domenica 2 dicembre 2007

NICOLA BOMBACCI. Il Fasciocomunista.







Nazionalbolscevismo, ecco il Padre:




«…eppure giorno verrà in cui il soviet,

permeandosi di spirito gerarchico

e la corporazione di risoluta anima

rivoluzionaria, si incontreranno

sopra un terreno di redenzione sociale».



Nicola Bombacci














Nicola Bombacci (Civitella di Romagna, 24 ottobre 1879 – Dongo, 28 aprile1945) nasce socialista e muore mani in tasca e sorriso sereno, gridando: “Viva Mussolini... Viva il socialismo...”.



Nel frattempo, fra la nascita e la morte per fucilazione, compie un tragitto che solo occhi fuorviati da mal fedeli interpretazioni possono considerare incoerente.



Da socialista, sposa la causa delle masse proletarie vessate dall’insorgente capitalismo industriale e dalla cancrena dei latifondisti terrieri, fino a diventare segretario del Partito socialista nel 1918...



Da socialista deluso e fuoriuscito, è tra i fondatori, con Gramsci e Bordiga, del Partito comunista d’Italia, nel 1921.



Come comunista non dogmatico si alza dal suo scranno parlamentare, lui onorevole del P.C.d’I., per plaudire l’iniziativa, colà annunciata dal suo vecchio sodale socialista, ora capo del governo di coalizione, Benito Mussolini, circa l’intenzione italiana, di riconoscere (prima a farlo nel mondo) lo stato della Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Guadagnandosi, il Bombacci, gli sguardi storti e ottusi dei suoi compagni di partito...



Emarginato per questa sua presa di posizione dal P.C. d’I, poi riammesso per intervento diretto di Lenin, indi, definitivamente espulso, rimane ai margini della vita politica italiana godendo, peraltro, (durante tutto il Ventennio...) dell’amicizia, della protezione e della solidarietà (anche in casi di stretta problematica privata...) del suo ex compagno socialista, ormai realizzato duce d’Italia e del fascismo.



Nell’ epilogo della Seconda guerra mondiale e del fascismo coglie l’attimo, contingentemente infausto ma epicamente unico, della prima, e a tutt’oggi sola, “Repubblica” che volle definirsi “sociale” (oltreché: “italiana”...).



Non scrive materialmente il decreto legge della “socializzazione delle imprese” (D.L. 375/1944), che ad altri è dovuto (Manlio Sargenti e Angelo Tarchi, in primis...), ma ne diventa l’indiscusso “apostolo”, scendendo in piazza, nel pieno corso degli eventi bellici, tra gli operai che ancora ne riconoscono l’adamantina fede proletaria, suscitando entusiasmo nelle decine di migliaia di lavoratori, plaudenti auditori dei suoi infiammati discorsi dove, tra l’altro, e si era già nel marzo del 1945 (comizio di Genova: 30.000 presenti, stando alle cronache del tempo mai disdette......), afferma:



“Fratelli di fede e di lotta, guardiamoci in viso e parliamo pure liberamente: voi vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, comunista, amico di Lenin, di vent’anni fa. Sissignori, sono sempre lo stesso, perché io non ho rinnegato i miei ideali per i quali ho lottato e per i quali, se Dio mi concederà di vivere ancora, lotterò sempre. Ma se mi trovo nelle file di coloro che militano nella Repubblica sociale italiana è perché ho veduto che questa volta si fa sul serio e che si è veramente decisi a rivendicare i diritti degli operai”.



A partita bellica ormai conclusa, segue il duce nell’ultimo tragitto: dalla Prefettura di Milano a Dongo e, da qui, a Piazzale Loreto dove, con gli altri, contempla a testa in giù il sovvertimento totale della verità... Titolo, questo: “La verità”, della sua ultima impresa giornalistica, traduzione italica della sovietica “Pravda”.




miro renzaglia

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