mercoledì 13 luglio 2011

Nordirlanda. Spuntano le armi nella notte di Belfast




di: Alessia Lai


a.lai@rinascita.eu



Nella notte che precede le parate orangiste, Belfast si illumina dei bagliori dei bonfires. I roghi, accesi nei quartieri protestanti della città e in tutte le Sei Contee, sono un rito collettivo di sopraffazione. Boati di approvazione si levano, tra i lealisti che nella notte dell’undici luglio si riuniscono a festeggiare, quando le bandiere irlandesi o i simboli che rappresentano la comunità cattolica prendono fuco fino dissolversi nelle scintille che riempiono l’aria. Quest’anno sulle pire c’erano anche bandiere dell’Europa, lo scetticismo per i ventisette non risparmia nemmeno questo angolo di continente. Anzi, qui, dove tutto è esasperato, i lealisti tengono l’Europa ancora più lontana di quanto faccia Londra. Nonostante l’Unione europea sia in realtà una matrigna solo per i loro vicini di casa repubblicani: si volta indifferente di fronte agli abusi, alle vessazioni, alle persecuzioni che il popolo nordirlandese subisce ancora oggi a consacrazione della supremazia britannica su queste terre insorgenti.

La notte dei bonfires è molto più di un evento folkloristico quale potrebbe apparire. Enormi cataste di legna altre decine di metri vengono date alle fiamme a pochi passi dai quartieri cattolici in un mosaico intricato di enclavi che riserva alle zone repubblicane uno spettacolo annuale a ricordo della battaglia che nel 1690 ha sancito il giogo britannico su questo spicchio di Isola verde. Qui proseguono gli arresti indiscriminati, che sanno più di persecuzione che di azione preventiva. E prosegue la pratica dello stop and search, fermi di polizia fatti senza che sia necessaria alcuna motivazione e resi possibili dal terrorism act, approvato dal parlamento britannico nel 1974, ancora in vigore nonostante la solita Europa, quella i cui simboli quest’anno sono stati bruciati assieme al tricolore irlandese, abbia dichiarato illegale questi atti con cui la Psni (Police Service of Northern Ireland), la ex Ruc, può fermare e perquisire un sospettato e la sua casa. E quando per i repubblicani si aprono, spesso in modo arbitrario, le porte del carcere, la sopraffazione britannica li segue anche lì.

Da poche settimane i prigionieri repubblicani di Maghaberry hanno ripreso la dirty protest per denunciare la mancata esecuzione degli accordi sottoscritti l’agosto del 2010 fra amministrazione carceraria e detenuti repubblicani che prevedevano la fine dello strip search, le perquisizioni corporali alle quali sono sottoposti i visitatori (familiari, amici o legali) dei detenuti repubblicani e tutti i prigionieri cattolici anche se non hanno contatti con l’esterno. A metà luglio tutto questo cumulo di vessazioni e provocazioni diventa un bubbone pronto a esplodere. Le marce con cui i lealisti britannici rivendicano il loro ruolo di dominatori nelle Sei Contee raggiungono il loro culmine il 12, nel giorno in cui si ricorda la battaglia del fiume Boyne. Parate che si annunciano con il rullo dei tamburi e il suono dei pifferi, marcette militari che ricordano alle comunità repubblicane la supremazia militare di sua maestà britannica. È questo il clima nel quale crescono i ragazzini irlandesi, a Belfast, in Nordirlanda: circondati fisicamente e ideologicamente da muri, visibili e invisibili, continuamente ricacciati nel ruolo di “altro” al quale a scadenze precise viene ricordata la condizione di sottomesso.

A Belfast (e non solo) la separazione si materializza nei muri messi in piedi a dividere quartieri lealisti e repubblicani per evitare contatti pericolosi tra le comunità: alti, lunghissimi, li chiamano peaceline. Solo un esercizio di fantasia non indifferente può permettere di usare la parola “pace” per descrivere delle barriere che si ergono tra piccole comunità confinanti e in perenne conflitto. Qui basta una fila di case a dividere due sobborghi, a separare due mondi molto distanti per i quali la caratterizzazione religiosa – zone cattoliche, zone protestanti – rischia di essere fuorviante: non è una guerra di religione quella nordirlandese, è un’occupazione straniera nell’Europa del 2011. Un conflitto civile strisciante che in tempi di crisi rischia di riesplodere incontrollato, tra la working class lealista sempre più esposta ai riverberi della crisi economica globale e la comunità repubblicana relegata negli strati sociali più fragili. Le avvisaglie di fine giugno, con i paramilitari lealisti dell’Uvf che guidano l’assalto alla comunità cattolica nell’east Belfast, disegnano una situazione in precario equilibrio.

L’Ulster voluntary force aveva annunciato qualche anno fa lo smantellamento del suo arsenale, ma nella sera del 20 giugno scorso a Short Strand si è sparato. Le armi ci sono ancora. Lo sa bene chi non le ha mai deposte, la Real Ira. Armarsi viene considerato l’unico possibile deterrente nei confronti di una sopraffazione definitiva, e allora spuntano le pistole. Nella sera di lunedì, mentre i bagliori dei bonfires disegnavano i profili delle case di Belfast e gli elicotteri sorvegliavano la città dall’alto, un pattugliamento della Real Ira ha dimostrato che i repubblicani non intendono arrendersi. Erano giovani, forse solo poco più grandi dei ragazzini che in quella stessa serata ingaggiavano gli scontri “rituali” con la Psni a suon di pietre e bottiglie molotov. Ma in mano non avevano sassi.




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