte le popolazioni ed i governi del mondo. Così nella regione ogni volta che vogliono fare i prepotenti, usano la forza scellerata e irragionevole del regime sionista alla quale viene dato il permesso di commettere qualsiasi tipo di crimine, in qualsiasi parte del mondo.

Nella pagella dei sionisti non si trova altro che crimine. Uccidere uomini, donne e bambini senza difesa, usare armi proibite, distruggere case e campi, negare l’acqua ed il cibo ai gazesi, uccidere ed aggredire le navi in mare aperto, minacciare le nazioni ed i popoli della regione, sono tutte pratiche abituali dei sionisti che hanno avuto il permesso di andare persino oltre le azioni compiute dagli altri governi imperialisti della terra.



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http://italian.irib.ir/notizie/politica/item/85590-versione-integrale-discorso-ahmadinejad-a-dhahiya


Ultràbombe.


Per capire cos’è successo martedì sera a Genova bisogna rifare un po’ di storia. Non del calcio. Della politica.



Nei primi anni ’90, dopo la disgregazione della Jugoslavia, si creò in Kosovo, considerato da Belgrado “la culla della Nazione serba” (un po’ come per noi il Piemonte), un forte indipendentismo albanese. Negli ultimi decenni, per ragioni demografiche, in Kosovo si era formata una maggioranza albanese che pretendeva la separazione da Belgrado. Dall’altra parte lo Stato serbo voleva conservare una regione che era sempre stata, storicamente e giuridicamente, sua. Gli albanesi facevano guerriglia non disdegnando l’uso del terrorismo, com’è inevitabile in ogni lotta partigiana, la Serbia reagiva con le maniere forti, con l’esercito, con la polizia, con le milizie paramilitari di cui i giovani che hanno impedito la partita Italia-Serbia sono gli eredi.



C’erano quindi due ragioni, entrambe valide, a confronto: l’indipendentismo albanese e il diritto di uno Stato all’integrità dei propri confini, perché una terra non appartiene solo a chi in quel momento ci vive e ci abita ma anche alle generazioni che vi hanno vissuto, abitato e lavorato nel passato. Era quindi una questione che serbi e albanesi avrebbero dovuto risolvere fra di loro, secondo i reali rapporti di forza, o al massimo con l’intermediazione diplomatica dell’Onu. Ma gli Stati Uniti, che foraggiavano la guerriglia, decisero che le ragioni stavano solo dalla parte degli indipendentisti. Per tre mesi si misero a bombardare una grande capitale europea come Belgrado, facendo 5500 morti, finché la Serbia dovette arrendersi. Il tutto con l’appoggio degli europei e con l’Italia di D’Alema nella poco onorevole posizione del “palo” (i bombardieri partivano da Aviano).



Era una guerra ingiusta, non autorizzata dall’Onu (ma si sa che ci si richiama all’Onu quando serve, come in Afghanistan, quando non serve la si ignora). Era una guerra contro l’Europa e particolarmente “cogliona” per l’Italia come dissi al presidente D’Alema a Ballarò senza che lui osasse replicare. Noi non abbiamo mai avuto contenziosi con la Serbia, caso mai con la Croazia che per decenni ha vessato i nostri profughi in Istria. Anzi con la Serbia avevamo storicamente degli ottimi rapporti. Ma ci sono anche ragioni più attuali. Il “gendarme Milosevic”, con alle spalle una Serbia forte, checché se ne sia detto e scritto in contrario, era un fattore di stabilità dei Balcani. Ora in Kosovo (dove c’è, guarda caso, la più grande base militare Usa), in Montenegro, in Macedonia, in Albania sono concresciute grandi organizzazioni criminali che vanno a concludere i loro sporchi affari nel Paese vicino più ricco, cioè l’Italia. Come se non bastasse ai serbi è stata inflitta l’ulteriore umiliazione di portare Slobodan Milosevic, che non era un dittatore ma un autocrate (a Belgrado esisteva un’opposizione che faceva opposizione più di quanto la si faccia, oggi, in Italia) davanti al Tribunale internazionale dell’Aja come “criminale di guerra“. Il processo iniziò con gran clamore ma a poco a poco non se ne parlò più perché Milosevic, uno dei protagonisti della pace di Bosnia quale firmatario degli accordi di Dayton, aveva troppe buone carte nelle sue mani. Poi è provvidenzialmente morto d’infarto. Dico, incidentalmente, che aver avallato da parte della cosiddetta Comunità internazionale l’indipendenza del Kosovo è un insidioso precedente per tutti. Poniamo che fra 50 anni in Piemonte ci sia una maggioranza di cittadini musulmani che reclamino l’indipendenza di quella regione dall’Italia. Cosa potremmo rispondergli?



Comunque sia i duemila serbi che sono calati martedì sera a Genova non c’entrano nulla con un discorso sportivo, hanno usato un avvenimento sportivo, come è accaduto altre volte, per manifestare la loro umiliazione, la loro frustrazione, la loro rabbia per i soprusi che la Serbia ha dovuto subire negli ultimi vent’anni. Io – e non solo io – ero sentimentalmente con loro.



Massimo Fini, www.massimofini.it


sabato 16 ottobre 2010

Eurochocolate


Al via la kermesse del cioccolato.



E’ partita l’edizione 2010 di Eurochocolate a Perugia. E così, mentre gli organi di informazione parlano del nulla che avanza, cercando di tenere l’attenzione pubblica su i fatti di Genova, parte l’ennesima festa del cioccolato multinazionale nel capoluogo umbro. Tra gli sponsor della festa troviamo Google ed Active oltre ovviamente al patrocinio del Comune di Perugia e di altri enti. La città si fermerà di nuovo, tra strade bloccate e semafori in tilt, per la gioia dei cittadini perugini, migliaia di turisti del cioccolato imperverseranno nella nostra città. Le iniziative sono tante, tantissime e, ovviamente, quasi tutte a pagamento o su prenotazione. Nel sito ufficiale –
www.eurochocolate.com – la manifestazione, in pieno stile globalizzato, viene chiamata International Chocolate Exhibition. Scorrendo il programma la prima cosa che viene pubblicizzata è la bella “Chococard” che permetterà, a chi la sottoscriverà, di ottenere prestigiosi sconti durante tutto l’arco della festa. Anche questa, è a pagamento. Corso Vannucci, via principale della Città di Perugia, diventerà un centro commerciale a cielo aperto. Golosi e curiosi si accalcheranno per comprare cioccolata a prezzi meno competitivi del supermercato e, tra una spintarella e un’altra, qualcuno cercherà di accaparrarsi i pezzi del cioccolato che i grandi maestri cioccolatieri tireranno in aria dopo averne fatto delle vere e proprie sculture. Nel disastro più totale, tra precariato e morti bianche in continuo aumento, ci sono persone che si macinano chilometri per prendere da terra del cioccolato che viene tirato in aria. In questo triste contesto, da una parte, abbiamo l’uomo massa che è capace di indignarsi per i fatti di Genova gridando allo scandalo ma che non è capace di riflettere su tutto quello che ci circonda e, dall’altra, il Comune di Perugia, che appoggia e sostiene queste iniziative che vengono considerate di gran prestigio, spendendo tanto tempo e denaro. Tempo e denaro che potrebbe essere speso per attività sociali e culturali di ben altro calibro. E così, tristemente, anche Eurochocolate, da festa quale dovrebbe essere, diventa banalmente una fiera commerciale per il gregge. In concomitanza con l’esposizione perugina del cioccolato, parte, a Castiglione del Lago, vicino Perugia, dal 15 al 17 Ottobre, Altrocioccolato – Dove la giustizia sa di cacao - www.altrocioccolato.it -. Una manifestazione culturale promossa dall'Associazione Umbria EquoSolidale, nata come contrasto e contestazione all’Eurochocolate targata Nestlè, quest’anno è giunta all’ottava edizione.



Di Fabio Polese, www.rinascita.eu


venerdì 15 ottobre 2010

La banalità del male mediatico.



Quanto accaduto due sere fa allo stadio di Genova ha agito come la forza dirompente di un esplosivo sui tombini dell'informazione, causando la fuoriuscita di maleodorante materiale caratterizzato da superficiali inchieste e da frivoli luoghi comuni. Tralasciando la parodistica telecronata servitaci in presa diretta dai commentatori RAI e dalle retoriche, pedanti frasi di circostanza di calciatori e opinionisti esperti in inutili parlottii, volgiamo le nostre attenzioni sulla chiave di lettura politica che è stata affibbiata - con spiccia approssimazione - alle intemperanze dei tifosi serbi e sulle conseguenze che ciò può comportare ai danni dell'opinione pubblica. Il rischio, equiparando le rivendicazioni serbe al becero istinto violento effetto esclusivo dell'avvenimento sportivo, è quello di banalizzare un tema delicato quale è la geopolitica. L'aver, per una volta tanto, impedito agli italiani la somministrazione del loro agognato oppio è valso ai tifosi della nazionale di Belgrado un tiro al bersaglio mediatico di enorme intensità e di inaudita spietatezza, svilendo così il messaggio politico che una cospicua componente della realtà serba ha voluto lanciare servendosi dell'immenso palcoscenico calcistico. Proviamo a restituire alla questione kosovara la giusta dimensione, depurandola da sprovvedute semplificazioni giornalistiche che la stanno relegando in questi giorni al basso livello della chiacchiera da bar dello sport, ignorando la portata tragica che il popolo serbo sta portando sulle proprie spalle a seguito del sopruso atlantico perpetratogli in quella storica e nobile regione d'Europa (con l'infame responsabilità italiana!). Lo facciamo proponedo la lettura di un interessante articolo e la visione di un commovente documentario prodotto dal giornalista Riccardo Iacona e trasmesso da RAI3 nel settembre 2008, in uno dei rarissimi spunti di lucidità del palinsesto televisivo. Invitiamo alla divulgazione.


 


KOSOVO E DINTORNI di G. Gabellini


L’aggressione criminale combinata dalla forza Nato contro la martoriata nazione jugoslava scatenata il 24 marzo 1999 e protrattasi per i successivi 78 giorni può essere considerata a pieno titolo l’ultimo atto autolesionista perpetrato dai governi dei maggiori stati europei che, chinando supinamente il capo di fronte all’ennesima dimostrazione di arroganza statunitense, hanno assestato un colpo durissimo al sogno di autonomia dell’Europa.
I Balcani sono comunemente definiti una "polveriera", politicamente difficilissima da gestire perché oggetto di continue turbolenze interetniche e interculturali. Martellando ossessivamente l'opinione pubblica con questa semplicistica e superficiale versione unilaterale delle complesse vicende balcaniche è stata compromessa una seria valutazione storica del primo, sanguinoso conflitto che sconvolse l'area in questione nei primi anni Novanta. Si evitò accuratamente di far riferimento al ruolo giocato dai poteri “esterni” che fecero di tutto per ridurre alla miseria una nazione strategicamente cruciale come la Jugoslavia, che fu ricattata dal vampiresco Fondo Monetario Internazionale. Imponendole una drastica rinegoziazione del debito pubblico e un catastrofico programma di ristrutturazione economica, questo organismo che è il reale custode dei dogmi relativi al “pensiero unico”, spinse una nazione di 25 milioni di abitanti sull’orlo del baratro. Il costante impoverimento della popolazione determinato dall’applicazione di questo programma funse da moltiplicatore sociale dei dissidi che da tempo serpeggiavano tra le varie etnie che da secoli convivevano all’interno della nazione, e che sfociarono inesorabilmente nello scontro. La storia, per usare un'espressione del vecchio Karl Marx, si è ripetuta come farsa una manciata di anni dopo, quando i media falsificatori spianarono ancora una volta il terreno alle mire egemoniche statunitensi, descrivendo l'intero popolo serbo come una congrega di assassini assetati del sangue dell'inerme popolazione albanese del Kosovo. Non una parola fu spesa sui bei metodi utilizzati dell'associazione indipendentista kosovara, terrorista e mafiosa, denominata UCK, che si serviva (e si serve tutt'ora) degli astronomici proventi derivanti dal traffico di droga per l'acquisto di armi da utilizzare contro le forze di polizia federali. Al contrario. All'immancabile processo di demonizzazione del presidente Slobodan Milosevic ne fu promosso uno parallelo di esaltazione incondizionata dell'UCK. Secondo l'economista Michel Chossudovski "Le vie per la fornitura di armi all'UCK sono gli scoscesi confini montuosi tra Albania, Kosovo e Macedonia. L'Albania è anche un punto chiave per il transito della via balcanica della droga, che rifornisce l'Europa occidentale di eroina di qualità. Il 75% dell'eroina che entra in Europa occidentale viene dalla Turchia e una larga parte delle spedizioni di droga provenienti dalla Turchia passa dai Balcani. Un recente rapporto della Agenzia federale criminale tedesca suggerisce che gli albanesi sono attualmente il principale gruppo della distribuzione dell'eroina nei paesi consumatori dell'Occidente". Contrariamente alle idiozie espresse senza ritegno da Walter Veltroni, secondo il quale il Kosovo era scenario del "Più terribile genocidio degli ultimi cinquant'anni dopo l'Olocausto ", era in atto una guerra civile di medio - bassa intensità, con tutte le atrocità che un evento simile comporta. La gestione del conflitto kosovaro era un importantissimo banco di prova per l'Europa (che disponeva dei mezzi per garantire una convivenza interetnica pacifica in quell'area), che preferì invece rimettere le proprie sacrosante responsabilità nelle mani degli Stati Uniti, i quali invitarono entrambe le parti (quella jugoslava e quella kosovara) a sottoscrivere, nella cittadina francese di Rambouillet, un accordo che sancisse la fine delle ostilità. Il primo ministro jugoslavo Slobodan Milosevic rifiutò però di porre la propria firma in calce al documento. Contrariamente a quanto riportato dagli intellettuali di corte, che riversarono montagne di insulti su Belgrado e sull’intero popolo serbo, Milosevic dimostrò un notevole senso dello stato, rifiutandosi di chinare il capo di fronte a quello che era un vero e proprio diktat. Il testo dell’accordo prevedeva che alle forze Nato fosse garantito di scorrazzare liberamente per l’intero territorio (spazio aereo compreso) jugoslavo, negava ogni legittimità sul personale Nato a tutti gli organi dipendenti da Belgrado (divieto di arrestare o processare il personale Nato), obbligava il governo jugoslavo a mettere a piena disposizione, e gratis, tutte le reti elettriche e di comunicazione. Un classico per la “diplomazia” statunitense; presentare al nemico richieste impossibili da accettare  per legittimare un intervento militare diretto. Quella vecchia volpe di Henry Kissinger, in una intervista del 28 giugno 1999 rilasciata al quotidiano britannico Daily Telegraph, sostenne che “Il testo di Rambouillet, che chiedeva alla Serbia di ammettere truppe NATO in tutta la Jugoslavia era una provocazione, una scusa per iniziare il bombardamento. Rambouillet non è un documento che un Serbo angelico avrebbe potuto accettare. Era un pessimo documento diplomatico che non avrebbe dovuto essere presentato in quella forma”. Che a riportare la discussione su un piano accettabile sia stato un falco cinico come Kissinger la dice lunga sullo spirito del tempo. I bombardamenti (effettuati contro il parere dell'ONU) che seguirono ricacciarono la Jugoslavia in uno stato preindustriale, in quanto distrussero quasi tutte le infrastrutture (ponti, autostrade, centrali energetiche, fabbriche ecc.), per un ammontare di 100 miliardi di dollari circa di danni, e lasciarono sul campo svariate centinaia di vittime civili, cadute sotto i soliti, inevitabili "errori".Al bombardamento “umanitario” perpetrato dalle forze Nato seguì l’invasione della carne da cannone reclutata a buon prezzo tra le fila dell’UCK. I membri dell'organizzazione si accanirono da subito con impressionante tenacia nei confronti dell’inerme e disarmata popolazione kosovara di etnia serba, costringendola all'esodo. Dei circa 200.000 serbi presenti in Kosovo prima dei bombardamenti, ne sono rimaste alcune centinaia, sotto gli occhi indifferenti della forza Nato. L'inaudita catastrofe umanitaria non è però l'unica ripercussione tragica sortita dall'aggressione. L'attacco alla Jugoslavia è da configurare come una guerra di controllo geopolitico degli Stati Uniti sull'Europa che, accettando di sostenere gli aggressori, ha rinunciato alla propria indipendenza. Gli Stati Uniti hanno infatti avuto la possibilità di ergere una nuova "cortina di ferro" affine a quella vigente durante la "Guerra Fredda", spostata un poco più ad est e finalizzata ad impedire una qualsivoglia forma di avvicinamento dell'Europa occidentale con il blocco slavo - ortodosso in chiave filorussa. Così facendo Washington ha avuto la possibilità di insediare nel cuore dell'Europa la gigantesca base militare di Camp Bondsteel (la più grande sul suolo europeo) e di stringere il riottoso popolo serbo nella morsa costituita da un lato dai paesi dell'est europeo aderenti alla Nato (Polonia e Repubblica Ceca), dall'altro dalla vasta coalizione di paesi legati al mondo islamico (Albania, Bulgaria e Turchia). Ciò avrebbe sicuramente favorito il riallineamento della Serbia sulla direttrice atlantica, e privato la Russia di uno storico e fedele alleato. La faida interkosovara scatenata dagli uomini dell'UCK contro i membri del partito LDK e la morte prematura del presidente Ibrahim Rugova hanno spianato il terreno all'ascesa di Hashim Thaci (ex leader dell'UCK) come primo ministro. La proclamazione unilaterale di indipendenza del Kosovo e il suo conseguente riconoscimento da parte di Stati Uniti e di quasi tutte le grandi potenze europee, non è che la naturale continuazione della catena di indegnità sopra descritte. Il punto terminale di tutta questa incredibile (si fa per dire) operazione è l'istituzione di un narcostato nel bel mezzo dell'Europa. L'esperto serbo Milovan Drezun riferisce che "Secondo l'Europol e l'Interpol, la parte maggiore dell'eroina proveniente dell'Afghanistan, arriva in Europa attraverso il Kosovo. Si tratta presumibilmente del 65 % del flusso mondiale e del 90 % di tutti gli stupefacenti spacciati in Europa. IL detective canadese Kellock ritiene che la narcomafia albanese goda del sostegno silenzioso degli USA. Inoltre egli ha indicato che una volta i diplomatici americani hanno impedito di arrestare nel Kosovo  alcuni leader della narcomafia, dietro della quale si intravede il clan mafioso, guidato da Hashim Thaci, attuale premier kosovaro.  Nei rapporti segreti della KFOR, a questo clan legato ai primi politici del paese,  appartengono tre laboratori clandestini per l'elaborazione di droga". E l'Italia, che ruolo ha giocato nell'aggressione? Mettendo a disposizione la base di Aviano per le incursioni aeree, verrebbe da dire quello, vergognoso, del "palo". Quel bel soggettino di Massimo D'Alema, primo ministro all'epoca, a un giornalista che gli faceva notare che tanto l'Italia quanto la Grecia sono paesi aderenti all’alleanza atlantica, ma che la seconda, a differenza della prima, si era rifiutata di prendere parte a questa aggressione criminale, rispose che l’Italia era un paese importante, che non poteva permettersi gli atteggiamenti della Grecia. Questi sono i "comunisti" del nostro tempo, gente che è passata in allegria dall'adorazione di una forma estremista di marxismo all'apologia dei bombardamenti "umanitari" e del sionismo. Il cinico diplomatico Sergio Romano, intellettuale che piace poco alle "anime belle" e ai sepolcri imbiancati, aveva profeticamente scritto che "Il mondo che ci aspetta dopo la Guerra del Golfo sarà, se possibile, ancora più duro e impietoso di quello che abbiamo conosciuto negli anni della guerra fredda". Non solo si è verificato più duro e impietoso, ma anche più ipocrita e ingiusto. L'unica mossa possibile per sottrarsi a questa eclissi della ragione e per conservare un minimo di dignità umana prima che intellettuale è considerare i fatti per quello che sono, chiamare le cose con il loro nome, opporsi alla stagnante retorica "dei diritti umani" da attivare a corrente alternata, a seconda di chi siano gli intestatari della bolletta della luce. E, come scrisse Marino Badiale, "Chiamare per nome (D'Alema, Veltroni, Dini, Scognamiglio, Cossutta, Manconi, si allunghi la lista a piacimento) gli irresponsabili cialtroni che si rendono, ci rendono, complici di questa infamia".


 


DOCUMENTARIO "LA GUERRA INFINITA - PRIMA PARTE"
 




Riccardo Iacona ricostruisce minuziosamente la terribile pulizia etnica di cui sono stati vittime i kosovari di etnia serba. Dal 1999, da quando la NATO ha vinto la guerra contro la Serbia e insieme alle Nazioni Unite ha preso il controllo del Kosovo, 250.000 serbi sono stati cacciati dal Kosovo solo per ragioni di odio etnico, solo perchè serbi. Le loro case sono state bruciate, le loro terre sono state devastate, le loro chiese sono state distrutte, anche le più antiche e preziose, quelle del 1300, i loro cimiteri sono stati profanati a colpi di pala e di piccone, interi quartieri sono stati messi a fuoco solo per impedire ai serbi che vivevano lì da centinaia di anni di poterci ritornare.


Nonostante la presenza della Nato gruppi armati di kosovari di etnia albanese hanno messo in atto una delle più sistematiche e feroci pulizie etniche che l’Europa ha vissuto dopo la seconda guerra mondiale, distruggendo così l’idea stessa di un paese multietnico che pure era stata all’origine della campagna militare della NATO contro la Serbia. Ma c’è di più: in questi nove anni il Kosovo è diventato la porta principale di ingresso della droga nel nostro Paese e in tutthttp:// http://assculturalezenit.spaces.live.coma Europa; e, sempre nonostante la presenza della Nato e delle Nazioni Unite il Kosovo si è trasformato in una piccola Colombia, un Narcostato nel cuore dell’Europa.


I numeri sono impressionanti: l’80 per cento di tutta la droga prodotta in Afghanistan per entrare in Europa passa dalle valli e dalle montagne del Kosovo "liberato". Le enormi ricchezze accumulate con il traffico della droga hanno reso potenti all’estero e in patria i clan mafiosi kosovaro albanesi, capaci di inquinare in profondità i partiti che oggi guidano il Kosovo, gettando così un enorme punto interrogativo sulla natura democratica del nuovo Stato nato il 17 febbraio di quest’anno con un atto unilaterale.
Ma le strade aperte della droga e delle armi che la Nato non è riuscita in questi nove anni di protettorato a chiudere, sono anche quelle da cui passa il terrorismo internazionale di matrice islamica.

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