Una lucida analisi, presa dal quotidiano "Rinascita", tratta da Best Before edito da Macro Edizioni.
La globalizzazione deve essere considerata come una conseguenza del turbocapitalismo. Con questo termine si individua una miscela esplosiva fatta da capitali presi a prestito a bassi tassi di interesse ed un mare di strumenti finanziari derivati presenti sul mercato. Questa miscela funziona proprio come il protossido di azoto nelle automobili da corsa: una volta iniettato nel motore, fa raggiungere performance strepitose. Tuttavia il protossido d’azoto può anche causare l’esplosione del motore se usato in maniera irresponsabile o soprattutto per un tempo eccessivo alla tolleranza meccanica e termica del motore. Immaginate pertanto la globalizzazione come il raggiungimento di elevata velocità per un motore (sistema capitalistico) in cui viene iniettato il protossido d’azoto (capitali di debito a tassi bassi e strumenti di copertura finanziari). Il motore può girare con performance da capogiro per qualche decina di minuti, dopo deve essere completamento smontato e rettificato. Se l’alimentazione a protossido d’azoto si protrae per oltre i dieci minuti, potete tranquillamente aspettarvi l’esplosione della testata dei cilindri. Quindi per analogia come il protossido d’azoto crea conseguenze al motore di un’auto sportiva, allo stesso modo la globalizzazione crea conseguenze al sistema economico, conseguenze che in alcuni casi possono assomigliare all’esplosione della testata dei cilindri. Nel nostro caso, le conseguenze colpiscono tre sfere tra loro differenti: quella economica, finanziaria e sociale. Vediamo per iniziare quelle economiche. La globalizzazione rappresenta uno stadio terminale in quanto sta portando il sistema economico odierno al collasso industriale e finanziario. Questa affermazione può sembrare molto forte da udire, ma lasciatemi fornire le dovute spiegazioni ed alla fine converrete con me sul raggiungimento di questa conclusione. La globalizzazione a dispetto del capitalismo classico è fautrice di enormi sperequazioni sulla ricchezza prodotta, vale a dire che quest’ultima non viene suddivisa e distribuita in maniera proporzionata a chi ha contribuito a crearla. Attenzione: non che il capitalismo classico sia indenne da critiche, ma rimane tutt’oggi il sistema economico in grado di creare la maggiore diffusione di benessere e prosperità a fronte di limitati episodi di sfruttamento. Si deve al sistema capitalistico classico la nascita della media borghesia: la classe sociale che rappresenta la componente sociale trainante per la crescita di ogni nazione. La globalizzazione, invece, accentua profondamente questa sproporzione e disomogeneità, arrivando a creare solo due classi sociali: i molto ricchi (una minoranza) ed i molto poveri (la maggioranza), sopprimendo lentamente, per le conseguenze economiche e sociali che derivano, proprio la classe media borghese. Con la globalizzazione, i grandi stabilimenti ed i posti di lavoro vengono trasferiti in aree del globo terrestre in cui la manodopera è particolarmente più a buon mercato. Successivamente l’output produttivo (beni, prodotti, merci) di questi stabilimenti industriali delocalizzati viene importato proprio nel stesso paese in cui gli stabilimenti industriali sono stati chiusi e trasferiti. Questo processo non crea ricchezza: quanto piuttosto sperequazione. Infatti non si arricchisce nessuno, se non le multinazionali ed i gruppi industriali artefici di queste ristrutturazioni aziendali. Nel paese di origine, migliaia di lavoratori vengono privati del loro posto di lavoro iniziale, e nel paese in cui la produzione è stata trasferita, migliaia di nuovi lavoratori vengono sfruttati a fronte di un salario ridicolo. Entrambi questi paesi sono uno legato all’altro, entrambi questi paesi sono destinati a collassare. Il primo, quello originario, a causa di una progressiva perdita di capacità di consumo dovuta ad una sensibile contrazione del tenore reddituale (che diventa saltuario o a singhiozzo). Il secondo paese, quello sfruttato per la manodopera locale, percepisce un iniziale lieve miglioramento grazie ai posti di lavoro trasferiti, ma rimane il fatto evidente che la sua popolazione non ha la capacità di spesa del primo. Questo determina un vero e proprio effetto stile protossido d’azoto, in quanto le grandi aziende che hanno delocalizzato aumentano semestre dopo semestre i loro profitti (in quanto vengono abbattuti i costi di manodopera). I ricavi di vendita, tuttavia, trovano manifestazione economica ancora e solo nel paese originario, in quanto il mercato interno del paese in cui si è delocalizzato non è in grado di assorbire merci o prodotti per mancanza di una classe sociale sufficientemente abbiente. Nel frattempo, e questo è un fenomeno molto lento e progressivo, il paese originario vede ridursi proprio la sua capacità di consumo interno, in quanto fenomeni sociali come il lavoro precario o l’impiego a singhiozzo (che hanno sostituito i posti di lavoro delocalizzati) iniziano a compromettere il tenore reddituale medio della classe media borghese. Inizialmente pur di continuare a consumare come prima, si inizia ad indebitarsi per sopravvivere (e non per fare investimenti). In seguito quando il sistema diventa saturo e quei pochi stipendi rimasti sono già spesi ancora prima che siano accreditati, allora inizia il conto alla rovescia: il default dell’intero paese. Se ci pensate tutto questo sta accadendo anche all’Italia, la quale nel momento in cui scrivo si sta gongolando per un PIL al 2 % (dopo quattro anni di stasi ed una media europea del 2,5 %). C’è una spiegazione a questo dato: il ricorso al debito attraverso finanziarie e società di microcredito ha contribuito ad aumentare il valore dei servizi erogati dal Sistema Italia. Pensate che, solo negli ultimi due anni, il PIL è stato sostenuto dall’erogazione di mutui ipotecari con un peso di quasi il 20 % ! Il punto chiave quindi per comprendere il pericolo della globalizzazione, è proprio il processo di depauperazione di uno stato a vantaggio di un ristretto gruppo di lobbies industriali e bancarie volto alla massimizzazione dei profitti. L’essenza è tutta qui. Non si è arricchito nessuno, né il paese che ha subito la chiusura degli stabilimenti e né il paese che li ha visti aprire: ci ha spudoratamente guadagnato solo chi ha spostato la produzione e importato i prodotti con un margine di guadagno in certi casi anche triplicato. Ecco spiegato perché le borse salgono: vedono fior di aziende fare grandi utili e pertanto in futuro si aspettano un flusso di dividendi sempre maggiori. Purtroppo si sbagliano. Questo livello di utili elevati non è destinato a durare molto, in virtù del progressivo indebitamento ed incapacità di consumo che la globalizzazione indirettamente causa sui mercati in cui si intende riversare le merci ed i beni prodotti con un artificioso ed ingannevole espediente produttivo. Non può durare a lungo proprio perché i paesi poveri producono per la richiesta di quelli ricchi che lentamente perdono il loro stato di benessere borghese in virtù della perdita dei siti di produzione al loro interno.
La globalizzazione deve essere considerata come una conseguenza del turbocapitalismo. Con questo termine si individua una miscela esplosiva fatta da capitali presi a prestito a bassi tassi di interesse ed un mare di strumenti finanziari derivati presenti sul mercato. Questa miscela funziona proprio come il protossido di azoto nelle automobili da corsa: una volta iniettato nel motore, fa raggiungere performance strepitose. Tuttavia il protossido d’azoto può anche causare l’esplosione del motore se usato in maniera irresponsabile o soprattutto per un tempo eccessivo alla tolleranza meccanica e termica del motore. Immaginate pertanto la globalizzazione come il raggiungimento di elevata velocità per un motore (sistema capitalistico) in cui viene iniettato il protossido d’azoto (capitali di debito a tassi bassi e strumenti di copertura finanziari). Il motore può girare con performance da capogiro per qualche decina di minuti, dopo deve essere completamento smontato e rettificato. Se l’alimentazione a protossido d’azoto si protrae per oltre i dieci minuti, potete tranquillamente aspettarvi l’esplosione della testata dei cilindri. Quindi per analogia come il protossido d’azoto crea conseguenze al motore di un’auto sportiva, allo stesso modo la globalizzazione crea conseguenze al sistema economico, conseguenze che in alcuni casi possono assomigliare all’esplosione della testata dei cilindri. Nel nostro caso, le conseguenze colpiscono tre sfere tra loro differenti: quella economica, finanziaria e sociale. Vediamo per iniziare quelle economiche. La globalizzazione rappresenta uno stadio terminale in quanto sta portando il sistema economico odierno al collasso industriale e finanziario. Questa affermazione può sembrare molto forte da udire, ma lasciatemi fornire le dovute spiegazioni ed alla fine converrete con me sul raggiungimento di questa conclusione. La globalizzazione a dispetto del capitalismo classico è fautrice di enormi sperequazioni sulla ricchezza prodotta, vale a dire che quest’ultima non viene suddivisa e distribuita in maniera proporzionata a chi ha contribuito a crearla. Attenzione: non che il capitalismo classico sia indenne da critiche, ma rimane tutt’oggi il sistema economico in grado di creare la maggiore diffusione di benessere e prosperità a fronte di limitati episodi di sfruttamento. Si deve al sistema capitalistico classico la nascita della media borghesia: la classe sociale che rappresenta la componente sociale trainante per la crescita di ogni nazione. La globalizzazione, invece, accentua profondamente questa sproporzione e disomogeneità, arrivando a creare solo due classi sociali: i molto ricchi (una minoranza) ed i molto poveri (la maggioranza), sopprimendo lentamente, per le conseguenze economiche e sociali che derivano, proprio la classe media borghese. Con la globalizzazione, i grandi stabilimenti ed i posti di lavoro vengono trasferiti in aree del globo terrestre in cui la manodopera è particolarmente più a buon mercato. Successivamente l’output produttivo (beni, prodotti, merci) di questi stabilimenti industriali delocalizzati viene importato proprio nel stesso paese in cui gli stabilimenti industriali sono stati chiusi e trasferiti. Questo processo non crea ricchezza: quanto piuttosto sperequazione. Infatti non si arricchisce nessuno, se non le multinazionali ed i gruppi industriali artefici di queste ristrutturazioni aziendali. Nel paese di origine, migliaia di lavoratori vengono privati del loro posto di lavoro iniziale, e nel paese in cui la produzione è stata trasferita, migliaia di nuovi lavoratori vengono sfruttati a fronte di un salario ridicolo. Entrambi questi paesi sono uno legato all’altro, entrambi questi paesi sono destinati a collassare. Il primo, quello originario, a causa di una progressiva perdita di capacità di consumo dovuta ad una sensibile contrazione del tenore reddituale (che diventa saltuario o a singhiozzo). Il secondo paese, quello sfruttato per la manodopera locale, percepisce un iniziale lieve miglioramento grazie ai posti di lavoro trasferiti, ma rimane il fatto evidente che la sua popolazione non ha la capacità di spesa del primo. Questo determina un vero e proprio effetto stile protossido d’azoto, in quanto le grandi aziende che hanno delocalizzato aumentano semestre dopo semestre i loro profitti (in quanto vengono abbattuti i costi di manodopera). I ricavi di vendita, tuttavia, trovano manifestazione economica ancora e solo nel paese originario, in quanto il mercato interno del paese in cui si è delocalizzato non è in grado di assorbire merci o prodotti per mancanza di una classe sociale sufficientemente abbiente. Nel frattempo, e questo è un fenomeno molto lento e progressivo, il paese originario vede ridursi proprio la sua capacità di consumo interno, in quanto fenomeni sociali come il lavoro precario o l’impiego a singhiozzo (che hanno sostituito i posti di lavoro delocalizzati) iniziano a compromettere il tenore reddituale medio della classe media borghese. Inizialmente pur di continuare a consumare come prima, si inizia ad indebitarsi per sopravvivere (e non per fare investimenti). In seguito quando il sistema diventa saturo e quei pochi stipendi rimasti sono già spesi ancora prima che siano accreditati, allora inizia il conto alla rovescia: il default dell’intero paese. Se ci pensate tutto questo sta accadendo anche all’Italia, la quale nel momento in cui scrivo si sta gongolando per un PIL al 2 % (dopo quattro anni di stasi ed una media europea del 2,5 %). C’è una spiegazione a questo dato: il ricorso al debito attraverso finanziarie e società di microcredito ha contribuito ad aumentare il valore dei servizi erogati dal Sistema Italia. Pensate che, solo negli ultimi due anni, il PIL è stato sostenuto dall’erogazione di mutui ipotecari con un peso di quasi il 20 % ! Il punto chiave quindi per comprendere il pericolo della globalizzazione, è proprio il processo di depauperazione di uno stato a vantaggio di un ristretto gruppo di lobbies industriali e bancarie volto alla massimizzazione dei profitti. L’essenza è tutta qui. Non si è arricchito nessuno, né il paese che ha subito la chiusura degli stabilimenti e né il paese che li ha visti aprire: ci ha spudoratamente guadagnato solo chi ha spostato la produzione e importato i prodotti con un margine di guadagno in certi casi anche triplicato. Ecco spiegato perché le borse salgono: vedono fior di aziende fare grandi utili e pertanto in futuro si aspettano un flusso di dividendi sempre maggiori. Purtroppo si sbagliano. Questo livello di utili elevati non è destinato a durare molto, in virtù del progressivo indebitamento ed incapacità di consumo che la globalizzazione indirettamente causa sui mercati in cui si intende riversare le merci ed i beni prodotti con un artificioso ed ingannevole espediente produttivo. Non può durare a lungo proprio perché i paesi poveri producono per la richiesta di quelli ricchi che lentamente perdono il loro stato di benessere borghese in virtù della perdita dei siti di produzione al loro interno.
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