mercoledì 31 marzo 2010

L’esercito israeliano uccide un quindicenne a Gaza.

Di: Matteo Bernabei, www.rinascita.info



Sale la tensione in Palestina. Un ragazzo di 15 anni è stato ucciso ieri durante le manifestazioni organizzate a Gaza per il “Giorno della terra”, la commemorazione nella quale da ormai 34 anni la popolazione della Striscia ricorda le sei persone massacrate dalle forze armate israeliane nel 1976 mentre protestavano ad al Jalil contro il furto delle loro terre. Il giovane è stato ucciso da alcuni colpi d’arma da fuoco esplosi dai militari di Tel Aviv mentre, alla testa di un corteo pacifico, si avvicinava alla barriera che separa il territorio dell’enclave palestinese da quello dell’entità sionista nei pressi del valico di Rafah. Le autorità israeliane non si sono ancora pronunciate ufficialmente sulla vicenda ma, come spesso accade in questi casi, è probabile che la scelta di non confermare quanto accaduto sia voluta e finalizzata a non alimentare la tensione fra i manifestanti. Tuttavia episodi simili si sono registrati anche ad est di Khan Younis e nel campo profughi di al Maghazi situato nel sud di Gaza, sarà quindi molto difficile per la censura di Tel Aviv mettere a tacere tutto. “Mi trovavo con un gruppo di manifestanti - ha spiegato ieri Vittorio Arrigoni, attivista dell’International Solidarity Movement, all’agenzia Infopal - quando i soldati israeliani hanno preso a spararci contro. Ora stiamo andando all’ospedale Europeo di Rafah per accertarci delle condizioni in cui si trovano i feriti. In questi giorni, è in corso un’escalation israeliana contro la Striscia di Gaza: sono aumentati gli attacchi israeliani contro i cittadini e i contadini, e gli scontri contro i resistenti che giustamente si difendono”. A tutto questo si aggiunge la decisione del governo israeliano di chiudere per tutta la durate delle festività della pasqua ebraica i valichi con la Cisgiordania e quelli con la Striscia di Gaza. La municipalità di Gerusalemme, inoltre, seguendo le indicazioni dell’esecutivo di Netanyahu, ha invece limitato per lo stesso periodo l’accesso alla spianata delle moschee ai soli arabi con più di 50 anni e alle donne. Una prassi che Tel Aviv attua ormai da quando nel 2003 è stata ultimata la costruzione del muro che soffoca la Cisgiordania. Tuttavia la polizia della Città Santa non è stata in grado domenica scorsa di impedire ad un gruppo di ebrei estremisti di fare irruzione nel luogo sacro per i musulmani, dove hanno causato alcuni danni agli edifici e provocato qualche piccolo scontro con i presenti. Tel Aviv si ostina a coprire dietro la definizione di “motivi di sicurezza” quella che di fatto è una violazione delle libertà fondamentali del popolo palestinese. Violazione che, purtroppo, è tollerata e giustificata dalla maggior parte dei Paesi occidentali.

Bruciato un villaggio Karen, trucidati due bambini e una donna.

Sono arrivati alle 16.30 nel villaggio di Kaw Hta, distretto di Nyaunglebin. Non li  chiameremo soldati, perché indegni di tale qualifica. Non si sono battuti contro un nemico armato. Gli assassini del battaglione 369 hanno sparato soltanto su donne e bambini. Hanno ucciso Naw La Pwey, 37 anni, Naw Paw Bo, una bimba di 5 anni, e Saw Hta Pla Htoo, di appena 5 mesi. Anche la madre dei piccoli, Naw Pah Lah, è stata  colpita, ed ora viene soccorsa in un luogo nascosto della giungla, dove tutti gli abitanti del  villaggio hanno cercato riparo. Le loro case sono in fiamme. Mentre i loro sgherri massacrano civili inermi, i generali birmani si danno un gran daffare  in cerca di legittimazione  internazionale. Vorrebbero  che le elezioni/farsa,  promesse entro la fine del  2010, ottenessero il sostegno  delle diplomazie. Ci saranno a breve incontri tra inviati dell'Unione Europea e rappresentanti del regime di  Rangoon. Ribadiamo che non è possibile trattare con  chi colpisce donne e  bambini. L'unico atto  concreto che dovrebbe  precedere ogni ipotesi di  negoziato tra regime,  organismi internazionali,  forze di opposizione e  gruppi etnici, è la cessazione da parte birmana di ogni attività bellica nelle aree abitate dai popoli che reclamano autonomia. L'Esercito di Liberazione Karen continuerà fino ad allora la sua lotta in difesa della  popolazione, e ovviamente colpirà le truppe birmane e i partigiani collaborazionisti,  spregevoli traditori del proprio popolo, ogniqualvolta se ne presenterà l'occasione. In accordo con la Karen National Union, lanciamo un appello al Governo Italiano per una decisa azione volta all'ottenimento di un cessate il fuoco effettivo nella regione Karen.



www.comunitapopoli.org

martedì 30 marzo 2010

A chi giova la bancarotta della Grecia?

La crisi del debito pubblico della Grecia sta provocando lo sconquasso dell’eurocrazia. Su Bruxelles in panne fioccano infatti le analisi soddisfatte d’Oltremanica e i continui rimbrotti su e contro i “PIGS”. (Abbiamo già accennato al significato di “pigs”. Come si sa gli anglosassoni e i loro cortigiani hanno il debole per gli acronimi: così il termine non certo “neutrale “pigs” (porci nella lingua d’Albione) accomuna le nazioni Ue “deboli” o inadempienti ai parametri di Maastricht sul rapporto debito-pil e sulla “stabilità forzata” decretata dalle elites burocratiche nell’articolo 125 del trattato di Lisbona: p come Portogallo, i come Italia, g come Grecia, s come Spagna, oltre al corollario di una possibile doppia i per includere anche l’Irlanda).

Vediamo di chiarire quanto accade. In tre mesi, da qui al 15 maggio, l’Ue dei “Sedici” dovrà mettere in esecuzione un piano di sostegno alla Grecia perché possa evitare la bancarotta. In questo trimestre Atene è chiamata a operare un prelievo forzoso dalle tasche dei suoi cittadini e a programmare una consistente riduzione dell’indebitamento. Bruxelles, come deciso dai ministri ecofin ed esplicitato dal commissario Olli Rehn, cercherà per parte sua di delineare un piano di aiuti finanziari per sostenere la Grecia. In quanto a cifre i dati sono più che conosciuti: nel 2010 il rapporto pil-indebitamento sarà per la Grecia pari al 121 per cento, con un deficit ulteriore di oltre 300 miliardi di euro.

Di fronte al disastro monetario greco, a Bruxelles si sta premendo sulla “locomotiva tedesca” perché guidi la “squadra di soccorso”. Ma per Berlino non è affatto un onore, questo, ma un onere difficilmente accettabile.

Sia perché è escluso dagli stessi elementi fondativi dell’unione monetaria europea (e dai dettati dei due trattati fondanti, Maastricht e Lisbona) che un Paese membro si faccia carico della stabilità dell’eurozona con accordi di sostegno a chi è in crisi. E sia perché la lenta ripresa tedesca difficilmente potrebbe sopportare nuovi carichi e zavorre esterne. D’altra parte, proprio per evitare tali ripercussioni, i padri fondatori di quel mostro che è l’Unione europea – un’eurocrazia non eletta, priva di sovranità, priva di unità politica - avevano delegato ad un ente terzo – la Bce - la politica monetaria dell’Europa dell’euro, per lavarsi le mani da ogni obbligo di direttiva economica.

E non è certo tutto. La possibilità di una reazione a catena che destabilizzi totalmente l’eurozona è appena dietro l’angolo.




Il Fondo monetario internazionale – che di usura monetaria se ne intende – di recente ha stilato la sua consueta pagella sui “Paesi cattivi del mondo” in quanto a stabilità monetaria ed ha indicato le varie necessità di “inasprimento fiscale”, nazione per nazione, al solo fine di mantenere lo status quo governando l’indebitamento. E’ interessante notare che in cima alle classifiche si ergano Gran Bretagna e Giappone, per i quali il Fmi propone inasprimenti fiscali, nel 2010, pari al 13% del pil. Seguono a ruota Irlanda, Spagna e Grecia (9%) e quindi gli Usa (8,8%). Per l’Italia si parla della “necessità di alzare le tasse” di un altro 8 per cento…

Già. Gli Usa. Gli “spendaccioni del mondo”, quelli che hanno riempito di carta-straccia (banconote), le casseforti cinesi e che veleggiano impavidi sull’onda di un deficit di 1500 miliardi di dollari che, con la cura Obama, accumula ulteriori 300 miliardi di interessi annuali da pagare. Con un surplus di emissioni statali in scadenza per un trilione di dollari all’anno (mille miliardi di dollari), difficilmente assestabili con un risparmio dei cittadini caduto dal 2008 a livelli infimi.

Gli Usa, quelli che da tempo immemore – la Grande Depressione – usano a loro piacimento i cambi del dollaro per abbassare i costi delle importazioni di materie prime o, al contrario, per far crescere la redditività delle proprie esportazioni di brevetti, royalties, beni e servizi…

Quelli che stanno lucrando in queste settimane appunto, sulla crisi dell’eurozona, attirando investitori e risparmi oltreoceano, grazie alla totale mancanza di sovranità nazionale ed economica europea. Il tallone di Achille, voluto, costruito a tavolino a Maastricht e quindi a Lisbona, per assoggettare “l’area di libero scambio” che qualcuno si affanna a definire “Europa” ai desiderata del momento degli Stati Uniti d’America. Una bancarotta greca val bene la sopravvivenza dei Padri Fondatori.


Di Ugo Gaudenzi, www.rinascita.info

L'Associazione Culturale Tyr Perugia invita a destinare il 5x1000 alla Comunità Solidarista Popoli.







La "Comunità Solidarista Popoli" è costituita da un gruppo di persone che, per desiderio e sentimento comuni, ha voluto creare una associazione di aiuto umanitario che indirizzi principalmente la propria azione a favore di popoli od etnie, che, in lotta per il mantenimento della propria identità, vivano in condizioni di particolare disagio.




E' scopo dell'associazione portare aiuti concreti a soggetti che si trovino in difficoltà a causa di guerre, calamità naturali od epidemie, con l'intenzione di operare autonomamente, al di fuori di qualsiasi condizionamento da parte di governi ed organizzazioni politiche.



La Comunità provvede infatti alla designazione degli obiettivi su cui concentrare i propri sforzi, con l'impegno altresì di informare gli aderenti, i sostenitori e l’opinione pubblica circa i particolari degli interventi proposti.



Il raggiungimento degli obiettivi passa attraverso il lancio di progetti umanitari (emergenze, lotta alla povertà) e di sviluppo (costruzione di ospedali, dispensari, scuole, centri di formazione professionale) che contribuiscano al miglioramento delle prospettive di vita delle stesse popolazioni che si trovano in situazioni di difficoltà.



La copertura finanziaria di tali progetti avviene attraverso auto finanziamento degli associati attuali e futuri, e tramite raccolte di fondi, da effettuarsi con l'organizzazione di manifestazioni di beneficenza, agendo quando possibile in sinergia con altre organizzazioni umanitarie regolarmente costituite che si trovino ad operare parallelamente agli obiettivi scelti dalla nostra Comunità.





Per destinare il 5 x 1000 alla Comunità Solidarista Popoli,

compilando il modulo per la dichiarazione dei redditi

indicate nel riquadro del Sostegno al Volontariato

il numero di codice fiscale / partita IVA della Onlus:



03119750234

mercoledì 24 marzo 2010

Giustizia per Gabriele Sandri.

Erano le ore 17.00 di sabato 13 marzo, nella Sala della Vaccara in Piazza IV Novembre, nel pieno centro storico di Perugia, la sala piena, tanti i ragazzi, molti di diversa fede politica, tutti intervenuti per partecipare alla presentazione del libro: “11 Novembre 2007, l’uccisione di Gabriele Sandri, una giornata buia della Repubblica” organizzata dall’Associazione Culturale Tyr.

Dopo Bari, Cagliari, Catania, Roma e altre città italiane, anche a Perugia, si è svolto un evento verità per tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica per i fatti accaduti quella maledetta domenica di novembre nell’Autogrill di Badia al Pino in provincia di Arezzo. Ecco una cronaca della giornata perugina.

La conferenza inizia e, a prendere la parola, comincia il dott. Maurizio Martucci, autore del libro, che dopo aver raccontato i fatti, puntualizzando che quella mattina dell’11 novembre 2007 non vi è stato nessuno scontro tra opposte tifoserie, continua sviscerando le dinamiche messe in atto dai mass-media nelle prime ore dell’accaduto per deformare gli avvenimenti. Tutti ricordiamo il primo lancio stampa dove si evinceva che il morto era dovuto a violenti scontri da stadio, nel secondo lancio di stampa invece si parla di colpi sparati in aria da parte delle Forze dell’Ordine. Ben cinque i testimoni che in fase dibattimentale al processo ad Arezzo hanno confermato senza mai contraddirsi le dinamiche dei fatti, ovvero che, l’agente scelto della Polizia di Stato Luigi Spaccarotella, braccia parallele all’asfalto, ha fatto fuoco nella macchina in movimento colpendo Gabriele Sandri al collo, a morte. Strano pensare che un tutore dell’ordine che dovrebbe tutelare la vita di un altro cittadino faccia tutto il contrario. Non stiamo parlando di testimonianze fatte da ultras o da amici di Gabriele ma parliamo di deposizioni fatte da persone normalissime come una guida turistica giapponese, tre commercialisti e una cassiera dello stesso Autogrill che, ad oggi, stranamente, è stata licenziata. Nonostante ricostruzioni e, appunto, queste testimonianze, il 14 Luglio del 2009, dopo otto ore di camera di consiglio, l’accusa di omicidio volontario allo Spaccarotella è stata derubricata in omicidio colposo. Dopo Maurizio Martucci a prendere la parola è Giorgio Sandri, il padre di Gabriele: “Aspettavamo il Processo d’Appello entro maggio 2010 e invece, proprio pochi giorni fa, ci hanno informato che il Tribunale di Arezzo, dopo otto mesi, non ha ancora trasmesso gli atti alla Corte di Firenze dove si terrà il Processo d’Appello”. Una strana volontà di allungare i tempi per questo appello che presumibilmente slitterà in autunno se non addirittura nel 2011. Intanto, Luigi Spaccarotella, non si è né mai fatto sentire né vedere ed è stato attualmente sospeso ricevendo l’80% dello stipendio… Dopo la conferenza, molte sono state le domande fatte dal pubblico intervenuto, il quale si è stretto intorno alla famiglia Sandri, auspicando che venga fatta piena giustizia per Gabriele. L’altro evento-verità per non dimenticare le ingiustizie, si è avuto la scorsa settimana, venerdì 19, a Frosinone presso la libreria Ubik in via Aldo Moro, 150.



Fabio Polese, www.rinascita.info

martedì 23 marzo 2010

Afghanistan. A Marjah il vero obiettivo era l’oppio.

I marines statunitensi e le truppe britanniche che si sono insediate nel distretto di Nad Alì e nella città di Marjah dopo l’imponente offensiva di febbraio – la più grande dall’invasione dell’Afghanistan nel 2001 – non contrasteranno la produzione di oppio e, anzi, impediranno alle autorità di Kabul di distruggere le piantagioni di papaveri nella regione appena conquistata. Dopo diverse indiscrezioni in proposito, la conferma è giunta dai reportage da Marjah del New York Times e del Miami Herald. “Noi non siamo venuti qui per sradicare i papaveri”, ha dichiarato il maggiore dei marines David Fennell al Miami Herald. Mentre il comandante Jeffrey Eggers, membro del gruppo di consulenza strategica del generale McChrystal, ha confermato al New York Times che “Marjah è un caso speciale. Noi non calpestiamo i mezzi di sostentamento di coloro che stiamo cercando di battere”.

La controversa decisione del comando Usa di non distruggere le piantagioni di papaveri dell’Helmand appena conquistata (l’Onu stima che la provincia da sola produca quasi il 60% dell’oppio afgano) non è piaciuta ad alcuni ufficiali afgani, che vorrebbero dare un segnale forte agli agricoltori che sostengono il narcotraffico. “Sono i talibani a trarre profitto dall’oppio – ha dichiarato Zulmai Afzali, portavoce del ministero Antinarcotici di Kabul – in questo modo finanziamo il nostro nemico”. Era stato lo stesso Afzali, pochi giorni prima, ad assicurare alla stampa che le autorità afgane avrebbero “distrutto le piantagioni di papavero di Marjah e Nadalì, perché la produzione di oppio è illegale”.

Tuttavia, già allora, era arrivata una prima smentita attraverso un esponente anonimo del governo di Kabul. La fonte aveva dichiarato a Irin News, l’agenzia giornalistica dell’Onu, che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, “il governo ha garantito (agli agricoltori ndr) che nessuna distruzione di piantagioni verrà effettuata a Marjah e Nadalì, almeno per quest’anno”.

Secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, che cita la testimonianza di un coltivatore, l’obiettivo sarebbe di attendere l’imminente raccolto per comprare l’oppio direttamente dai coltivatori e distruggerlo. In questo modo si priverebbero i talebani della principale fonte di finanziamento senza mettere in difficoltà gli agricoltori ai quali verrebbero poi offerte colture alternative.

Tuttavia, oltre al dichiarato tentativo di conquistare “i cuori e le menti” della popolazione locale – il Nyt scrive che oltre il 60% dei contadini della regione vive grazie all’oppio – in molti in Afghanistan sospettano che il vero scopo dell’operazione Mushtarak (e di quella in corso nella vicina provincia di Kandahar) sia stato proprio quello di permettere alle corrotte forze di sicurezza afgane di avere il controllo delle piantagioni di oppio in tempo per il raccolto.

“L’unico vero scopo dell’operazione Mushtarak – ha dichiarato a Peacereporter il giornalista locale Safatullah Zahidi – era mettere le mani sulle piantagioni di papavero da oppio. E quelle di Marjah e del suo distretto, Nadalì, sono le più grandi e produttive di tutto l’Afghanistan. Grazie all’operazione Mushtarak sono tornate sotto controllo del governo e degli americani giusto in tempo per il raccolto di marzo. E ora faranno lo stesso con le piantagioni della seconda principale zona di produzione di oppio, quella di Kandahar”.

Un’interpretazione condivisa anche dall’ex parlamentare Malalai Joya, che spiega: “L’obiettivo di queste operazioni militari non è quello di sconfiggere i talibani, che vengono regolarmente avvertiti prima in modo da poter fuggire altrove. I talibani e i terroristi servono agli americani per mantenere il mio Paese nell’insicurezza, così da avere un pretesto per rimanere in Afghanistan assicurandosi il controllo di questa regione strategica, vicina all’Iran, alla Cina e ai Paesi dell’Asia centrale ricchi di gas e petrolio, ma anche per continuare a fare affari con lo sporco business dell’oppio. Oppio che, trasformato in eroina, frutta enormi guadagni sia al governo afgano che alle forze americane, che portano la droga fuori dall’Afghanistan con i voli militari che decollano dalle basi aeree di Kandahar e di Bagram”.

“Quest’ultima offensiva in Helmand, che tra l’altro – sottolinea la Joya – ha causato molte più vittime civili di quelle pubblicamente dichiarate, è l’ennesima conferma di ciò: l’obiettivo non era colpire i talibani, che hanno avuto tutto il tempo di scappare, ma semplicemente riprendere il controllo della principale zona di produzione di oppio di tutto il Paese”.



Di Ferdinando Calda, www.rinascita.info

giovedì 18 marzo 2010

Caso Cucchi, una morte per abuso di potere.

Con la relazione della commissione parlamentare in merito alla morte in carcere di Stefano Cucchi si cerca di squarciare il velo d’ipocrisia e di omertoso silenzio attorno ad una vicenda scandalosa.Un ragazzo che finisce in galera per pochi grammi di hashish e che subisce violenza da parte di chi doveva garantire sulla sua incolumità non può passare sotto silenzio e rimanere impunito.

Siamo contro ogni forma di tortura soprattutto nelle carceri e contro ogni forma di violenza praticata da chi indossa una divisa e si sente per questo in diritto di picchiare selvaggiamente chi incappa nella loro rete. Ricordiamo il caso del ragazzo di Ravenna, Federico Aldrovandi picchiato a morte da quattro agenti senza motivo ma anche il caso dei fermati nel G8 di Genova del 2001 massacrati di botte alla scuola Diaz e alla caserma Bolzaneto. Le pene inflitte ai torturatori sono state molto lievi rispetto alla violenza praticata anche grazie alla copertura del governo di centrodestra di Berlusconi e Fini.  

Ma torniamo alla relazione Marino sulla morte di Cucchi. La relazione parla di inefficienza e di inappropriatezza delle cure prestate al ragazzo finito in ospedale dopo diversi giorni passati in carcere. Sarebbe dunque morto, dopo appena una settimana di ricovero all’ospedale Pertini di Roma, per disidratazione ma dalla relazione si evince che Cucchi ha probabilmente subito delle lesioni causate dalla violenza di chi doveva garantirne l’incolumità. La commissione presieduta da Marino del Pd sancisce quindi la responsabilità dei medici che invece di curarlo lo hanno abbandonato a sé stesso, lasciandolo morire senza degnarsi di dargli quella assistenza doverosa. “Siamo arrivati -si legge nella relazione- a conclusioni molto chiare: a Stefano Cucchi, probabilmente, sono state inferte lesioni traumatiche che non sono la causa diretta della morte che è avvenuta per disidratazione legata alla volontà di Cucchi di richiamare su di sé l'attenzione dei suoi legali e del mondo esterno”. Quindi le violenze sul giovane finito in carcere per una manciata di grammi di hashish sono chiaramente evidenziate dalla relazione della commissione parlamentare. Ora spetterà ai magistrati individuare i responsabili di questa violenza. E’ avvenuta nella caserma dei carabinieri dove il ragazzo era stato portato o è avvenuta in carcere? Stando alle varie testimonianze a mezza bocca è molto probabile che le violenze siano state inferte nel penitenziario romano.  

“Sono molto soddisfatta perché la relazione parla chiaro: Stefano è stato vittima di un vero pestaggio”, così si è espressa Ilaria Cucchi, sorella del ragazzo massacrato di botte. Speriamo che i responsabili paghino presto per porre fine a questo abuso di potere che spesso si registra per strada e nelle carceri.



Di Michele Mendolicchio, www.rianscita.info

martedì 16 marzo 2010

PERUGIA RICORDA GABRIELE SANDRI.





Sabato 13 Marzo alle ore 17.00,  nella sala della Vaccara, in piazza IV Novembre a Perugia, l´Associazione Culturale Tyr ha organizzato un evento verità presentando il libro "11 Novembre 2007 l'uccisione di Gabriele Sandri, una giornata buia della repubblica" con Maurizio Martucci, l´autore del libro e Giorgio Sandri, il padre di Gabriele. Più di cinquanta persone sono intervenute all´evento, a significare che neanche a Perugia si è disposti a dimenticare quello che è accaduto quella tragica domenica dell´11 Novembre 2007. Dopo una breve introduzione di Fabio Polese per l'Ass. Cult. Tyr, Maurizio Martucci  ha iniziato subito la presentazione del libro, esponendo i fatti avvenuti e soprattutto sviscerando le dinamiche messe in atto dai mass-media nelle prime ore dell´accaduto per deformare gli avvenimenti. Subito dopo ha preso la parola Giorgio Sandri che ci ha spiegato di come il processo d´appello sarà ulteriormente rinviato - doveva presumibilmente essere fatto entro Maggio 2010 -  in quanto il tribunale di Arezzo - dove si è svolta la sentenza di primo grado - non ha ancora inviato i fascicoli al Tribunale di Firenze - dove si svolgerà il processo di appello. Dopo la conferenza, numerose sono state le domande da parte del pubblico, il quale si è stretto intorno alla famiglia Sandri,  auspicando che venga fatta piena giustizia per Gabriele.


Un grazie particolare ai tutti i ragazzi intervenuti.


Associazione Culturale Tyr Perugia

controventopg@libero.it



Washington paga i contractor per la guerra segreta in Pakistan.

Il governo statunitense ha finanziato, almeno fino a poco tempo fa, una rete (segreta e illegale) di contractor privati per scovare e uccidere i capi talibani o i presunti terroristi di al Qaida in Afghanistan e in Pakistan. Lo ha rivelato ieri il New York Times, citando fonti militari e uomini d’affari in Afghanistan e negli Stati Uniti. Secondo quanto riferisce il quotidiano, gli agenti privati – in larga misura ex agenti Cia o delle forze speciali nordamericane – provenivano da compagnie private per la sicurezza e avevano il compito di raccogliere informazioni per individuare campi di addestramento e presunti insorti, informazioni che poi venivano inviate alle strutture militari e di intelligence Usa per il coordinamento degli attacchi. A istituire la struttura clandestina sarebbe stato, in un momento non precisato, Michael Furlong, un alto funzionario del dipartimento della Difesa Usa, attingendo ai fondi per un programma dell’US Strategic Command per la raccolta di informazioni sulla struttura cultura tribale e politica della regione, di cui era ufficialmente a capo dal 2008.

Non è un mistero che la Cia e le forze militari Usa compiano bombardamenti con gli aerei senza pilota nella regione tra l’Afghanistan e il Pakistan (con grande imbarazzo e fastidio da parte di Islamabad), tuttavia la Casa Bianca non ha mai ammesso la propria presenza in territorio pakistano (nonostante a febbraio scorso tre militari Usa abbiano perso la vita in un attentato nel nord-ovest del Pakistan, vicino a una scuola nel Lower Dir). Inoltre, come ricorda il New York Times, ufficialmente negli Stati Uniti l’impiego di contractor come agenti sotto copertura impiegati dai militari non è considerato lecito. Per questo motivo, le fonti sentite dal quotidiano statunitense hanno voluto sottolineare che la rete di spionaggio messa in piedi da Furlong non sarebbe più attiva, e che il funzionario è sottoposto a una inchiesta penale da parte del dipartimento alla Difesa, in quanto sospettato di aver compiuto diversi reati, tra i quali frode contrattuale. Tuttavia, lo stesso New York Times scrive che ancora non è ancora chiaro se l’operato di Furlong avesse l’approvazione o meno degli alti comandi di Washington. Di sicuro c’è che i contractor di Furlong sarebbero stati operativi sul territorio da diverso tempo, poiché, da quanto si apprende dalle pagine del quotidiano, nel 2009 la rete di contatti che questi ultimi erano riusciti a costruire in Afghanistan e Pakistan era già molto diffusa. Già alla fine del 2009 il giornale The Nation aveva rivelato le attività dei contractor in Pakistan. In particolare, il periodico, citando una “fonte altolocata nell’apparato dell’intelligence militare”, spiegava che “agenti di una divisione d’elite della Blackwater (sotto il nome di Xe Service ndr) sono al centro di un programma segreto in cui pianificano assassinii mirati, azioni mordi e fuggi contro obiettivi importanti ed altre azioni segrete all’interno ed all’esterno del Pakistan”.



Di Ferdinando Calda, www.rinascita.info

venerdì 12 marzo 2010

Domani Sabato 13 Marzo ore 17.00 Perugia - EVENTO VERITA' PER GABRIELE SANDRI.





Sabato 13 Marzo - Ore 17.00

SALA DELLA VACCARA - PIAZZA IV NOVEMBRE - PERUGIA



Presentazione del libro: "11 Novembre 2007 l'uccisione di Gabriele Sandri, una giornata buia della repubblica"



Con:



GIORGIO SANDRI - Padre di Gabriele

AVV. CRISTIANO SANDRI - Fratello di Gabriele

DOTT. MAURIZIO MARTUCCI - Autore del libro

FABIO POLESE - Ass. Cult. Tyr Perugia



Info: controventopg@libero.it

ENTRO UN MESE RISORGERA' LA CLINICA "CARLO TERRACCIANO".

Si è conclusa da poche ore una nuova missione congiunta di "Popoli" e "L'Uomo Libero" nella regione Karen. I volontari riportano buone notizie, dopo un anno e mezzo in cui avevamo dovuto registrare numerosi avvenimenti drammatici. Dopo essere stati testimoni della rioccupazione di diverse aree nel distretto di Dooplaya, avvenuta nelle prime settimane di febbraio da parte degli uomini del colonnello Nerdah Mya, abbiamo potuto assistere alla toccante scena di numerosi profughi interni che, lasciati i loro ripari di fortuna e i nascondigli in cui si erano rifugiati dopo l'arrivo delle truppe birmane e dei partigiani collaborazionisti del DKBA, chiedevano di potersi stabilire nelle vicinanze del campo militare allestito dal Karen National Liberation Army, per poter godere della protezione della resistenza patriottica. Così, mentre un medico di "Popoli" visitava i profughi sotto una tenda, i responsabili del Dipartimento della Sanità e del Welfare dell'Unione Nazionale Karen raccoglievano i dati delle famiglie in cerca di una sistemazione. Grazie al generosissimo e immediato intervento di una coppia di amici italiani che hanno preso a cuore la sorte di questi profughi e hanno chiesto di non essere menzionati, i lavori di ricostruzione di un villaggio che era stato bruciato dai birmani diversi mesi fa sono iniziati lo stesso giorno, precisamente il 3 marzo. Questi amici hanno donato una cifra che copre l'intera spesa della realizzazione dell'insediamento e della riattivazione di un pozzo per l'acqua. Gli uomini delle "Special Black Forces" hanno ripulito la zona dalle mine antiuomo che i soldati di Rangoon avevano lasciato attorno ai resti del villaggio per impedire il ritorno degli abitanti, e hanno iniziato a lavorare per realizzare le prime delle 12 abitazioni previste nella fase uno del progetto. Contemporaneamente, i guerriglieri hanno affisso nella zona e in diversi villaggi del distretto dei manifesti che inneggiano all'unità del popolo Karen e alla doverosa resistenza contro l'invasore birmano a difesa dei civili. La presenza dell'Esercito di Liberazione (che sta prendendo posizione in diversi punti strategici del distretto) ha quindi dato coraggio ai profughi che fino a pochi giorni fa non avevano alcuna speranza di tornare ad una vita normale: ora invece si apre anche la possibilità di lavorare dei terreni per procurarsi il cibo e rendersi autosufficienti. Nello stesso villaggio, sul quale al momento non forniamo informazioni più precise per ragioni di sicurezza, entro qualche settimana risorgerà una clinica dedicata alla memoria di Carlo Terracciano, come avevamo annunciato poco dopo la distruzione della precedente struttura intitolata all'amico e maestro. L'assistenza ai profughi della zona non era mai venuta meno del tutto: anche durante l'occupazione birmana dell'area, i team formati dagli infermieri di "Popoli", dotati di zaini riempiti di farmaci e strumenti, hanno cercato per quanto possibile di raggiungere il maggior numero di civili nascosti nella giungla. Adesso il lavoro dei "medics" potrà svolgersi con più continuità, e soprattutto con una maggiore sicurezza, garantita dai volontari dei corpi franchi di Nerdah Mya. Buone notizie, quindi, anche se, come ben sappiamo, la situazione nella regione Karen resta di estrema gravità. L'esercito birmano non ferma gli attacchi contro gli obiettivi civili: una pratica infame che dovrebbe imporre alle diplomazie una intransigente presa di posizione nei confronti della giunta militare con cui si sta trattando in vista delle annunciate ma ancora non programmate elezioni. Proprio ieri, l'Unione Nazionale Karen ha chiesto al Segretario Generale dell'O.N.U. di porre come condizione alla continuazione di un dialogo con il regime di Rangoon la cessazione immediata da parte dei Generali di ogni attività militare contro la popolazione civile. Una richiesta che sarà a breve inoltrata anche all'inviato speciale per la Birmania dell'Unione Europea.



www.comunitapopoli.org

giovedì 11 marzo 2010

L’agricoltura rischia la chiusura.

Un’azienda agricola italiana su tre potrebbe essere costretta a chiudere l’attività a causa delle grandissime difficoltà che da tempo attanagliano il settore. Si tratta di una vera e propria emergenza. Da un lato ci sono costi produttivi, contributivi e burocratici in aumento, costi fissi e ineludibili. Dall’altro ci sono i bassissimi prezzi di vendita che agli agricoltori sono imposti dai grandi commercianti o dalla grande distribuzione e che non permettono di sopravvivere. Si tratta di una questione antica che adesso si evidenzia in tutta la sua drammaticità. I prezzi sui campi sono infatti in caduta libera e questo ha provocato un crollo record dei redditi. Di conseguenza sei aziende su dieci lavorano in perdita e il 96,3% ritiene totalmente insufficienti i provvedimenti varati negli ultimi due anni per l'agricoltura. Il grave è che il 34,8% degli imprenditori sia scoraggiato e abbia manifestato l’intenzione di abbandonare addirittura l'attività produttiva.

L’indagine svolta dalla Cia, Confederazione italiana agricoltori, sull'intero territorio nazionale, offre uno spaccato scoraggiante sul livello di fiducia degli imprenditori agricoli davanti alla crisi in atto che ha penalizzato e aggravato ulteriormente lo stato del settore. Il 95,6% delle aziende è convinto la crisi si protrarrà a lungo e che difficilmente si riuscirà a superare prima di tre o quattro anni. Anche perché il 75% è penalizzata da difficoltà nell’ottenere credito dalle banche che hanno chiuso i rubinetti. La realtà vera è che in moltissime aziende si produce sottocosto. Nel mercato dei cereali, ad esempio, i prezzi sono diminuiti anche del 20%. Per il grano duro il crollo è stato del 40-45%. Ed è notte fonda anche per gli altri comparti, dalla vitivinicoltura all'ortofrutta, dall'olivicoltura alla zootecnia, fino al lattiero-caseario.



Di Filippo Ghira, www.rinascita.info

mercoledì 10 marzo 2010

martedì 2 marzo 2010

La guerra che non c`è.

Quando si nasconde una guerra, le contraddizioni alla fine vengono alla luce. Quando si ammanta una “guerra preventiva” con ideali umanitari e invece è da subito evidente che i primi a non rispettare le vite umane sono le autoproclamatesi truppe del bene, il primo sentimento è l’indignazione. Quando si comprende che “la guerra del bene contro il male” non è vinta, bisogna prenderne atto e trarne le più immediate conseguenze. Se a capo delle truppe del bene per gestire lo “scontro fra civiltà” viene piazzato “l’uomo della speranza” ma poi il gioco al massacro non cambia affatto, anzi diventa addirittura più sanguinario, allora anche coloro che sono i più sprovveduti cominciano a porsi delle domande. Quando si continuano a massacrare innocenti e a proclamare come eroi gli stessi rappresentanti delle aggressive truppe del bene, l’ipocrisia rischia di toccare il tetto massimo. Quando un funzionario della presidenza del Consiglio, un cosiddetto agente dei servizi segreti italiani, muore in un attacco dei talibani è sicuramente lecito pensare che sia morto “un fedele servitore dello Stato, che stava compiendo il suo dovere”. Ma è ancora più doveroso cominciare a dubitare della buona fede del governo che lo ha mandato lì, a Kabul, a sostegno di una sanguinosa guerra preventiva. Se poi il presidente del Consiglio dello stesso governo sostiene che l’Italia continuerà ad opporsi alla violenza, allora dalla retorica si cade inevitabilmente nella tragedia del ridicolo. Sono ventidue gli italiani morti, negli ultimi cinque anni e mezzo in Afghanistan, ed è una guerra cominciata nel 2001. A fronte delle vittime italiane se ne contano a migliaia fra i civili afgani. La matematica non è un’opinione e la violenza, quella della Nato che massacra inutilmente i civili o impedisce ai feriti di arrivare in ospedale finché morte non sopraggiunga, chiama come minimo altra violenza. L’occupazione genera resistenza.



Di Carlo Lupo, www.rinascita.info

L'equivoco nucleare.

Riceviamo e pubblichiamo l'editoriale de Il Martello di Marzo.



Una pericolosa deriva – tra le tante – caratterizza la nostra società. Parliamo di quella sorta di giustizialismo preventivo che nasce sui media e finisce per veicolare l’opinione pubblica. Tale deriva possiede i tratti tipici che contraddistinguono il colpevole ruolo svolto dal giornalismo nel mondo moderno: si fonda sull’approssimazione, sulla spettacolarizzazione di ogni evento, sull’omissione e sulla parzialità nell’esposizione dei fatti, si sviluppa infine colpendo l’emotività dei fruitori e rifuggendo ogni tentativo più profondo d’analisi. E’ ormai un metodo giornalistico largamente diffuso, che si tratti di cronaca nazionale o di geopolitica. Si insinua laddove una certa lobby di potere che tira i fili dell’informazione desideri colpire un obiettivo, pronunciandogli contro una sentenza di condanna anticipata e crudele. Si insinua in Italia avvalendosi del diabolico, ormai palese connubio magistratura-informazione: la prima si occupa di avviare inchieste verso persone già fatte preventivamente oggetto di campagne giornalistiche diffamanti, la seconda si prodiga nel demolire definitivamente il profilo pubblico di costoro trasformando l’avviso di garanzia in condanna incontrovertibile, traducendo l’ipotesi di reato in criminalizzazione preventiva, in modo tale da rendere vana ogni successiva eventuale pronuncia d’assoluzione. Questa marcia struttura mediatica italiana è pertanto il riflesso di quanto avviene in ambito geopolitico, con la differenza che gli oggetti di questo sciacallaggio non sono singoli uomini bensì interi governi. In tal senso l’esempio oggi più attuale è relativo alla campagna dei media all’indirizzo dell’Iran, ferocemente colpito dall’odio quotidiano vomitatogli addosso da giornali e TV occidentali. Se fossimo dei fruitori d’informazione approssimativi, che considerano verità incontestabile ogni notizia elargita dai media di massa, saremmo convinti di trovarci al cospetto di una tirannia efferata, oltre che di un minaccioso Stato bellico che sta ultimando una bomba atomica da lanciare addosso a noi, pacifici ed inoffensivi cittadini del mondo occidentale. Ma, graziaddio, non riteniamo di essere approssimativi e rifiutiamo categoricamente ogni “verità” che ci viene imposta attraverso questo metodo. La sete di ricerca, dunque il rifiuto di attenerci a quanto propinato dai media di massa, ci fa affermare con convinzione questo postulato: le “verità” relative all’Iran si fondano principalmente su calunnie e ipocrisia. Innanzitutto va sgomberato il campo dalla favola dei brogli elettorali e del mancato consenso popolare, sfociato in quella cosiddetta “rivoluzione verde” che la polizia iraniana reprime nel sangue. Ebbene, credere che eventuali brogli possano aver spostato una mole di voti pari al 62,64% (tale è la percentuale di consenso elettorale di Ahmadinejad) è un insulto all’intelligenza umana, peraltro nessun osservatore internazionale ha potuto registrare con tanto di prove movimenti rilevanti in questo senso. L’Iran sottaciuto, la maggioranza del paese, è quello della gente semplice, radicalmente legata a valori che noi consideriamo vetusti (e questa presunzione è la nostra condanna a scomparire come popolo, fondendo l’ordine nel caos del melting pot); questa gente non persegue il consumismo ma l’armonia spirituale, non adora il danaro ma Dio. Ma questa gente non è neanche stupida, tutt’altro. La propria osservanza religiosa non la irrigidisce in modo ottuso, anzi gli concede una serenità di giudizio scevra da condizionamenti superflui: essa non apprezza l’impostazione occidentale, costruita, di un politico; essa rifugge l’uso smodato dei mezzi tecnologici. Al contrario, essa apprezza il proprio leader Ahmadinejad poiché ne comprende l’autenticità, la capacità di saper comunicare anche col popolo delle campagne con schiettezza e senza snobismi. Apprezza i fatti, la politica sociale dell’attuale governo che consiste, per esempio, nell’accesso alle cure mediche gratuite, nell’aumento degli stipendi e delle pensioni. Il vero Iran, celato agli occhi di noi occidentali, cioè la maggioranza del paese, sta dalla parte del suo governo e lo dimostra attraverso oceaniche adunate - sapientemente ignorate dalle telecamere dei nostri TG e dall’inchiostro dei nostri giornali - in favore del proprio governo e del proprio Ayatollah Khamenei, una sorta di guida suprema di carattere spirituale. Gli Iraniani sono entusiasti ed orgogliosi del proprio governo, a parte una minoranza di essi, seppur rumorosa e distruttrice, reale minaccia dell’ordine sociale e per questo perseguitata dagli organi di polizia (uno Stato che si difende possiede l’imprimatur della legittimità soltanto quando i pericoli interni si chiamano ultras, brigate rosse, eversivi neri? Quando orde di verdi fanatici bruciano moschee, spaccano vetrine ed automobili a Teheran lo Stato non deve forse intervenire in modo netto?). Quella minoranza ci viene fatta passare dai media, attraverso la tendenza ad alterare la veridicità degli eventi, per voce di popolo e per vittima del sistema. Sciolto ogni dubbio relativo alle questioni interne iraniane, va fatto altrettanto riguardo le questioni esterne o, per meglio dire, riguardo la questione esterna per antonomasia: l’ipotetica minaccia nucleare, presumibilmente avvalorata dalle solenni accuse di Ahmadinejad verso Israele. E’ bene fornire un’essenziale informazione che vergognosamente nessun giornalista rileva, facendoci così pensare che l’Iran, se non domani, al massimo dopodomani avrà pronta la bomba atomica. La notizia consiste nel fatto che per avviare la costruzione del nucleare militare è necessario un arricchimento dell’uranio all’80%, mentre l’Iran non è ancora in grado nemmeno di arricchirlo al 20%, limite indispensabile per gli usi civili. E di sviluppare un nucleare civile l’Iran ha diritto, in quanto paese firmatario del trattato di non-proliferazione (Il trattato proibisce agli stati firmatari "non-nucleari", ovvero che non possiedono armi nucleari, di procurarsi tali armamenti e agli stati "nucleari" di fornir loro tecnologie nucleari belliche). Ricordiamo che Israele, l’agnellino vittima delle minacce di lupo Ahmadinejad, non ha invece voluto firmare questo trattato (ma quali sarebbero poi queste pericolose minacce, a parte i travisamenti giornalistici? La denuncia dell’ipocrisia di uno stato confessionale, perennemente in guerra, fondato sull’etnocrazia, per giunta arrecante il diritto di dare lezioni di moralità? Beh, minacce sacrosante allora!). Del resto l’Iran ha recentemente consegnato all’AIEA (autorità internazionale nucleare) una proposta flessibile e ragionevole, tale da garantire la propria volontà ad arricchire uranio per fini esclusivamente civili. Eppure gli USA (influente paese membro dell’AIEA) hanno già bollato come “non interessante” questa proposta, senza degnare l’Iran di alcuna spiegazione né dimostrandosi minimamente propensi al dialogo ed alla ricerca di una soluzione pacifica della questione. Ai media nostrani basterebbe riportare queste brevi ma indicative notizie sull’Iran, basterebbe descrivere dunque l’oggettività, per evitare di comportarsi, loro sì, da stampa di regime. Ma un simile atteggiamento presuppone una condizione necessaria che evidentemente latita: il coraggio. La mancanza di coraggio può costar cara: nel 2003, prima dell’attacco all’Iraq, quasi nessuno, dato il quotidiano lavaggio del cervello dei media, osava pensare che Saddam Hussein non possedesse in realtà armi di distruzioni di massa, che quella fosse soltanto una campagna mediatica americana per giustificarne l’imminente attacco militare. Poi, un bel giorno, a guerra in Iraq ormai iniziata da un bel pezzo e a Saddam Hussein ucciso, il Segretario di Stato Americano Colin Powell fu costretto a fare ciò che gli americani amano chiamare outing: privo di uno straccio di prova, ammise esplicitamente che le scrupolose ricerche delle autorità internazionali non avevano portato al ritrovamento di alcuna arma di distruzione di massa in possesso del regime iracheno, di conseguenza ammettendo, stavolta implicitamente, che le presunte prove sbandierate dai media occidentali erano dei falsi grotteschi e - dati gli effetti: centinaia di migliaia di morti - criminali. Ecco, auspichiamo che questa recente vicenda, sempre legata al binomio Occidente-Medio Oriente e sempre fondata sulle menzogne, non venga imitata. Gli effetti di una nuova “missione di pace” potrebbero essere catastrofici, anche perché USA ed Israele, loro sì, hanno in serbo armi atomiche (Do you remember Enola Gay?). E noi non perseguiamo alcuno scenario apocalittico che faccia da preludio all’avvento del messia…



Associazione Culturale Zenit

lunedì 1 marzo 2010

MORTAIO BIRMANO CONTRO UNA SCUOLA.

Villaggio di Ta U Plaw, distretto di Papun. 353 abitanti, tutti civili fuggiti dai loro originari insediamenti per non essere deportati dall'esercito birmano in aree controllate dal regime di Rangoon. Una scelta difficile. Una scelta di libertà che implica una vita sul filo del rasoio: famiglie pronte in ogni momento a lasciare anche queste capanne di corsa, all'arrivo dei soldati, una dieta alimentare basata su riso e sale e qualche verdura raccolta nella foresta, il rischio quotidiano rappresentato dai sentieri minati, dalle malattie endemiche, malaria in primis. Sono moltissimi i Karen che compiono questa scelta. Quasi mezzo milione di persone che preferiscono affrontare la dura vita della foresta piuttosto di consegnarsi all'invasore, ed essere assimilati in una “nuova società” o, come la chiamano i ricchi generali birmani, in una “fiorente democrazia disciplinata”. Sono le 9.00 del mattino del 19 febbraio. Roe Bee Moo, 16 anni, è nella piccola scuola di bambù assieme ad altri ragazzini impegnati negli esami. Perché i Karen, anche in condizioni di estrema difficoltà ed emergenza, cercano di mantenere una vita normale, e per il loro rigoroso senso etico l'educazione dei più giovani è considerata una priorità. La scuola trasmette valori tradizionali, fa capire ai più giovani cosa significa appartenere al loro popolo e cerca inoltre di dotarli di conoscenze che forse un domani, se il paese sarà libero, consentiranno loro di accedere a studi superiori. Sulle colline circostanti il villaggio arrivano i soldati del 7° Military Operation Command, gli sgherri che hanno il compito di terrorizzare i Karen per indurli alla resa. Oggi hanno un lavoro di routine: un colpo di mortaio, magari due, nei villaggi che visitano, così, tanto per “tenere sulla corda” quei cocciuti selvaggi, così attaccati alla loro terra. Il proiettile fora il tetto di foglie della scuola, tocca il terreno ed esplode. Molti alunni sono ancora fuori, in attesa del loro turno di interrogazione. Le schegge feriscono tre ragazzini. Vengono trasportati alla clinica della Comunità Solidarista Popoli di Kay Pu, dopo un viaggio in amache legate a grossi bambù sostenuti da portatori, le Jungle Ambulances. Per due di loro non ci sono grossi problemi: vengono visitati e soccorsi dai “medics.” quella via di mezzo tra infermieri e dottori che cerchiamo di formare grazie ai training che i nostri medici tengono durante le missioni. Eh Kaw Thaw, 12 anni, e Ree Re, 10, hanno ferite alla mano e alla gamba destra. Sono ora ricoverati. Per Roe Bee Moo (nella foto) la situazione è più grave. Una scheggia di metallo è entrata nel fianco destro, in profondità, e la clinica non ha strumentazione adeguata per poterla localizzare con sicurezza. Impossibile intervenire: i medici decidono di trasferirlo in un'altra struttura, dove, pare, ci siano mezzi più adeguati. Ma nella giungla è così. Strumenti che da noi sono di uso comune, qui devono riuscire a passare inosservati dai controlli di polizia di frontiera tailandese, percorrere per giorni e giorni i sentieri, guadare fiumi e torrenti, e una volta giunti a destinazione affrontare le dure condizioni ambientali, polvere nella stagione secca, umidità continua in quella dei monsoni. Così, anche nella seconda clinica Roe Bee Moo non può essere aiutato. La macchina non funziona. All'arrivo alla terza clinica, un giorno e mezzo dopo essere stato ferito, è già in condizioni disperate. Muore alle 3 del mattino del 21 febbraio.



www.comunitapopoli.org