martedì 14 febbraio 2012

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Proponiamo l'intervista Controvento Perugia ha realizzato - ormai qualche anno fa - con Franco Nerozzi, in rappresentanza della Comunità Solidarista Popoli.


"Popoli" è una associazione di aiuto umanitario che si propone di mettere in atto tutte le azioni necessarie per portare aiuto concreto a popolazioni o etnie che, in lotta per la salvaguardia delle loro radici, si trovino in situazioni di particolare disagio.
Quando e come nasce la comunità?


La Comunità Solidarista Popoli nasce nel febbraio del 2001, su iniziativa di una decina di vecchi amici.


Da quali esperienze precedenti provengono i suoi componenti?


Alcuni di noi in passato hanno fatto politica, più o meno “ufficiale” in ambienti di destra, o se preferite “neofascisti”. Qualcuno aveva aderito al MSI, qualcun altro ne era stato anche espulso. Altri non erano mai entrati in una sede del partito ma magari erano sempre in piazza in occasione di manifestazioni e volantinaggi. Insomma, esperienze diverse, ma tutte vissute nello stesso contesto. Va sottolineato però che in “Popoli” vi sono anche persone che provengono da esperienze assolutamente lontane e distinte da quelle appena descritte. Insomma c’è anche gente che di politica non si è mai molto interessata.


Quali sono le motivazioni che vi hanno spinto a creare una associazione di aiuto umanitario?


Posso parlare per il gruppo che ha fondato la Comunità: abbiamo sentito l’impellente bisogno di agire, di trasformare in fatti le tante e nobili idee di cui ci eravamo nutriti per molti anni. E guardandoci intorno ci siamo resi conto che una strada da prendere poteva essere quella dell’aiuto umanitario “selezionato”.


Come selezionate i vostri “obiettivi”? In particolare, cosa ha attirato la vostra attenzione sul popolo Karen?


Io ho conosciuto i Karen nel 1994, mentre mi trovavo nella giungla birmana per realizzare un reportage giornalistico sulla loro lunghissima e ignorata lotta di liberazione. In quel momento i Karen stavano respingendo, pagando un alto tributo di sangue, una decisa offensiva dei birmani contro la loro roccaforte (che sarebbe poi caduta di lì a pochi mesi). Venni colpito dalla straordinaria indole di questa gente, dal suo coraggio, dalla tenacia con cui resisteva ad uno dei più forti eserciti del Sud Est Asiatico. Sempre cordiali, sempre fieri. E soprattutto sempre intransigenti nel rispetto di principi fondamentali. L’identità innanzitutto, la Terra, gli antenati, la Libertà. E il rifiuto di scendere a patti con chi cercava di comprarli attraverso fiumi di denaro prodotti dai traffici di droga. Credo che questo risponda anche alla prima parte della domanda: selezioniamo i nostri interventi sulla base di convinzioni etiche e politiche che ci fanno riconoscere come “amiche” alcune comunità umane che apparentemente, e solo ad una analisi superficiale, sembrerebbero così lontane da noi.


Quali sono le maggiori difficoltà che incontrate durante le vostre missioni?


Va subito chiarito che le nostre missioni sono clandestine, avvengono cioè senza alcuna autorizzazione da parte delle autorità birmane. Questo è ovvio, dal momento che il regime birmano vuole annientare il popolo Karen e distruggere le sue forze di resistenza. Noi riconosciamo come unica autorità nelle aree di guerra in cui operiamo quella dell’Esercito di Liberazione Nazionale Karen (KNLA) e del suo braccio politico (KNU). Questo fa si che le missioni di “Popoli” siano condotte sempre un po’ sul filo del rasoio: ad esempio, gli spostamenti tra un villaggio e l’altro, necessari affinché i nostri medici possano visitare la popolazione locale, sono ad alto rischio di imboscata. In qualche occasione ci siamo dovuti spostare molto velocemente da questi villaggi a causa di attacchi dell’esercito birmano.


Avete rapporti con altre organizzazioni? E rapporti istituzionali, in Italia o all'estero?


Data la non appartenenza di “Popoli” alla famiglia delle organizzazioni “buone” (quelle cioè in cui si fa pubblica testimonianza di fede antifascista, pacifista, liberaldemocratica o marxista), le nostre relazioni con altre associazioni e con le istituzioni sono un po’ freddine. Ci sono chiaramente delle eccezioni, nate da rapporti costruiti sul campo, dove quel che conta è la serietà del lavoro svolto, la franchezza e la correttezza personale, la condivisione del progetto, e non le stantie appartenenze a questo o a quello schieramento politico.


Cosa può fare concretamente chi intende sostenere le vostre iniziative?


Sarò schietto, e per questo brutale. Chi vuole veramente aiutarci deve mettere in atto tutte quelle iniziative utili alla raccolta di fondi necessari al proseguimento della nostra attività. “Popoli” non è una associazione culturale, o un centro studi che può permettersi di attendere l’arrivo di fondi prima di organizzare una conferenza o un dibattito. La Comunità ha dato inizio ad un impegno che non può essere interrotto, perché della gente che lotta per sopravvivere (12.500 persone per la precisione) ottiene fondamentali cure sanitarie soltanto grazie al nostro intervento. Questo significa dover raccogliere ogni anno circa 40.000 euro per garantire il proseguimento dei progetti. Cene di beneficenza, concerti con incasso devoluto a “Popoli”, serate di presentazione della Comunità con raccolta fondi, sono iniziative di estrema utilità. Con la garanzia che tutto il denaro raccolto finisce direttamente nei progetti, dal momento che tutti i membri di “Popoli” sono volontari al cento per cento, e cioè nessuno di questi percepisce uno stipendio.


Quali sono le prospettive future di Popoli?


Questa risposta è legata alla precedente, nel senso che le prospettive future dipendono dai fondi a disposizione. Sarebbe nostra intenzione aprire un nuovo progetto nel Libano così duramente colpito dall’aggressione sionista e portare finalmente a compimento la ristrutturazione della clinica “Ahmad Shah Massoud” nella Valle del Panjshir, in Afghanistan.


“100% identità”; nel mondo c'è ancora chi lotta per le proprie radici. C'è speranza anche per il nostro “occidente” di tornare ad una visione più tradizionale della società?


Sarei tentato di non rispondere a simile complessa domanda. Confesso di essere molto pessimista riguardo ad un possibile recupero di punti di riferimento tradizionali in una società così profondamente colpita dal cancro e dalle sue metastasi. Ciò non toglie che proprio grazie all’esempio fornito da quei popoli che ancora si battono per il mantenimento delle proprie radici potrebbero diffondersi stimoli in tal senso. Credo che persino i “guru” della società globalizzata, nel loro intimo si stiano rendendo conto di quanti e quali squilibri certe teorie abbiano causato una volta applicate. Ma dovremmo innanzitutto chiederci: quali sono le nostre radici? E anche qui si aprirebbe un dibattito complesso che coinvolgerebbe anche gli appartenenti ad un’area che in linea di principio è pronta a battersi per un generico ritorno alla tradizione. Salvo poi dividersi sullo specifico. Personalmente, ad esempio, ho serie perplessità (per usare un eufemismo) sulle cosiddette radici “giudaico-cristiane” dell’Europa…




Comunità Solidarista Popoli – Onlus
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