lunedì 16 febbraio 2009

Controstoria di un’invasione.

Gli alibi e gli inganni dei vincitori per coprire la verità sono sempre uguali: solo dopo 60 anni si celebra il ricordo di quei caduti finora nascosti e diffamati dalla sinistra comunista, che aveva accuratamente impedito che si raccontasse la storia delle foibe e degli esuli istriani, dalmati e fiumani. Nessuno doveva sapere che 300.000 persone avevano dovuto lasciare le loro case, che circa 16.000 erano state gettate nelle foibe dai partigiani slavi del maresciallo Tito, sostenuti da partigiani italiani e PCI. Civili, vittime innocenti di uno sterminio e di un’occupazione, colpevoli solo di incarnare una scomoda verità: quell’alito di libertà che, secondo “l’Unità”, portavano con se gli eserciti slavi era piuttosto un vento di morte. Oggi, invece, parliamo di un popolo, quello palestinese, che da un secolo lotta e subisce tutto ciò ma ancora non ha conosciuto la parola giustizia; è rimasto vittima di quella trappola per cui chi è sconfitto è cattivo, punto e basta. Vorremmo dirvi di massacri come quello di Sabra e Shatila (più di 2000 abitanti uccisi a freddo), raccontarvi dell’Intifada (la guerra dei carri contro le pietre), dell’ideologia razzista, degli spropositati finanziamenti americani, in denaro o armi. Ma, prima, meglio parlarvi del contesto; partiamo perciò dal principio, buona abitudine che i giornalisti ormai tralasciano.

Veniamo allora al movimento sionista, che nel suo primo congresso (1897) sceglie di far nascere il “suo” futuro stato in Palestina e dà il via alla colonizzazione delle terre arabe, sfruttando le enormi risorse economiche di cui disponeva grazie all’azione dei suoi lobbisti. Varie erano le alternative; nel 1903 ad es. la Gran Bretagna promette ai sionisti l’Uganda, vista l’urgenza di scampare ai pogrom russi ma la proposta viene scartata, col voto influente proprio di molti ebrei “russi”: lo stato doveva nascere lì nella “terra promessa”, a qualunque costo. Nella terra di quegli arabi che la abitano da almeno 1300 anni e che costituiscono il 95% della popolazione. Nel 1907\08 la nascita di Jaffa e Tel Aviv sono il primo frutto dell’immigrazione ebrea, alimentata da associazioni ebraiche e lobby potenti come la dinastia Rothschild. Nel 1917 il ministro degli esteri britannico Balfour impegna il Regno Unito per la nascita di un “focolare ebraico” in Palestina. La G.B. mira al canale di Suez e, caduto l’impero ottomano, inizia l’occupazione della Palestina, che dal ’21 diventa ufficialmente suo mandato. Le migrazioni proseguono massicce grazie alla politica filo-sionista della G.B. che collabora con l’Agenzia ebraica, la quale gestisce l’immigrazione protetta da corpi militarizzati e terroristi (Haganah e Irgun). In trent’anni di collaborazione la G.B. apre le porte all’immigrazione, trasferisce terreni statali agli ebrei e permette loro il mantenimento di organizzazioni militari, cosa non concessa ai palestinesi. L’esasperazione araba sfocia nel ’36 in uno sciopero generale, poi nella grande rivolta che dura fino al ’39 ed è repressa nel sangue: 20.000 uomini giungono come rinforzi da Londra. Il mandato britannico, istituito per creare uno stato unico, integrato, porta invece alla prima proposta di spartizione della Palestina in due stati, con Gerusalemme sotto tutela britannica. La proposta è respinta dagli arabi, convinti che accettare avrebbe portato ad una progressiva espansione di Israele e ad essere inghiottiti. La storia gli darà ragione. Del resto le parole di Ben Gurion, primo “premier” d’Israele, sono esplicite: “dopo la creazione di un potente esercito a sostegno dello Stato, rinnegheremo la divisione e ci espanderemo su tutta la Palestina”.



Sotto pressione araba, gli inglesi limitano l’immigrazione ebraica: 1500 ingressi al mese; ma la misura è aggirata dalla clandestinità. La tensione è alta ora che gli inglesi “frenano” le mire espansionistiche ebraiche e che nasce la Lega Araba. Il terrorismo ebraico esplode, contro gli inglesi (King David Hotel, 91 morti), contro l’ONU (assassinio Bernadotte, inviato Nazioni Unite) e contro i palestinesi. Nel ’47, terminato il mandato britannico, una nuova proposta di spartizione prevede uno stato arabo sul 45% del territorio ed uno ebraico sul 55% con Gerusalemme sotto tutela internazionale. I sionisti non si lasciano scappare l’occasione - gli ebrei infatti non sono neanche la metà degli arabi (650.000 rispetto ai 1.380.000 arabi) e sono in minoranza anche nei loro territori visto che 860.000 arabi vi si trovavano all’interno - e dichiarano il proprio stato.



È la catastrofe: inizia l’esodo dei profughi che, minacciati e perseguitati, abbandonano proprietà, colture e villaggi. Deir Yassin, un villaggio di 300 abitanti, viene circondato dalle truppe israeliane, che uccidono sistematicamente 250 persone, incluse donne e bambini. È un messaggio chiaro: andatevene. Così gli israeliani conquistano la maggioranza nel loro stato. 780.000 profughi non potranno più tornare alle loro case né avranno alcun risarcimento, nonostante le deliberazioni dell’ONU. Negli anni seguenti Israele seminerà guerre coi paesi circostanti, deporterà palestinesi e siriani, userà armi illegali, ignorando le deliberazioni della comunità internazionale. Ma ancora oggi, dopo aver visto le immagini di un popolo martoriato, chiuso nella riserva di Gaza, in tutto dipendente da Israele, come un animale in gabbia, c’è chi, come nel ’46 in Italia, diffama e vuole cancellare ogni traccia del passato: il mondo fa di tutto per impedirsi di pensare. È l’unico modo per credersi liberi. Per questo le bombe vanno ai palestinesi: non hanno dimenticato cosa significa essere liberi, non si rassegnano ad essere schiavi. Piuttosto, preferiscono morire.


Tratto da: Minas Tirith - Febbraio 2009,

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