Pensieri non conformi contro il “villaggio globale”.
Gli eserciti si fronteggiano, sta per scatenarsi la battaglia che segnerà il futuro dell’Italia e dell’Europa. Da una parte l’esercito fiorentino assieme agli alleati della Lega Guelfa, dall’altra gli aretini assieme agli alleati della Lega Ghibellina. Due fazioni, due ideologie.
I primi combattevano per imporsi sui vicini, per disgregare il potere centrale e dar vita alle autonomie dei primi Comuni.
I Ghibellini, invece, scendevano sul campo di battaglia per difendere la città di Arezzo e, al contempo, l’integrità e il potere dell’Impero. L’intento dei Guelfi, difatti, era offensivo: già da un anno i venti di guerra spiravano nel contado aretino, con rapide incursioni di piccoli gruppi di cavalieri fiorentini che, devastando le campagne, erano arrivati fin sotto le mura della città.
Di lì a poco, un anno dopo, la dichiarazione di guerra: i fiorentini ponevano le insegne dell’esercito a pochi chilometri dalla città di Arezzo, tenendole ben spiegate per otto giorni, affinché gli aretini potessero scorgerle e prepararsi a rispondere, in armi, alla sfida.
Stiamo parlando della famosa battaglia di Campaldino.
A capo delle schiere guelfe vi era Amerigo di Narbona, capitano francese concesso da Re Carlo di Francia al nascente libero comune toscano assieme a 100 fanti ed alle insegne reali. Quest’esercito era composto da quasi 3000 cavalieri e 12000 fanti e fu senz’altro il più poderoso esercito che Firenze avesse mai avuto.
Ad Arezzo, invece, capo della contea era Guglielmino degli Ubertini, vescovo della città e “amante più della spada che del pastorale” , fedelissimo al Sacro Romano Imperatore nonché esponente di spicco del ghibellinismo italiano, tanto da essere onorato, il giorno della battaglia, della presenza del Vicario Imperiale Princivalle del Fiesco. Inoltre, il vescovo guerriero si assicurò non solo la confederazione di tutte le genti ghibelline della Toscana, ma anche l’appoggio dei grandi capi marchigiani e romagnoli come Buonconte da Montefeltro.
Il giorno della battaglia, l’Ubertini mise assieme 800 cavalieri e 8000 fanti. Nonostante lo squilibrio numerico delle forze in campo, la fazione ghibellina, si battè con gran valore e questo ce lo conferma anche Dante, presente come fante tra le fila fiorentine. Il vescovo, dal canto suo, pur affetto da zoppìa e avente circa 70 anni, avrebbe potuto trovar scampo nella fuga ma, scrive l’Ammirato, “[….] non fece così, il vescovo, il quale rincorando i suoi, e facendo per tutto ufficio di capitano e di soldato, né volendo – poiché vide tagliare a pezzi le sue genti – sopravvivere a tanta rovina, si cacciò nel mezzo dell’ardor della battaglia e ivi valorosamente restò ucciso […]”.
Il resto è storia. Tutti conoscono l’esito della famosa battaglia di Campaldino, ma occorre fare un’analisi di ciò che la vittoria di quella fazione, la guelfa, comportò nella storia dei secoli successivi, poiché, per dirla con G.B. Vico, la storia è fatta di corsi e ricorsi, è sempre un andare avanti ed ogni epoca ha in sé i segni del passato e i germi dell’avvenire.
La fazione guelfa, fomentata dagli interessi papali, voleva la dissoluzione del Regnum Italicum per far decadere il potere dell’Imperatore.
Sotto la spinta guelfa verrà ad esplodere quel fenomeno che la storiografia chiamerà “periodo comunale”, peraltro già presente dal XII secolo con il Barbarossa nell’Italia settentrionale.
Il Comune, auto-ergendosi ad autorità territoriale, non riconobbe più l’autorità imperiale e feudale. Per questo motivo l’Italia non può vantare la secolare unità politica degli altri paesi europei. Aprendo una piccola parentesi sui giorni nostri, non è un caso, infatti, che
Il periodo comunale rappresentò la fine dell’Era di mezzo e da quell’indipendenza politica, e soprattutto economica, sorse una nuova realtà sociale che rappresentò un unicum storico: la classe dei mercanti.
Questi, vuoi per la spinta culturale di quel tempo, vuoi per il fermento economico diffuso un po’ ovunque, divennero mano a mano sempre più l’élites della società fino a prendere i posti di comando, distruggendo così la tradizionale divisione tripartita (lavoratori, guerrieri, sacerdoti).
A questo punto, oltre a non esserci più un’autorità centrale, se non formalmente, il potere civile non è più mantenuto per lignaggio ma per influenza politica dovuta al censo.
Nascono così le Signorie, giungiamo al Rinascimento e l’opera di destrutturalizzazione è ormai quasi completata.
Sarà poi la stessa classe sociale, quella dei mercanti, che, adeguandosi ai tempi, nel XVIII secolo formerà la borghesia, dalla quale, nel secolo successivo, nascerà la vera eresia materiale nelle sue note due forme: il marxismo e il capitalismo. L’opera di destrutturalizzazione è adesso completata.
Tale classe politica, nelle sue due forme, ha sempre perseguito, forse proprio per i viaggi che sempre ha fatto e per il guadagno che da essi ne ha contratto, un progetto di internazionalizzazione, o meglio, di trans-nazionalizzazione: paradossalmente, tra tali progetti, vi è anche quello “federalista”, inteso come secessionismo da un potere forte e centrale.
Un progetto di trans-nazionalizzazione prevede, come è ovvio, l’abbattimento di tutti i confini fino ad arrivare ad un “villaggio globale” ; chiaramente il progetto di secessione prevede l’innalzamento di nuove, ulteriori barriere ma è assolutamente funzionale al primo progetto, in quanto, come avvenuto per i comuni, frantuma la legittima autorità.
In due parole, un potere forte, centrale e possibilmente autarchico (“L’Europa, una volontà unica, formidabile, capace di perseguire uno scopo per migliaia di anni” F. Nietzsche) sarebbe d’ostacolo ai mercanti di oggi come quelli di ieri.
Alessandro Pallini
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