Il 30 dicembre 2006, veniva condannato a morte Saddam Hussein; l’uomo che dal 1979 al 2003 aveva garantito stabilità e benessere sociale al popolo iracheno.
Un anno fa Saddam Hussein se ne andava come un gigante. Nella fierezza con cui seppe morire schiacciava come nani i suoi aguzzini. Aguzzini che parlano inglese, persiano, ebraico, e altri ancor più minuscoli: servi immondi che farfugliano in arabo.
Un leone, un vento, un gigante, un esempio, un padre, un condottiero, un capo, egli si staglia ancora sullo sfondo dei cieli assiri, illumina dalle stelle, tra il Tigri e l'Eufrate, quella gente indomita, oggi lacerata, insanguinata, impoverita dalle armate di occupazione dell'ennesima crociata per la libertà (noi ne sappiamo qualcosa, eccome, di queste crociate e di questa “libertà”...). Quella gente indomita, la sua gente - che è sua così com'egli è stato sempre il loro campione fino a saper morire per essa - non si arrende ma cerca disperatamente di riunire ancora una volta la nazione irachena. E questo a dispetto di tutti gli strateghi degli imperialismi occidentali, di tutti i manipolatori degli autonomismi curdi (leggi nello specifico Tel Aviv), di tutti quelli che si scornano tra loro per estendere la loro influenza nell'arteria del “Nabucco” (un po' tutti ma soprattutto inglesi e israeliani) e di quelli che in nome della teocrazia odiano il nazionalismo e si ostinano a banchettare con gli altri internazionalisti cui pure affibbiano il nome di “Satana”. Quelli che tra un “Israele deve essere distrutta” e un “L'America è Satana” addestrano squadre della morte, sostengono il governo dei narcotrafficanti imposto da Bush, si spartiscono il territorio iracheno con i nemici verbali (sono venticinque anni che tra loro lo scontro è fatto di slogan ma che invece le cooperazioni sono talmente strette da tradire una vera e propria complicità. Che, forse, verrà superata dai nuovi scenari che hanno costruito insieme: ma questo esito, se mai ci si giungerà, non dovrà farci mai scordare le responsabilità oggettive e soggettive, strutturali, concrete, di Teheran nella causa anti-araba di Londra e Tel Aviv).
Tutti i volti del Leviatano sono presenti sul suolo iracheno, nessuno escluso. E l'esempio di Saddam sta dando ancora forza - e soprattutto coscienza - a quelli che sanno che la causa della libertà, dell'indipendenza, dalla nazione, dell'autodeterminazione si traccia contro tutti coloro che parlano in nome di un dio, qualunque esso sia. Che sia la dea ragione, il dio dollaro, il dio progresso o la dea reazione. Che sia un dio ateo o un dio confessionale; un idolo, in ogni caso, in nome del quale annullare il proprio spirito critico, sul cui altare sacrificare la propria realizzazione spirituale e la causa della Polis e della libertà. Non è un caso se l'integralismo (poco conta che sia islamico) è il principale alleato dell'occidentalismo nella piovra della Globalizzazione: sono figli della stessa matrigna e nominano tutti il nome di (un) dio invano.
Ma al cielo si giunge in modo completamente diverso, sapendo camminare eretti sulla terra; così come seppero e fecero gli antichi, così come insegnò più tardi la sapienza ghibellina, così come ha saputo mostrare Saddam Hussein.
E che gli altri, tutti, nessuno escluso, se li porti il diavolo. Qualunque esso sia per loro, comunque concepiscano il “dia-ballein” (ovvero la separazione dei piani e di se stessi): tutti costoro sono prigionieri di un diavolo perché non hanno pienezza né centratura e allora lanciano crociate, in nome di qualunque fede o superstizione, perché, non sapendo incantare il mondo, vorrebbero dissodarlo. Ma sono stupidi nani e per sentirsi vivi devono impiccare i giganti. Che li guardano, così, ancora da più in alto.
Onore al Rais
RispondiEliminae pietà per i nanerottoli
Un anno fa Saddam Hussein se ne andava come un gigante. Nella fierezza con cui seppe morire schiacciava come nani i suoi aguzzini. Aguzzini che parlano inglese, persiano, ebraico, e altri ancor più minuscoli: servi immondi che farfugliano in arabo.
Un leone, un vento, un gigante, un esempio, un padre, un condottiero, un capo, egli si staglia ancora sullo sfondo dei cieli assiri, illumina dalle stelle, tra il Tigri e l'Eufrate, quella gente indomita, oggi lacerata, insanguinata, impoverita dalle armate di occupazione dell'ennesima crociata per la libertà (noi ne sappiamo qualcosa, eccome, di queste crociate e di questa “libertà”...). Quella gente indomita, la sua gente - che è sua così com'egli è stato sempre il loro campione fino a saper morire per essa - non si arrende ma cerca disperatamente di riunire ancora una volta la nazione irachena. E questo a dispetto di tutti gli strateghi degli imperialismi occidentali, di tutti i manipolatori degli autonomismi curdi (leggi nello specifico Tel Aviv), di tutti quelli che si scornano tra loro per estendere la loro influenza nell'arteria del “Nabucco” (un po' tutti ma soprattutto inglesi e israeliani) e di quelli che in nome della teocrazia odiano il nazionalismo e si ostinano a banchettare con gli altri internazionalisti cui pure affibbiano il nome di “Satana”. Quelli che tra un “Israele deve essere distrutta” e un “L'America è Satana” addestrano squadre della morte, sostengono il governo dei narcotrafficanti imposto da Bush, si spartiscono il territorio iracheno con i nemici verbali (sono venticinque anni che tra loro lo scontro è fatto di slogan ma che invece le cooperazioni sono talmente strette da tradire una vera e propria complicità. Che, forse, verrà superata dai nuovi scenari che hanno costruito insieme: ma questo esito, se mai ci si giungerà, non dovrà farci mai scordare le responsabilità oggettive e soggettive, strutturali, concrete, di Teheran nella causa anti-araba di Londra e Tel Aviv).
Tutti i volti del Leviatano sono presenti sul suolo iracheno, nessuno escluso. E l'esempio di Saddam sta dando ancora forza - e soprattutto coscienza - a quelli che sanno che la causa della libertà, dell'indipendenza, dalla nazione, dell'autodeterminazione si traccia contro tutti coloro che parlano in nome di un dio, qualunque esso sia. Che sia la dea ragione, il dio dollaro, il dio progresso o la dea reazione. Che sia un dio ateo o un dio confessionale; un idolo, in ogni caso, in nome del quale annullare il proprio spirito critico, sul cui altare sacrificare la propria realizzazione spirituale e la causa della Polis e della libertà. Non è un caso se l'integralismo (poco conta che sia islamico) è il principale alleato dell'occidentalismo nella piovra della Globalizzazione: sono figli della stessa matrigna e nominano tutti il nome di (un) dio invano.
Ma al cielo si giunge in modo completamente diverso, sapendo camminare eretti sulla terra; così come seppero e fecero gli antichi, così come insegnò più tardi la sapienza ghibellina, così come ha saputo mostrare Saddam Hussein.
E che gli altri, tutti, nessuno escluso, se li porti il diavolo. Qualunque esso sia per loro, comunque concepiscano il “dia-ballein” (ovvero la separazione dei piani e di se stessi): tutti costoro sono prigionieri di un diavolo perché non hanno pienezza né centratura e allora lanciano crociate, in nome di qualunque fede o superstizione, perché, non sapendo incantare il mondo, vorrebbero dissodarlo. Ma sono stupidi nani e per sentirsi vivi devono impiccare i giganti. Che li guardano, così, ancora da più in alto.
Onore al Rais e pietà per i nanerottoli!
Gabriele Adinolfi