venerdì 10 febbraio 2012

L’Irlanda del Nord: un caso “dimenticato” di colonialismo nell’Unione Europea.


“Europeanphoenix” intervista Alessia Lai, della redazione esteri di “Rinascita”, collaboratrice de “la Voce del Ribelle” e di altre testate.
(Intervista a cura di Enrico Galoppini)
Il tema di quest’intervista è di quelli molto scomodi per i “manovratori”, i padroni di quella parte di mondo da essi ridotta – grazie alla conquista prima militare, poi politica, economica e culturale - ad una “ideocrazia”, il cosiddetto “Occidente”. Un argomento scomodo perché riguarda il più macroscopico caso di colonialismo in Europa; in quella Unione Europea che sentenzia e bacchetta, punisce ed aggredisce - assieme al suo “alleato” (sic) statunitense - praticamente tutto il resto del mondo in nome dei “diritti umani”, questa copertura ipocrita che ormai a chi sa ben vedere sta mostrandosi per quel che è: una spudorata e disgustosa menzogna.

Se alla tambureggiante ed onnipresente retorica dirittumanista corrispondesse una sostanza, allora in prima fila sul “banco degli imputati” vi sarebbe anche l’Inghilterra, per come tratta da secoli l’Irlanda e gli irlandesi. Non che oggi le loro condizioni siano migliorate, anzi, sono stati fatti entrare, assieme agli odiati Paesi del sud Europa, nell’esclusivo club del PIGS (con quella “i” in più del rinnovato acronimo PIIGS che non si sa se rappresenti l’Irlanda o L’Italia)… Ma negli anni Settanta, precisamente il 30 gennaio 1972, i “soldati di Sua Maestà” perpetrarono il massacro di Derry, in una di quelle “sei contee” d’Irlanda che – sotto il nome di Ulster - vanno a comporre il “Regno Unito”. Quella “Bloody Sunday”, la “Domenica di sangue” già cantata dagli U2 prima che essi diventassero un’icona musicale della globalizzazione, è diventata così il simbolo dell’oppressione inglese sulla Terra d’Irlanda.
Per prima cosa, ci potresti spiegare il contesto, prima storico-culturale, e poi politico, di quegli anni, in cui s’inscrive quel massacro di quattordici manifestanti repubblicani irlandesi?
L’Isola Verde è sempre stata nelle mire britanniche. La sua lunga storia è caratterizzata dal sentimento di autonomia e indipendenza da Londra, che dal canto suo l’ha invece sempre considerata territorio appartenente al Regno Unito. Negli anni ’70 del secolo scorso erano trascorsi una cinquantina d’anni dalla concessione dell’autogoverno alle Sei Contee, rimaste sotto il controllo britannico dopo il conflitto anglo-irlandese per l’indipendenza dell’Isola. Cinquant’anni di gestione saldamente in mano protestante-britannica, che praticava politiche discriminatorie nei confronti della popolazione irlandese-repubblicana, in gran parte cattolica. Detenere il potere politico significa avere in mano anche quello economico, e questo significava, nelle Sei Contee, che la comunità cattolica apparteneva alle classi sociali inferiori e aveva speranze ridottissime di avanzamento economico e sociale. L’emarginazione, le vessazioni e le politiche apertamente discriminatorie erano ciò contro cui combatteva l’Ira, l’Irish Republican Army storico. Ma l’incapacità, nel 1969, di difendere gli abitanti di Derry e Belfast dalle violenze della Ruc e dei paramilitari lealisti, determinarono all’interno dell’esercito irregolare irlandese la scissione che diede origine alla Provisional Ira. La PIra si incaricò di difendere i nazionalisti repubblicani dalla repressione britannica e dalle violenze dell’Uvf e dell’Uda, i gruppi paramilitari unionisti. L’esito di queste attività fu anche l’incremento degli attacchi mirati contro obiettivi protestanti in tutto il territorio occupato. La reazione di Londra fu una repressione spietata. Ad agosto del 1971 venne introdotto l’internamento senza processo in base al quale si poteva essere arrestati solamente per il sospetto di avere legami con i Provisional e si rimaneva in carcere senza che alcun giudice dovesse confermare l’arresto in base a prove certe. Un provvedimento che falcidiò le fila dei giovani irlandesi. Era contro l’internamento senza processo che il movimento per i diritti civili di Derry, una città ribelle nella quale truppe britanniche non potevano praticamente entrare, indisse la marcia del 30 gennaio 1972. Le manifestazioni erano state vietate dal parlamento di Stormont, ma quella era una marcia pacifica e gli organizzatori (Nothern Ireland Civil Rights Association) si erano accordati con l’Ira perché nulla potesse scatenare una violenta reazione dei militari di Sua maestà.
 
E qual è stato poi il seguito della storia? Vogliamo ricordare che anche per tutti i quarant’anni successivi la situazione nelle Sei contee occupate (la cosiddetta “Irlanda del Nord”) non è stata affatto rosea? Qual è la loro situazione attuale, specialmente quella socio-economica? Hai avuto modo di recarti là?
La strage compiuta dai paracadutisti britannici il 30 gennaio del ’72 (si contarono 14 morti, per la gran parte giovanissimi), lo sconcerto e la rabbia che ne scaturirono, diedero il via ad un massiccio arruolamento dei giovani irlandesi repubblicani nelle file dell’Ira e quindi all’intensificarsi dello scontro fra Londra e gli indipendentisti delle Sei Contee. Le carceri si riempirono di militanti dell’organizzazione repubblicana, detenuti in condizioni degradanti e torturati, senza che gli venisse riconosciuto lo status di detenuto politico. Emblematico è lo sciopero della fame che il volontario dell’Ira Bobby Sands condusse fino alla morte nel 1981 per denunciare le condizioni carcerarie; dopo di lui altri nove militanti repubblicani fecero lo stesso. Anche allora l’Ira intensificò le sue attività di guerriglia e colpì numerosi obiettivi britannici. Gli accordi del Venerdì Santo che diciassette anni dopo sancirono la partecipazione dello Sinn Fein (“Noi Stessi”) alla vita politica-partitica dell’Irlanda del Nord ebbero come conseguenza la smobilitazione dell’Ira, o almeno di parte di essa. In molti infatti rifiutarono gli accordi, e fu negli anni successivi che nacquero la Continuity Ira e la Real Ira, gruppi che non intendevano e non intendono abbandonare la lotta armata contro i britannici, specie a fronte della completa integrazione dello Sinn Fein nelle dinamiche politiche volute dai britannici per il Nordirlanda. Da allora, in realtà, poco è cambiato: i cattolici repubblicani sono ancora relegati nelle classi sociali inferiori, le loro condizioni economiche rimangono invariate, la gran parte vive dei sussidi statali e abita - quando non viene scavalcata nelle graduatorie dai protestanti - negli alloggi popolari. La scolarizzazione resta molto bassa, visto che è più facile metter su famiglia da giovanissimi arrabattandosi poi con lavori saltuari e integrando con i sussidi. Di recente, inoltre – anche se non erano mai cessate –, sono nuovamente aumentale le aggressioni settarie. Dei giovani protestanti che usano violenza contro i cattolici nessuno viene mai indagato né condannato, mentre sono molto approfondite e rapide le inchieste sui riots che ogni estate, al passaggio delle parate orangiste, scatenano la guerriglia urbana nei quartieri cattolici come l’Ardoyne di Belfast. Dopotutto l’attuale PSNI, la polizia nordirlandese, non è altro che la prosecuzione con altro nome della tristemente famosa RUC (Royal Ulster Constabulary), formata esclusivamente da protestanti e resasi complice di persecuzioni e omicidi di cattolici negli anni passati. Persecuzioni che continuano anche oggi nei confronti di quelli che vengono definiti “dissidenti”, cioè chi oggi è contrario agli accordi del ’98. Ancora oggi vengono incarcerati per il solo sospetto che abbiano legami con la Real o la Continuity Ira e in prigione (Long Kesh è stato smobilitato, ma oggi c’è Maghaberry): il trattamento è molto simile a quello riservato negli anni ’80 a Sands e ai suoi compagni di lotta. Tanto che dalla scorsa estate a Maghaberry è in atto una “dirty protest” (lett. “protesta sporca”: i prigionieri rifiutano di lavarsi per evitare di essere malmenati ogni qual volta si recano al bagno) per denunciare le continue perquisizioni corporali e i maltrattamenti ai quali vengono sottoposti i prigionieri. Nei miei viaggi a Belfast ho avuto modo di assistere agli scontri nel quartiere dell’Ardoyne scatenati dal passaggio delle parate lealiste il 12 luglio, e ai roghi della notte precedente, nei quali i protestanti bruciano i simboli cattolici e repubblicani irlandesi. In quei momenti l’arroganza britannica si respira, si sente forte il loro sentimento di dominio nei confronti della comunità repubblicana. Vedere una città europea divisa ancora da muri, nella quale basta attraversare una strada per ritrovarsi in territorio nemico è un’esperienza dura.
 
I “media autorevoli” – che scattano sempre sull’attenti per la commemorazione di alcune ricorrenze, anche le più pretestuose – hanno ignorato quest’importante data, in specie se si pensa che stiamo parlando di uno di quei popoli che dovrebbero abitare quella “casa comune europea” in cui dovrebbe vigere il “rispetto reciproco”… Tra le rare eccezioni, segnalo quella dell’europarlamentare Mario Borghezio, non nuovo a dichiarazioni “fuori dal coro” (con la penosa eccezione di quelle, invece conformiste al massimo grado, sull’Islam e musulmani…), e quella dell’Agenzia Stampa Italia. Come “Rinascita”, che si distingue nello scialbo panorama della stampa quotidiana italiana, come avete ricordato l’anniversario della strage inglese?
Ho fatto un pezzo nel quale ricordo cosa accadde quel giorno, perché è importante che la memoria non venga offuscata dal tempo. L’inchiesta Saville, che nel 2010 ha finalmente stabilito che le vittime della “Bloody Sunday” erano solo dei civili disarmati e non membri dell’Ira come invece sempre sostenuto dai paracadutisti, è stata motivo di gioia ma anche di divisioni. In molti, tra i familiari delle vittime, hanno deciso che la marcia commemorativa del 2011 sarebbe stata l’ultima. Ma altri non hanno smesso di marciare, e anche quest’anno, a Derry, la strage è stata ricordata da migliaia di persone. Ne abbiamo voluto parlare, perché è importante non dimenticare che nonostante sia emersa la verità nessuno dei responsabili ha ancora pagato per quel crimine.
 
Tra gli eroi della lotta del popolo irlandese, il più celebre dei tempi nostri è senza dubbio Bobby Sands. Anch’esso, sempre grazie alla notevole “sensibilità” della classe politica e degli “intellettuali” di regime, è praticamente sconosciuto ai più. Eppure, mi risulta che lontano dall’Unione Europea, che ancora tollera questo ‘colonialismo in casa’ perché operato da chi ha il coltello dalla parte del manico (la City e la speculazione finanziaria…), la figura di Bobby Sands viene fatta conoscere ad un vasto pubblico: è il caso dell’Iran, dove a Teheran gli è stata addirittura intitolata una strada. Ma non dovrebbe essere in questa autoproclamata ‘patria dei diritti umani’, l’Unione Europea, che si dovrebbero intitolare vie ai martiri della “resistenza all’oppressione”?
Bobby Sands è un personaggio scomodo, perché denuncia il colonialismo britannico in terra d’Europa e ricorda l’arroganza di Londra, la stessa che si rispecchia anche oggi negli atteggiamenti “euroscettici” inglesi: membri dell’Unione ma fuori dall’euro, parte dell’Europa ma solo quando gli conviene. È quindi più facile prendersi a cuore Sakineh – un’assassina, ma giudicata tale da un Paese che non fa parte della “cerchia democratica” – invece che ricordare che in Europa esiste ancora una colonia, esistono dei muri di separazione e delle discriminazioni evidenti sulla base dell’appartenenza nazionale. Eppure Bobby e gli altri suoi nove compagni di lotta hanno deciso di morire, solo trent’anni fa, per denunciare il furto della libertà, la discriminazione, il razzismo britannico. Ma nessuno li ha ascoltati. Ancora oggi l’Europa è sorda: nel carcere di Maghaberry presto la “dirty protest” potrebbe trasformarsi in un nuovo “hunger strike” (sciopero della fame). Bruxelles potrebbe avere sulla coscienza altri martiri, ma preferisce volgere lo sguardo alle “rivoluzioni colorate”. Più comodo e politicamente corretto.
di Enrico Galoppini, 

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