Nerdah Mya ha 44 anni. Sulla sua testa ci sono due taglie: una l'ha messa il regime birmano, l'altra l'hanno messa i trafficanti di droga. Nerdah Mya è un colonnello, guida l'esercito del popolo Karen che da oltre sessant'anni cerca la sua primavera tra le foreste della Birmania, al confine con la Thailandia. Oggi tornerà a casa, dopo una settimana passata in Italia per i dieci anni della onlus Popoli, una delle poche associazioni che sostengono la causa di questa comunità a rischio sterminio. «The karen will never give up», dice il colonnello, che ha studiato negli Stati Uniti e, a vederlo con il suo gilet chiaro da turista orientale, ha un'aria tutt'altro che militare. «I Karen non si arrenderanno mai», perché «lottano per la loro identità». Nerdah ha ereditato la sua lotta dal padre, un eroe nazionale dei Karen, che con sei milioni di persone sono la seconda etnia della Birmania. In 150mila vivono nei campi profughi tailandesi, in 500mila in quelle che il regime chiama "black areas", le zone nere in cui gli abitanti sono solo bersagli da scovare. Tutti gli altri, quelli inseriti nel sistema, vivono «una vita di serie b», spiega Franco Nerozzi, fondatore di Popoli. Significa che non possono parlare la loro lingua e vivere secondo le loro tradizioni e che sono sorvegliati speciali per il regime. «Il sistema di controllo - chiarisce Nerozzi - è molto forte, non c'è la possibilità di coordinare una ribellione». Anche per questo fallì la rivolta dei monaci, il più eclatante tentativo di conquista della libertà che dalla Birmania sia giunto all'attenzione planetaria.
La Birmania non è il Nord Africa
Nerdah, in una recente intervista al Giornale, ha detto che «ci basterebbe un decimo dei soldi inviati agli insorti di Bengasi per abbattere il regime». Ha quantificato: centomila euro al mese. Ha ribadito quella richiesta «provocatoria» anche ieri al Secolo, dove insieme a Nerozzi e al responsabile romano di Popoli, Alberto Faccini, ha fatto tappa nel corso di questo suo viaggio italiano che non era solo di cortesia. Ai Karen serve far conoscere la loro causa e far capire quale sia il tasso di oppressione nel loro Paese. Serve spiegare perché, nonostante tutti i birmani soffrano la mancanza di libertà, in Myanmar difficilmente si potrà assistere a moti di piazza come quelli che stanno sconvolgendo il Nord Africa. In più «noi - dice Nerdah - non abbiamo il petrolio....».
La cittadinanza a San Suu Kyi non basta
Loro «will never give up» (Nerdah lo ripete più volte), ma da soli non possono farcela. Se si pensa a quanto sono stati titubanti i governi europei nei confronti delle primavere che sbocciavano a un passo da casa loro, si capisce quanto sia essenziale per i Karen far capire che il regime è isolato e che la causa dell'opposizione non si sostiene solo dando cittadinanze onorarie a Aung San Suu Kyi. L'ultimo a conferirla è stato Fassino, che oltre a essere neosindaco di Torino è anche l'inviato speciale Ue per la Birmania. «Ma Fassino - ricorda Nerozzi - ha anche salutato come positive quelle elezioni a cui la stessa Aung San Suu Kyi non ha partecipato perché erano fasulle».
Una conferenza internazionale in Italia
Ora Popoli sta cercando di organizzare in Italia una conferenza internazionale sui Karen. In passato si è occupata di promuovere convegni e incontri istituzionali, tanto in sede italiana quanto al Parlamento europeo. In particolare, nell'autunno del 2009 vi fu un incontro con il sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi, che si mostrò informata e consapevole. «Abbiamo incontrato - disse Nerdah - una persona amica, che si è già attivata per dei passi diplomatici importanti per il miglioramento delle nostre condizioni». «Speriamo in un sostegno istituzionale alla conferenza, anche perché - spiega ora Nerozzi - non credo che il regime birmano durerà ancora a lungo e penso che per l'Italia sarebbe interessante stare al fianco di chi a breve potrebbe essere tra chi guiderà il Paese». Il primo obiettivo della conferenza, però, è la sensibilizzazione. La Karen National Union, di cui il colonnello è portavoce, chiede di essere riconosciuta dalla comunità internazionale, chiede aiuti umanitari, ma chiede anche una di quelle cose che "sta male" chiedere: armi.
Nella terra dei fiori
Nardah parla della necessità di difendersi, spiega che gli aiuti umanitari sono importanti, ma che se costruisci una scuola e poi non puoi difenderla dai soldati birmani non hai risolto granché. La stessa Popoli, nelle foreste, ha costruito quattro cliniche, ne ha perse tre, ne ha ricostruite quattro. Ha costruito anche scuole e ogni anno, solo grazie ai volontari e ai fondi dell'8 x mille (si può dare scrivendo il codice 03119750234) invia farmaci, medici e infermieri. Loro e i Karen costruiscono, l'esercito birmano abbatte. «Arrivano e distruggono tutto», racconta Nerdah, il cui vero obiettivo non è tanto il sovvertimento del regime quanto la sopravvivenza del suo popolo. I Karen chiamano il posto in cui vivono "la terra dei fiori" e lo difendono anche dalle rotte della droga. Per questo anche i trafficanti vorrebbero Nerdah fuori dai piedi. I Karen sono una comunità combattente, nel senso che nei boschi gli uomini imbracciano le armi. Ma la loro quotidianità è fatta di bambini che fanno anche 50 chilometri per andare a scuola, di famiglie che lavorano la terra e di soldati che sanno suonare la chitarra. C'è una foto di Nerdah mentre strimpella, l'ha fatta Nerozzi, che è stato fotografo e inviato di guerra. La moglie di Nerdah, Pau Khee La, che ha 34 anni ed è venuta in Italia con il marito e con il medico cinquantenne Saw Ba Wah, ieri, per l'ultimo giorno della sua breve vacanza romana, indossava un abitino a fiori grandi dai colori pastello. Nei loro gesti, come nelle foto che arrivano dalla giungla, non traspare il benché minimo compiacimento per la guerra. E, del resto, quello che chiedono all'Occidente è una mano per smettere di combattere.
Di Annamaria Gravino, www.secoloditalia.it
domenica 10 luglio 2011
Quella primavera birmana che dura da oltre 60 anni.
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