giovedì 4 ottobre 2007

COLPIREMO I BIRMANI OGNI GIORNO.

"Non è certo questo il momento di mollare. Ogni giorno colpiremo qualche reparto birmano". Così Nerdah Mya, "Operational Commander" del KNLA risponde a chi vorrebbe l'esercito di liberazione in una fase di difficoltà, dopo la mancata partenza della offensiva annunciata nei giorni scorsi. "Le offensive della guerriglia non sono quelle di un esercito normale" - prosegue il colonnello - Non vedrete divisioni di fanteria muoversi in massa, vedrete imboscate, colpi di mano, assalti a postazioni. Continueremo, con una maggiore frequenza, le operazioni che abbiamo condotto per tanti anni, e che hanno permesso al nostro popolo di sopravvivere. Dobbiamo far sentire ai Generali che non potranno reprimere le proteste impunemente". Nerdah ordina ai suoi di prepararsi. Dovranno uscire dal villaggio di Boe Whay Hta, attaccato due sere fa dall'esercito birmano, e controllare palmo a palmo la giungla circostante. Non vede molto chiaro nel tentativo di penetrazione compiuto martedì dai militari di Rangoon. Forse un'azione per "saggiare" le difese di questa cittadella fortificata, attorno alla quale, protetti dai guerriglieri karen, si stringono oltre 4000 persone. Sono profughi interni, gente che ha dovuto lasciare i propri villaggi investiti dai rastrellamenti dell'esercito birmano. Una cittadella in cui lavora Ba Wha, il nostro responsabile per la clinica che da sette anni presta assistenza sanitaria alla gente di qui. "No problem Mister Franco, no problem". Ba Wha ride, con i suoi denti colorati del rosso della noce di Bethel che mastica in continuazione. "Nessun problema" per questo instancabile ometto che da più di trent'anni conduce con il sorriso sulle labbra la sua guerra contro i birmani e contro le conseguenze dell'occupazione dello Stato Karen. "Hanno provato ad entrare" -sghignazza il "dottor Ba Wha", esperto in amputazione degli arti colpiti dalle migliaia di mine antiuomo sparse a Kawthoolei - "ma se ne sono dovuti andare di corsa. Per un po' non torneranno". In questi giorni tutti guardano a cosa succede a Rangoon, dove i vecchi generali sembrano incerti sulle mosse da compiere. Qualcuno di questi vorrebbe usare il pugno di ferro, qualcuno pare più incline alla ricerca di un dialogo con l'opposizione. Da questa miscela è uscita la repressione, tutto sommato contenuta, delle marce di protesta. Sembra quasi che Tan Shwe, numero uno della giunta, cominci a credere veramente alle voci che circolano in queste ore su presunti preparativi di golpe nei suoi confronti da parte di altri ufficiali. Sembra quasi che per scongiurare il colpo di mano contro di lui, voglia "accontentare" qualche colomba che ha fatto sentire la sua voce tra i falchi del regime. I Karen non si fanno illusioni. Sessant'anni di guerra li hanno resi immuni da facili entusiasmi. Ricordano che la giunta è forte, perché ha creato un apparato militare cui concede i privilegi che il resto della popolazione birmana nemmeno può sognare. Con i soldi delle multinazionali occidentali e asiatiche ( Chevron, U.S.A., Total, Francia, Petronas, Malesia, Daewoo, Corea del Sud per citarne alcune), degli affaristi senza patria e dei trafficanti di droga, con le armi di Cina, India, Russia, Israele e Singapore, con i contratti commerciali con Giappone, Thailandia e Germania, ha costruito un esercito efficiente, bene armato, ben pagato. Qualcuno in Italia si ostina ad usare per il regime birmano l'aggettivo "comunista", quando invece ci troviamo di fronte ad un comitato d'affari che conduce, all'interno di perfette logiche mondialiste, una partita su più tavoli. L'importante è che la posta in gioco, il gruzzolo di dollari, resti ai piani alti della società birmana, dove i più stretti collaboratori di Tan Shwe sono ricchi businessmen, e dove sua figlia può pagare 300 mila dollari per una festa di matrimonio. Se i governi occidentali che in queste ore chiedono un cambiamento a Rangoon avessero veramente voluto agire in modo disinteressato, per il bene della popolazione e non semplicemente per sostituire una avida oligarchia in divisa con una avida oligarchia in giacca e cravatta, avrebbero ormai da molti anni aderito alle richieste di fornitura di equipaggiamenti lanciate dagli eserciti delle minoranze etniche. "Gli Stati Uniti ad esempio, sostengono il movimento birmano per la democrazia" - dice Nerdah - "ma non hanno mai aiutato le minoranze". Meglio così, vorremmo dire a Nerdah, meglio non avere conti in sospeso con certi ambienti. Ma resta il fatto che i complessivi 30.000 uomini degli eserciti di liberazione Shan, Karen, Chin e Karenni, oggi non hanno i mezzi per portare fino ai quartieri della capitale la loro azione. E così qui, nelle regioni orientali della Birmania, a 500 chilometri da Rangoon, l'eco della rivolta dei monaci rischia di farsi sempre più tenue. "Un altro grave problema in questo momento" - prosegue il comandante - "è la mancanza di coordinamento con chi protesta nelle città. Rischiamo di fare due battaglie parallele, che alla fine potrebbero risultare scarsamente efficaci". E anche questa volta non diciamo a Nerdah che forse la povera coordinazione tra il movimento per la democrazia e le minoranze etniche potrebbe essere la conseguenza di una decisione presa al di fuori e al di sopra delle rispettive leadership. Temiamo che anche nella Birmania del futuro la battaglia per l'identità e l'autodeterminazione dei popoli resterà per l'elite al potere, la solita, spiacevole e noiosa "seccatura".



Franco Nerozzi

www.comunitapopoli.org

1 commento:

  1. TRIBUTO DI SANGUE.



    Ventidue anni fa un volontario francese si sacrificava per la causa Karen.

    Il 4 ottobre 1985 cadeva in combattimento in Birmania, nelle file Karen, il nazionalrivoluzionario francese Jean-Philippe Courrèges, militante del Gud.



    Da: www.noreporter.org

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