domenica 30 ottobre 2011

Libia, ieri, oggi e domani


(ASI) L'orrore. Non mi viene in mente nessun altra espressione per commentare le immagini che stanno giungendo nelle ultime settimane da quella che un tempo veniva chiamata Jamairiyyha - cioè "regime delle masse" - di Libia popolare e socialista.



Un leader barbaramente trucidato e violentato in un deserto da alcuni mercenari improvvisatisi militari, un intero popolo che aveva già dimostrato a più riprese in estate la propria fedeltà al precedente sistema politico, letteralmente annichilito dai bombardamenti della Nato. Case sventrate, edifici pubblici polverizzati, faide tribali, scontri razziali e disinformazione permanente in uno scenario scabroso ed anarchico, dove l'estremismo politico e religioso ha raggiunto livelli che pensavamo confinati al triste passato del colonialismo europeo, andato in scena tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo.

L'Italia, letteralmente commissariata da Nato e BCE, è ormai priva di qualunque pur minino margine di sovranità ed autonomia nazionale. Napolitano ha nei fatti affiancato con attivismo inedito il governo, e ha sostenuto più volte le ragioni di una missione militare di cui nessuno - dagli alti piani della grande comunicazione di massa - ci sta seriamente informando, e di cui sappiamo veramente poco.

Un dato certo, però, è che il nostro Paese ha partecipato attivamente a questa aggressione, con diversi cacciabombardieri ed almeno una portaerei (la Garibaldi), ormeggiata al largo del Golfo della Sirte, proprio davanti a quella città che oggi può senz'altro raffigurare una nuova, piccola ma altrettanto tragica Stalingrado dei giorni nostri. La desolazione e l'annichilimento lasciano senza parole. Ancora una volta la Nato comincia una missione nel nome della difesa dei diritti umani o della protezione della popolazione da un "feroce dittatore" (come in Serbia o in Iraq), per poi concluderla tra le polveri di un massacro perpetrato dall'alto, con stormi di F-16 e droni teleguidati, privi persino di pilota all'interno.

Senza nemmeno scendere a terra, l'immane potenza militare degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Francia, dell'Italia, della Norvegia e della Nato in generale, ha distrutto per sempre un Paese funzionante.

Pieno di difetti, il regime di Gheddafi manteneva infatti pregi che, oggi, tanto il mondo arabo quanto il mondo africano (i due riferimenti geopolitici del duplice sogno del Colonnello: quello panarabo di gioventù e quello panafricano della maturità) possono solo rimpiangere: tutele sociali, esenzioni fiscali, edilizia popolare, parità uomo-donna e un benessere diffuso facilmente deducibile dal dato (fornito dall'osservatorio mondiale della Cia all'inizio del 2011) di un PIL pro-capite pari a circa 13.800 dollari annui, cioè 1.150 dollari al mese. Un miraggio per molti Paesi dell'area del Nord Africa, soprattutto per l'Egitto di quell'Hosni Mubarak sempre presentato da Washington e Londra come l'autorevole leader di una democrazia compiuta, e poi improvvisamente trasformato dalla CNN e dalla BBC - al pari del suo omologo di Tunisi, Ben Alì - in un "terribile dittatore".

La manipolazione, l'incredibile gioco dei vocaboli, la sostituzione: tutto questo è stato capace di inbire intere masse inconsapevoli, pronte a sostenere in buona fede fazioni politiche presentate come "ribelli", e rivelatesi poco più che mercenari al servizio di potenze straniere. Eclatante è il caso del CNT libico, formato da personaggi di incrollabile fede e formazione occidentale e da estremisti già coinvolti nelle attività di Al Qaeda in Africa, che chiesero a gran voce i bombardamenti della Nato contro il proprio Paese, al grido di "Cacciamo Gheddafi" con le bandiere monarchiche alla mano. L'Italia ha perso tutto, ancor prima che questa guerra prendesse il via ufficialmente. L'amicizia con il governo libico ci aveva garantito una parziale autonomia ed una prima, importante diversificazione strategica, che poteva giostrare anche sui privilegiati rapporti con la Russia e sull'asse strategico del gas, avviato da Berlusconi con Mosca ed Ankara (progetto South Stream).

Oggi siamo letteralmente inghiottiti dalla crisi e non abbiamo fondi, fuorché per la spesa militare (rifinanziamento alle missioni all'estero appena votato in giugno) e per l'esorbitante spesa pubblica del mondo politico, non solo nazionale ma anche ed in particolar modo amministrativo (regioni, province, comuni, circoscrizioni, comunità montane, polizie locali, enti inutili ecc. ...). Ma la macchia più grande che resterà sulle nostre coscienze non è certo questa. Abbiamo voltato le spalle ad un Paese amico, un Paese in via di sviluppo, abbiamo ignorato la nostra Costituzione ed abbiamo stracciato un Trattato di Amicizia firmato appena tre anni fa. Il mondo ci guarda ancora oggi con rancore e con ilarità. Molti pensano che il problema siano le storie a luci rosse del presidente del consiglio. Nessun o quasi, sembra avere la coscienza ed il reale coraggio di guardare con i propri occhi i cadaveri di Tripoli, Sirte, Misurata o Bengasi, sepolti sotto le macerie dell'ipocrisia e della crudeltà, ancorché sotto quelle dei palazzi.



Di Andrea Fais,

http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=5523:libia-ieri-oggi-e-domani&catid=3:politica-estera&Itemid=35

martedì 25 ottobre 2011

Adotta un bambino di Gaza.



CHI HA UCCISO VERAMENTE GHEDDAFI

Il Telegraph: così la NATO spinto il raìs nelle mani dei miliziani islamici di Misurata.


Le immagini di Gheddafi linciato e ucciso da una folla inferocita di miliziani sono state diffuse su scala mondiale, per dimostrare che quella libica è stata una ribellione popolare conclusasi col rovesciamento dell’odiato dittatore. Versione semplicistica, facente parte delle potenti «armi di distrazione di massa» usate nell’operazione Protettore Unificato. Ben diversa la realtà che sta venendo a galla, come dimostra la documentata ricostruzione degli avvenimenti fatta ieri dal quotidiano britannico The Telegraph.



Dopo aver svolto un ruolo chiave nella conquista di Tripoli, gli agenti della CIA e del servizio segreto britannico MI6, che operano sul terreno in Libia, si sono concentrati nella caccia a Gheddafi, sfuggito ai massicci bombardamenti NATO. Mentre i droni e altri aerei spia, dotati delle più sofisticate apparecchiature, volteggiavano giorno e notte sulla Libia, forze speciali statunitensi e britanniche setacciavano la zona di Sirte, probabile rifugio di Gheddafi. Questi, nelle ultime settimane, era stato costretto a interrompere il silenzio telefonico, usando un cellulare forse di tipo satellitare. La comunicazione era stata intercettata, confermando la sua presenza nella zona.



Quando un convoglio di alcune decine di veicoli è uscito dalla città, è stato subito avvistato dagli aerei spia: un Rivet Joint statunitense (che può individuare l’obiettivo a 250 km di distanza) un C160 Gabriel francese e un Tornado Gr4 britannico. A questo punto un drone Predator statunitense, decollato dalla Sicilia e telecomandato via satellite da una base presso Las Vegas, ha attaccato il convoglio con numerosi missili Hellfire. Anche se non viene specificato, si tratta di uno dei Predator MQ-9 Reaper dislocati a Sigonella, dove si trova il personale addetto al rifornimento e alla manutenzione, e guidati da un pilota e un addetto ai sensori seduti a una consolle negli Stati uniti, a oltre 10mila km di distanza. Il Reaper, in grado di trasportare un carico bellico di una tonnellata e mezza, è armato di 14 missili Hellfire (fuoco dell’inferno) a testata anticarro, esplosiva a frammentazione o termobarica. Subito dopo, il convoglio è stato colpito anche da caccia francesi Mirage-2000 con bombe Paveway da 500 libbre e munizioni di precisione Aasm, anch’esse a guida laser. Questo attacco è stato decisivo per la cattura di Gheddafi.



Tali fatti dimostrano che, in realtà, è stata la NATO a catturare Gheddafi, spingendolo nelle mani di miliziani islamici di Misurata, animati da particolare odio nei suoi confronti. E che è stata la NATO a vincere la guerra, non solo sganciando sulla Libia 40-50mila bombe in oltre 10mila missioni di attacco, così da spianare la strada ai ribelli, ma infiltrando in territorio libico servizi segreti e forze speciali per attuare e dirigere le operazioni belliche.



Il piano – deciso a Washington, Londra e Parigi – era quello di eliminare Gheddafi, che in un pubblico processo avrebbe potuto rivelare verità scomode per i governi occidentali. Non è quindi escluso che tra la folla di miliziani urlanti, dietro al «ragazzo con la pistola d’oro» cui viene attribuita l’uccisione di Gheddafi, vi fossero ben più esperti killer di professione.



Manlio Dinucci, www.manifesto.it del 22 ottobre 2011


sabato 22 ottobre 2011

Come sanno morire i nostri nemici, nessuno.


Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Come ha saputo morire il rais, armi in pugno, lo sapevano fare solo i nostri. Come a Bir el Gobi quando con onore, dignità e coraggio sorridevano alla morte. Fosse pure per fecondare l’Africa. Sarà tutto tempo perso, dunque, sporcarne gli ultimi istanti, gravarne di dettagli i resoconti e anche quel disumano reportage sul volto fatto strame – tra sangue e calcinacci – non potrà spegnere il crepitare della mitraglia. Perché come ha saputo morire Muammar Gheddafi – così ridicolo, così pacchiano e così a noi ostile – come ha saputo farsi trovare, straziato come un Ettore, solo il più remoto degli eroi dimenticato nell’Ade l’ha saputo fare.



Come i nostri eroi. Come nel nostro Ade. Proprio come seppe morire Saddam Hussein che se ne restò sprezzante sul patibolo. Come neppure la più algida delle principesse di Francia davanti alla ghigliottina. Incravattato di dura corda al collo, l’uomo di Tikrit, degnò qualche ghigno al boia, si prese il tempo di deglutire il gelo della forca per poi gridare la sua preghiera: “Allah ‘u Akbar”. E fu dunque fatto morto. E, subito dopo, impudicamente fotografato. Come nel peggiore degli Ade. Per quel morire che non conosciamo più perché gli stessi che fino a ieri stavano a fianco del rais, dunque Sarkozy, Cameron, lo stesso Berlusconi, tutto potranno avere dalla vita fuorché un ferro con cui fare fuoco.



La nostra unica arma è, purtroppo, il doppio gioco. I nemici di oggi sono i nostri amici di ieri – amico fu Gheddafi, ancor più amico fu Saddam Hussein – e quando li portiamo alla sbarra, facendone degli imputati, dobbiamo scrivere la loro sentenza di morte con l’inchiostro della menzogna perché è impossibile reggere il ghigno dei nemici. Perché – si sa – i nemici che sanno come morire, poi la sanno sempre troppo lunga su tutto il resto del Grande gioco. Ed è un lusso impossibile quello di stare ad ascoltarli in un’udienza. Come sanno morire i nostri nemici, nessuno.



L’unica cruda verità della vita è la guerra e solo i nostri nemici sanno creparci dentro. E’ veramente padre e signore di tutte le cose, il conflitto, ma l’impostura è così forte in noi da essere riusciti a muovere guerra alla Libia dandola per procura, lavandocene le mani, mandando avanti gli altri perché a forza di non sapere morire con le armi in pugno, se c’è da sparare, preferiamo dare in appalto la sparatoria. Giusto come un espurgo pozzi neri da affidare a ditta specializzata. Come sanno morire i nostri nemici, nessuno.



Quando gli eserciti dello zar ebbero ragione del loro più irriducibile nemico, Shamil il Santo – l’imam dei Ceceni, il custode della prima Repubblica islamica nella storia – nel vederselo venire avanti, finalmente sconfitto, non lo legarono a nessun ceppo, a nessuna catena, piuttosto gli fecero gli onori militari per accompagnarlo in un lungo viaggio fino al Palazzo reale dove lo zar, restituendo a Shamil il proprio pugnale, lo accolse quale eroe e lo destinò all’esilio, a Medina, affinché tutta quella guerra, spaventevole, diventasse preghiera e romitaggio.



Come c’erano una volta i nemici, non ce ne saranno più. Ed è per la vergogna di non sapere morire come loro che scacazziamo sui loro cadaveri. Ne facciamo feticcio e se fosse cosa sincera la memoria di ciò che fu, invece che produrre comunicati stampa di trionfo, se solo fossimo in grado di metterci sugli attenti, invece che mettere la morte in mostra, dovremmo concedere loro l’onore delle armi, offrire loro un sudario. Sempre hanno saputo morire i nemici.



E tutti quei corpi, fatti poltiglia dalla macelleria della rappresaglia, nel film della nostra epoca diventano tutti uguali: Benito Mussolini, Che Guevara, Gesù Cristo, Salvatore Giuliano. E con loro, anche i nemici morti ma fatti assenti, tutti uguali: da Osama bin Laden a Rudolph Hess. Fatti fantasmi per dare enfasi al feticcio, come quel Gheddafi armato e disperato che nel suo combattere e urlare, simile a un selvaggio benedetto dal coraggio e dalla rabbiosa generosità, mette a nudo la nostra menzogna.



A ogni pozza di sangue corrisponde l’onta della nostra vergogna e un Pupo che parla a Radio Uno e annunzia “una notizia meravigliosa” e si rallegra di Muammar Gheddafi, morto assassinato, è solo uno che si trova a passare e molla un calcio al morto. Pupo è come quello che sabato scorso, dalle parti di San Giovanni, vede la Madonnina sfasciata appoggiata a un muro e non sapendo che fare le dà un’altra pestata, non si sa mai. Così come il black bloc, anche Pupo, è una comparsa chiamata a raccolta nella montante marea del nostro essere solo canaglie.



La signora Lorenza Lei, direttore generale della Rai, dovrebbe cacciarlo lontano dai microfoni della radio di stato uno così ma siccome il nostro vero brodo è la medietà maligna, figurarsi quanto può impressionare l’offesa al morto. Pupo, infatti, è l’eroe perfetto per il peggiore degli Inferi, l’Ade cui destinare quelli che non sanno darsi uno stile nel morire.



Di Pietrangelo Buttafuoco, da "Il Foglio"


"Cure omeopatiche,il bimbo muore": LA SOLITA DISINFORMAZIONE


<< MILANO - Pallido, magrissimo, sfibrato. Luca è giunto così giovedì mattina al pronto soccorso dell'Ospedale di Tricase (Lecce) dove i medici hanno potuto solo scuotere la testa davanti al suo corpo senza vita. Con loro c'era il padre che l'aveva portato all'ospedale in braccio, molle come un fantoccio: «Luca aveva una gastroenterite, un'influenza - ha detto a chi è intervenuto e poi ai carabinieri -. Gli abbiamo dato un bicchiere di tisana al finocchio e la situazione è precipitata». Il padre non è un profano. È il dottor Luigi Marcello Monsellato, cinquantaseienne psicoterapeuta di Miggiano (Lecce), ex responsabile del Centro dell'Istituto di dinamica comportamentale di Ferrara, dove ha lavorato 20 anni, e, soprattutto, omeopata e presidente onorario dell'Amos, l'accademia nazionale di medicina omeosinergetica.

Davanti ai colleghi ospedalieri, disperato, non ha fatto mistero di aver utilizzato solo la medicina naturale e alternativa per Luca. Il sospetto, dunque, è stato subito quello: cura inadeguata. Come sembra emergere dal primo, pesantissimo, referto. I medici scrivono di un bambino in evidente stato di malnutrizione, pancia gonfia, capelli e ciglia bianche, ecchimosi sugli arti inferiori. «Mio figlio aveva anche una dermatite», ha spiegato il padre. Ma le dure conclusioni dell'ospedale «Panico» di Tricase sono comunque finite prima sul tavolo del comandante dei carabinieri e poi su quello della Procura della Repubblica di Lecce. Il pm Alberto Santacatterina ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo, inizialmente come atto dovuto e, dopo appena ventiquattr'ore, con un'accusa precisa nei confronti di entrambi i genitori. «Per aver cagionato la morte del figlio Luca nato l'11 novembre 2007 - scrive nella notifica -. Colpa consistita nell'omettere di prestargli le necessarie cure specialistiche pur in presenza di un perdurante grave e preoccupante quadro patologico». In sostanza, il sostituto procuratore della Repubblica contesta al dottor Monsellato e a sua moglie di aver protratto la scelta della medicina naturale, escludendo quella tradizionale, fino alle estreme conseguenze. E ha disposto per questa mattina un'autopsia sul corpo di Luca, unico figlio della coppia, per sapere con esattezza quali siano state le cause della morte. Ad analizzare la salma del piccolo saranno in quattro, due consulenti del pm (un medico legale e un pediatra) e due della difesa, nominati dalla famiglia attraverso l'avvocato Alfredo Cardigliano, il quale, per triste ironia della sorte, è pure responsabile al Centrosud del coordinamento internazionale delle associazioni per la tutela dei diritti dei minori. «La mia sarà una difesa tecnica», ha tagliato corto ieri il legale.



Il dottor Monsellato, che ha due studi privati, a Lecce e Ferrara, ha studiato a lungo le medicine bioterapiche e l'agopuntura e da oltre 25 anni si occupa di omeopatia. La sua terapia ha un solo nome: medicina omeosinergetica. «Una medicina rievocativa delle leggi della natura e stimolativa delle sue energie - scrive lui stesso, presentandosi ai pazienti -. È la vera medicina preventiva, una medicina della salute e non solo della malattia... La malattia è un processo biologico di autoguarigione». Con il piccolo Luca qualcosa, forse, non ha funzionato. >>



Fonte:


http://www.corriere.it/cronache/11_otto ... 0601.shtml



RIFLESSIONI

Siamo alla solita disinformazione/attacco nei confronti dell'omeopatia che viene sbandierata a caratteri cubitali su tutti i giornali principali. Ogni volta che un qualsiasi sedicente terapeuta usa una qualsiasi cura "alternativa" e le cose vanno male viene presa in causa l'omeopatia. Approfondendo però, ogni volta si scopre che le cose sono ben diverse e che l'omeopatia non c'entra nulla. In sintesi i motivi che scagionano completamente l'omeopatia e che evidenziano la superficialità e la faziosità dell'articolo. Da quanto scritto si evince chiaramente che:



1) come cura è stata somministrata una tisana al finocchio che ha fatto precipitare la situazione. Non si tratta quindi di terapia omeopatica la quale non prevede l'uso di alunca tisana bensì di medicinali omeopatici la cui efficacia e "sicurezza" sono comprovate da secoli.



2) Il dottore in questione si dichiara fondatore di una metodica che personalmente non conosco detta "medicina omeosinergetica". Ebbene, qualsiasi cosa sia è chiaro che NON si tratta della medicina omeopatica hahnemanniana (ricordo che la medicina omeopatica classica o è hahnemanniana o non è omeopatia. Non è sufficiente usare rimedi diluiti e dinamizzati per fare omeopatia ma devono essere applicati tutti i principi insegnati da Hahnemann, fondatore dell'omeopatia,

sia per quanto riguarda la diagnosi che la prescrizione terapeutica:
http://www.omeosan.it/principi.html).



3) Dalle poche informazioni sembra che il bambino sia stato trovato in evidente stato di denutrizione e grave sofferenza da settimane, altrochè influenza. Un qualsiasi medico, omeopata o non, in evidente caso di insuccesso delle terapie somministrate, ha il dovere di contattare le strutture idonee (ospadaliere o di pronto soccorso) al fine di garantire le adeguate misure di assistenza in caso di precipitazione della situazione.



E' ora di finirla con questi articoli faziosi e fuorvianti che, a chi non conosce bene la medicina omeopatica, danno l'impressione di una medicina pericolosa o da erbivendoli. Un recente studio pubblicato su Adnkronos Salute (
http://www.sanitaincifre.it/2011/07/far ... i-lanno-2/
) ha evidenziato come si verifichino ben 40 mila morti l'anno per reazioni avverse ai farmaci tradizionali. Se ad ogni morte collegata alla medicina tradizionale, si dovesse dar risalto come nell'articolo sopramenzionato, avremmo dei giornali che scriverebbero solo di necrologi con un'unica differenza: nessun medico tradizionale verrebbe mai indagato o sottoposto a gogna mediatica.



Dott. Tancredi Ascani - Iscritto all’Ordine dei Medici Chirurghi di Perugia che praticano Medicine Non Convenzionali per la disciplina Medicina Omeopatica

http://www.omeosan.it/forum/viewtopic.php?f=2&t=1830


lunedì 17 ottobre 2011

Dietro il fumo dei lacrimogeni e delle camionette che vanno a fuoco, c’è una società in cancrena.



(ASI) Tutti sono stati capaci a dire la loro e a condannare gli incidenti di Roma. Pochi, al contrario, si sono domandati il perché e in quale contesto sono avvenuti.



Da destra, seguendo la solita sceneggiatura dell’ordine e della sicurezza, sono arrivate immediatamente le condanne e si è parlato di punire severamente gli autori della guerriglia. Roberto Maroni, ministro dell’interno, ha difeso e solidarizzato con le forze dell’ordine dichiarando: “Quello che è successo a Roma è un fatto di inaudita gravità che va condannato da tutti senza esitazioni. Ringrazio ancora una volta le forze dell’ordine, il prefetto, il questore perché solo grazie ad un’equilibrata gestione dell’ordine pubblico si è evitato che ci scappasse il morto. Il rischio era concreto perché i violenti si sono volutamente fatti scudo del corteo”. Il senatore Maurizio Gasparri, ha precisato: “Quanto è successo a Roma non è frutto del caso o dell’improvvisazione. Caschi, bastoni, maschere antigas ed altre attrezzature da guerriglia erano in dotazione a migliaia di manifestanti che non sono stranieri o fantomatici black bloc, ma appartenenti a ben note organizzazioni dell’estrema sinistra”.



Dalla sinistra, invece, sempre intenta ad apparire democratica e civile, sono arrivate all’unisono le prese di distanza. Nichi Vendola di Sinistra Ecologia e Libertà ha detto: “L’obiettivo della violenza teppistica che è andata in scena a Roma era colpire la manifestazione. Volevano togliere il diritto di parola a migliaia di ragazzi, uccidere la speranza che il dissenso radicale possa diventare politica. Il giudizio su questo teatro del nichilismo distruttivo deve essere più che netto: questa violenza è il vero nemico da battere”. In una nota di Giovanni Barbera, membro della direzione romana di Rifondazione Comunista – Federazione della Sinistra si legge: “Ragazzi incappucciati che avevano dato fuoco ad alcune auto e devastato alcuni locali di Via Cavour sono stati cacciati e malmenati dagli stessi manifestanti. La cosa anomala è che alcuni di loro si sarebbero rifugiati dietro i blindati delle forze dell’ordine in via dei Serpenti, da quanto riferiscono alcuni manifestanti presenti ai fatti. Li avrebbero fatti passare senza fermarli. Chiediamo che tali fatti siano accertati da chi ne ha la competenza. Se fossero veri sarebbero di una gravità inaudita e qualcuno ne dovrebbe rispondere pesantemente”. Quest’ultima dichiarazione, di “cossighiana” memoria, non sarebbe certo una novità… Ma andiamo oltre.



Tutti i politicanti, si sono dichiarati contro la violenza e il bisogno di rispettare le regole. Ma quali regole? La politica affaristica dei governi e dei potenti del mondo, sono legali? I ragazzi scesi in strada sabato e in molte altre occasioni, quale futuro possono avere? Dietro il fumo dei lacrimogeni e delle camionette che vanno a fuoco, c’è una società in cancrena, fatta di banche predatrici e di fabbriche che chiudono. C’è un popolo lasciato a se stesso. C’è una crisi che sembra destinata a non finire mai. E’ troppo facile ridurre la motivazione dei disordini e di una così forte protesta additando la colpa ai “soliti facinorosi”. E le persone scese in strada, non sono marziani venuti da un altro pianeta o, come aveva detto in una intervista a Sky Tg 24 il sindaco di Roma Gianni Alemanno, “i più violenti venuti da tutta Europa”. Sono le stesse persone che cucinano in nero per trenta euro a serata in qualche ristorante radical chic, sono le stesse che rispondono ad un qualsiasi call center con contratti a progetto per poche centinaia di euro al mese o, peggio ancora, sono persone licenziate da un giorno all’altro perché la fabbrica di turno ha deciso di investire all’estero.



La protesta scoppiata lo scorso anno in tutta Europa, sta continuando. Continua in Grecia e continua qui in Italia. Ed è troppo riduttivo sminuire un fenomeno che sembra crescere giorno dopo giorno.



www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=5327:dietro-il-fumo-dei-lacrimogeni-e-delle-camionette-che-vanno-a-fuoco-&catid=4:politica-nazionale&Itemid=34


mercoledì 12 ottobre 2011

Giorgio Sandri scrive al Ministro Maroni per far autorizzare la targa per Gabriele


(ASI) Oggi, sul quotidiano “Il Tempo”, è stata pubblicata la lettera scritta da Giorgio Sandri, al Ministro dell’Interno Maroni, affinché venga autorizzata la targa in ricordo di Gabbo. Una targa sostenuta da 25.000 firme che rappresenta non solo “una semplice lapide, ma un monito indelebile per il futuro, il simbolo di un'intera generazione di cittadini alla ricerca di punti fermi su cui costruire un futuro senza barriere e più a misura d'uomo, dove lo Stato è sempre la somma di tutti i suoi figli e custode della memoria collettiva, senza pregiudiziali alcune”.



On.le Ministro Maroni, tra un mese saranno trascorsi quattro anni da quando la folle mano di un individuo pensò di contravvenire a qualsiasi regola d’ingaggio della Polizia di Stato uccidendo mio figlio, ragazzo di 26 anni a bordo di un'auto sull'Autostrada del Sole, nell'area di servizio Badia Al Pino Est, in provincia di Arezzo.



Non si trattò di un incidente automobilistico e nemmeno di una sventurata fatalità. Per questo, da quell’11 Novembre 2007, un moto popolare libero si è stretto intorno alla mia vicenda, sostenendomi in una causa che accomuna coscienze civili senza distinzioni di città, credo politico e ceto sociale. Nel nome del mio amato Gabriele, tanti giovani sono riusciti a riscoprire l’importanza dell’affermazione dei valori fondamentali della vita comunitaria, della legalità e della cittadinanza attiva, dove ognuno è partecipe (e non escluso) della dialettica e della sfera di tutela pubblica. Capisaldi imprescindibili delle attività promosse dalla Fondazione Gabriele Sandri, che mi onoro di rappresentare promuovendo azioni finalizzate alla diffusione di una nuova cultura della convivenza.



Lo scorso anno, a ridosso del terzo anniversario, con la costituzione del Comitato Mai Più 11 Novembre è stata democraticamente promossa una raccolta popolare di firme per favorire l'apposizione di una targa sul luogo del delitto, con scritto semplicemente “In ricordo di Gabriele Sandri, cittadino italiano”. Contando unicamente su generosità, spontaneismo e sensibilità di migliaia di cittadini, in appena 2 mesi vennero raccolte 25.000 firme in tutta Italia, un numero che - se l'iniziativa fosse proseguita - forse oggi sarebbe di qualche milione di sottoscrizioni. Perché da allora, nonostante innumerevoli tentativi, colloqui e iter burocratici puntualmente vanificati, l'apposizione della targa non è stata definitivamente autorizzata, malgrado le rassicurazioni ricevute a più riprese per le vie brevi da Autostrade per l'Italia S.p.a. e Comune di Civitella in Val di Chiana.



Come Lei sa, l’impasse ha portato la questione anche in Parlamento, con interventi bipartisan di deputati che hanno rimbalzato l'iniziativa per scioglierne il nodo. “Lapidi o ricordi permanenti in luoghi pubblici non possono essere dedicati a persone se non decedute da almeno 10 anni, salvo facoltà di deroga concessa dal Ministro dell’Interno in casi eccezionali“, ha risposto ad un’interrogazione in aula il 24 Marzo 2011 il Sottosegretario delle Infrastrutture e dei Trasporti On. Bartolomeo Giachino.



Per questo sono a scriverLe una lettera aperta, ad un mese esatto dall’11 Novembre. Per invitarLa pubblicamente ad autorizzare in deroga l'apposizione di questa targa che in realtà non è una semplice lapide, ma un monito indelebile per il futuro, il simbolo di un'intera generazione di cittadini alla ricerca di punti fermi su cui costruire un futuro senza barriere e più a misura d'uomo, dove lo Stato è sempre la somma di tutti i suoi figli e custode della memoria collettiva, senza pregiudiziali alcune. Perché uno Stato civile e una democrazia compiuta, con convinzione devono avere la forza di mostrare i segni su cui metabolizzare gli errori del passato, senza trincerarsi dietro silenzi ed oblio, affinché mai più nessuno debba subire sulla propria pelle quanto mi è stato irrimediabilmente tolto proprio in quell’area di servizio autostradale che oggi, come quattro anni fa, è ancora lì. Ma stavolta in attesa di un segnale diverso, una traccia di speranza e di umanità perenne.



On.le Ministro dell'Interno Maroni, per tutto quanto questo confido nella Sua disponibilità per un intervento risolutivo. Per far si che a Badia Al Pino Est l'ormai prossimo 11 Novembre 2011 possa diventare il giorno della pacificazione col nostro futuro della memoria, in ricordo di Gabriele Sandri, cittadino italiano.



Certo di un Suo gradito riscontro, cordialmente,


Giorgio Sandri - Presidente Fondazione Gabriele Sandri



http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=5244:giorgio-sandri-scrive-al-ministro-maroni-per-far-autorizzare-la-targa-per-gabriele&catid=4:politica-nazionale&Itemid=34

martedì 11 ottobre 2011

Sigonella, 11 ottobre 1985.


Ventisei anni fa, l’11 ottobre del 1985, Bettino Craxi ordinava ai Carabinieri di difendere la sovranità territoriale italiana a Sigonella. Meno di un mese più tardi pronunciava questo discorso in parlamento:



 




Irlanda del nord. Internamenti senza accuse e pesanti condizioni carcerarie potrebbero portare ad uno sciopero della fame


(ASI) Sabato 8 ottobre è stato il giorno della mobilitazione europea in sostegno dei prigionieri politici repubblicani irlandesi. Presidi e volantinaggi si sono svolti in Germania, nei Paesi Bassi, in Austria, in Svezia, in Francia e anche in Italia. A Roma, il Coordinamento Amici dei Pow Irlandesi, è sceso in piazza, davanti all’ambasciata britannica in Via XX Settembre, per chiedere il ripristino dello status di prigioniero politico e l’immediata liberazione di Marian Price e Martin Corey.



Marian Price, leader del 32 Country Sovereignty Movement e dell’ Irish Republican Prosoners Welfare Association, è detenuta nel carcere di Maghaberry dal Maggio del 2011. Era stata arrestata con l’accusa di incoraggiamento al terrorismo riconducibile alla commemorazione dell’Easter Rising, organizzata dal 32CSM presso il cimitero di Creggan – Derry - il lunedì di Pasqua, dove, un militante della Real IRA, aveva annunciato una nuova stagione di lotta contro l’oppressore britannico. Marian Price, una volta liberata, ha visto revocata la sua licenza di libertà per ordine del Segretario di Stato, Owen Paterson, dopo essere stata accusata di aver procurato beni, fra i quali un cellulare, per l’attacco di Massereene del marzo 2009. L’avvocato di Marian Price afferma che la sua assistita era stata interrogata originariamente su questo attacco nel novembre del 2009, ben 18 mesi prima.



Martin Corey è detenuto a Maghaberry dall’aprile del 2010. Aveva scontato diciannove anni nel carcere di Long Kesh per l’omicidio di un agente del RUC nel 1973, poi nel 1992 era stato rilasciato. In una intervista esclusiva al Lurgan Mail, Martin Corey, racconta di come le accuse siano assolutamente infondate. Nell’intervista si legge: “non hanno prove contro di me. Per questo non mi hanno ancora accusato formalmente. Se il mio caso approdasse in tribunale, finirebbero per rilasciarmi, perché non c’è uno straccio di prova contro di me”. E ancora: “Da quando sono stato rilasciato da Long Kesh il massimo in cui sono stato coinvolto è stata qualche attività di protesta come i white-line pickets. Null’altro. Se hanno prove a mio carico, allora dovrei essere formalmente accusato e dovrebbe iniziare un processo; in caso contrario, devono rilasciarmi”. Concludendo, parlando della situazione carceraria a Maghaberry, ha affermato: “l’accordo dello scorso agosto non è stato applicato; la dirty protest attualmente in corso potrebbe presto degenerare, e uno sciopero della fame pare ormai una possibilità del tutto verosimile. L’ultimo sciopero della fame iniziò con una dirty protest, e questa controversia potrebbe finire allo stesso modo: ci sono numerosi volontari per uno sciopero della fame”.



I continui internamenti senza accuse e le pesanti condizioni carcerarie, ricordano gli anni bui dei troubles e l’hunger strike di Bobby Sands e dei suoi compagni. Martin Rafferty, membro del comitato del 32 County Sovereignty Movement, in una recente intervista per Rinascita, ha dichiarato: “quello che succede a Maghaberry è quello che sta cadendo in generale fuori, è il riflesso di quel che succede nella società irlandese: gli accordi del Venerdì Santo non solo hanno distrutto le aspirazioni repubblicane ma hanno anche eliminato lo status di prigioniero politico fino ad allora concesso ai repubblicani. Quindi le condizioni dei prigionieri sono peggiorate, perché quello che avevano fino a quel momento gli è stato tolto. Tutti i repubblicani arrestati dopo il Good Friday Agreement sono stati considerati prigionieri comuni”.



Di Fabio Polese,

http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=5243:-irlanda-del-nord-internamenti-senza-accuse-e-pesanti-condizioni-carcerarie-potrebbero-portare-ad-uno-sciopero-della-fame&catid=3:politica-estera&Itemid=35


lunedì 10 ottobre 2011

GAZA: ADOZIONI A DISTANZA


La Comunità Solidarista ha iniziato la collaborazione con l'Associazione Orfani Palestinesi nel quadro di un progetto di adozioni a distanza che, per quanto riguarda l'intervento diretto di "Popoli", ha preso il via nel mese di ottobre 2011. Abbiamo adottato 5 orfani e invitiamo quelli tra i nostri sostenitori che volessero dare un aiuto concreto alla causa del Popolo Palestinese a contattare direttamente la A.O.P. per avere le indicazioni necessarie all'adozione. Potete scrivere una mail all'indirizzo: aop.onlus@gmail.com chiedendo il modulo di adesione al progetto, citando se volete la Comunità Solidarista Popoli come referente. Si può adottare un bambino con una quota mensile a partire da 50 euro. L'Associazione Orfani Palestinesi si trova a MIlano, in via Bolama 2, angolo viale Monza 309.





Per chi volesse sostenere l'iniziativa a Perugia, può contattarci a: controventopg@libero.it

mercoledì 5 ottobre 2011

Amanda Knox è libera, noi italiani no.

Il caso di Perugia, anche se piccolo, è un tassello della nostra sovranità limitata


di Fabio Polese, www.agenziastampaitalia.it



(ASI) Nel giorno della sentenza in appello, Perugia è nuovamente invasa da giornalisti americani che proclamano l’innocenza della loro connazionale. Più di quattrocento sono stati i giornalisti accreditati al processo dell’anno. Alcuni, addirittura, hanno trascorso la notte davanti all’ingresso del tribunale per essere in prima fila nell’ultimo atto – per ora – di questo tristissimo show mediatico.



Diversi giornalisti statunitensi sono stati intervistati da tv locali e nazionali e, come dei pappagalli addomesticati, hanno urlato fino alla nausea l’innocenza della loro connazionale Amanda Knox. Sinceramente, non mi sono mai occupato del caso giudiziario in questione, anche perché, da perugino, ho avuto sin da subito la nausea. La mia città è stata violentata, definita la città dello sballo e della droga tout court. Tra l’altro, non considerando che la vicenda è a tutti gli effetti una violenza privata e che, anche volendo, nessuno sarebbe potuto intervenire. E, non in ultimo, non è stato neanche considerato che tra i protagonisti della triste storia non c’è nessun perugino. Detto questo, però, mi sono incuriosito leggendo le reazioni dei media, delle autorità e dell’opinione pubblica statunitense, subito dopo la sentenza di primo grado che aveva condannato a 25 e 26 anni Amanda Knox e Raffaele Sollecito, per l’omicidio della giovane studentessa inglese Meridith Kercher.



La senatrice Usa Maria Cantwell, riferendosi al processo di Perugia, aveva sottolineato che la condanna della ragazza americana era arrivata nonostante una evidente «mancanza di prove» rilevando «una serie di difetti nel sistema di giustizia italiano» e aveva dichiarato che «l’antiamericanismo può avere inquinato il processo». Subito dopo queste dichiarazioni, Hilary Clinton, segretario di Stato, si era resa disponibile a prendere in esame la vicenda. Il Ministro degli Esteri Franco Frattini, aveva parlato di un interessamento legittimo da parte dei politici statunitensi. Anche il primo cittadino di Seattle – città gemellata con Perugia -, Mike McGinn, incredulo dopo la sentenza, aveva deciso di sospendere l’iniziativa di intitolare un parco di Seattle proprio a Perugia. Articoli deliranti di testate a stelle e strisce scrivevano che la storia era basata su errori giudiziari e pregiudizi.



Insomma, dall’altra parte dell’oceano, si pensava, che la signorina Knox, era la vittima scelta dalla magistratura italiana. Ieri, la Corte d'assise d'appello di Perugia ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall'accusa di aver ucciso, nel novembre 2007, la studentessa inglese Meredith Kercher. La decisione, dopo otto ore di consiglio, è stata presa in base al primo comma dell'articolo 530 del codice di procedura penale, che prevede l'assoluzione perché «il fatto non sussiste». Il mio primo pensiero, appena è arrivata la notizia, è stato un titolo di un articolo apparso sulla testata giornalistica Newser che recitava: «Amanda is America». Detto fatto, se Amanda è l’America, non potevamo certo pensare in un verdetto di condanna. Tra l’altro, nell’aria, nella Perugia «bene», la notizia circolava da tempo. E così, anche l’opinione pubblica e i politici americani, dopo le forti critiche al sistema giudiziario italiano sono passati alle congratulazioni. «Gli Stati uniti apprezzano l'attenta considerazione della vicenda nell'ambito del sistema giudiziario italiano» ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato Usa Victoria Nuland, poco dopo la lettura della sentenza di assoluzione di Amanda Knox.



L’onorevole del Pdl Rocco Girlanda, presidente onorario della Fondazione Italia Usa, che sin dall’inizio si era schierato a favore della yankee, parlando con i giornalisti Ansa, aveva lasciato intendere che, Amanda Knox, sarebbe partita con un volo di linea per gli Stati Uniti. E così è accaduto, l’americana è partita per tornare a casa, passando – casualmente - per Londra. Sicuramente i legali della famiglia di Meredith Kercher ricorreranno in cassazione ma c’è il rischio che, la Knox, non faccia più ritorno dalla sua lussuosa dimora negli States. Cercando su internet casi simili a quelli di Perugia, mi sono imbattuto in un articolo uscito su Repubblica il 4 maggio del 2004, «Bruciano hotel a cinque stelle: libere» a firma di Massimo Lugli, dove due ragazze americane, Tracy di 24 anni e Rachel di 25, dopo aver provocato l’incendio al Grand Hotel «Parco dei Principi», a Roma, all’alba del 1 maggio e la morte di tre persone, sono tornate – senza neanche il processo - a casa. Il Pm Giuseppe Andruzzi aveva liquidato la questione con poche parole: «Non sono indagate, possono fare quello che vogliono, anche tornare nel loro Paese». Il caso di Perugia, come quello del maggio del 2004 a Roma, anche se piccoli, sono tasselli della nostra sovranità limitata. Le pressioni dello Zio Sam – anche questa volta - si sono fatte sentire, mentre i nostri politici, sottomessi da sessant’anni, continueranno a rimanere in silenzio.


lunedì 3 ottobre 2011

GIUSTIZIA PER CARLO E PER GLI ITALIANI DETENUTI INGIUSTAMENTE ALL'ESTERO.


Oggi, a Perugia, il processo d'appello per l'omicidio Kercher.



I giornalisti americani proclamano l’innocenza della povera bimba yankee. E i loro politici continuano blaterare.



I nostri, invece, sottomessi da sessant’anni, comunque andrà, continueranno a rimanere in silenzio...



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