venerdì 8 luglio 2011

Nord Irlanda. 12 luglio tra storia e attualità: intervista a Riccardo Michelucci


(ASI) Il prossimo 12 luglio alcune strade di Belfast, in Nord Irlanda, si tingeranno d’arancione, poiché avverrà - come da anni è prassi, provocando polemiche e disordini in città - una controversa parata con banda, stendardi e costumi d’epoca per celebrare una vittoria militare che affonda le proprie radici in tempi antichi, precisamente nel 1690. Il 12 luglio di quell’anno, infatti, nei pressi del fiume Boyne le truppe guidate da Guglielmo III d’Orange conseguirono una vittoria che molti autorevoli studiosi hanno definito l’inizio della storia dell’attuale Irlanda del Nord. Parliamo di questo evento storico, delle sue conseguenze e delle implicazioni che la sua rievocazione comporta oggi a Belfast con Riccardo Michelucci, giornalista di varie testate e collaboratore presso l’Università di Firenze, autore di “Storia del conflitto anglo irlandese” (ed. Odoya, 2009).



Dottor Michelucci, ci spieghi anzitutto cosa avvenne di così importante presso il fiume Boyne in quel lontano - eppure così vicino - 12 luglio 1690…



Si tenne una battaglia decisiva per le sorti dell’Irlanda, che sancì il predominio dei coloni scozzesi e inglesi (protestanti) sui nativi irlandesi (cattolici). Questi ultimi erano stati depredati delle loro terre da Cromwell, privati dei diritti civili e politici e della libertà religiosa: per riconquistarli strinsero un’alleanza con il re cattolico Giacomo II, che era stato deposto dal Parlamento inglese nel 1688 ed era sbarcato in Irlanda nel tentativo di farne la base di partenza per la riconquista del regno d’Inghilterra. Le sue armate vennero però sconfitte da quelle del protestante Guglielmo III d’Orange, che si assicurò il dominio indiscusso sull’isola e l’anno dopo divenne il nuovo re d’Inghilterra e d’Irlanda. Da allora, “King Billy” è diventato un personaggio simbolo per gli orangisti e per i protestanti irlandesi in generale, che lo ritengono un eroe senza tempo, perché ha sancito il loro predominio che dura nei secoli.



Dunque, il 12 luglio 1690 è una data chiave per l’Irlanda, la cui storia di conflittualità tuttavia ha origini più antiche. A quando risale? E quando si hanno le prime tracce storiografiche di discriminazione inglese verso gli irlandesi?



Il punto di partenza è talmente lontano che si perde quasi nella notte dei tempi. Dobbiamo fare un salto indietro di diversi secoli, arrivando addirittura al lontano XII secolo, all’epoca normanna, quando né l’Inghilterra né tanto meno l’Irlanda rappresentavano ancora entità statuali compiute in senso moderno. Ma la fase di non ritorno, l’incancrenimento definitivo di una storia destinata ad arrivare tristemente fino ai giorni nostri può essere invece individuata alcuni secoli più tardi, all’inizio dell’era elisabettiana, quando le plantation di coloni inglesi e scozzesi sul suolo irlandese avrebbero creato le condizioni per la nascita di un’identità protestante all’interno di un paese fino ad allora totalmente cattolico. Le conseguenze della confisca delle terre e della successiva consegna ai proprietari terrieri protestanti porterà le sue tragiche conseguenze fino ai giorni nostri. Da allora il controllo della Corona britannica sull’isola è stato affidato a una nuova classe egemone che manterrà il proprio dominio sociale non in base al colore della pelle ma attraverso l’esercizio di una diversa fede religiosa. L’appartenenza confessionale - alla religione riformata - divenne il simbolo di questo dominio sociale e l’anglicanesimo diventò, di fatto, un titolo di proprietà. È allora che nasce il fuorviante elemento religioso nella lotta politica irlandese che non è mai stata, fatta eccezione per una breve fase a cavallo del XVI secolo, una guerra di religione. Anche adesso, chi cerca di descriverla in questi termini, o non ha capito niente oppure è in malafede perché cerca implicitamente di giustificare l’operato britannico.



Il suo libro “Storia del conflitto anglo irlandese” è stato definito il “libro nero” degli inglesi in Irlanda. Ritiene questa definizione adeguata al suo lavoro?



Sì, è molto adeguata, perché il volume cerca di ripercorrere per grandi linee una lunga storia di persecuzioni alimentata da calunnie e stereotipi, da pregiudizi e luoghi comuni sfociati poi - a partire dal XIX secolo - in vere e proprie teorie razziali. Gli inglesi avevano bisogno di giustificare questa oppressione nei confronti dell’opinione pubblica interna e davanti al resto del mondo, così cominciarono ad affermare che gli irlandesi erano individui dai comportamenti irrazionali, innatamente violenti, fino a tentare di dimostrare che erano esseri “inferiori”, e che come tali andavano rieducati o soppressi “per il loro bene”. Gli attacchi attraverso la stampa, la letteratura, il teatro hanno seguito e rafforzato - giustificandola - l’aggressione militare. Qualcuno ha detto che il mio è “un libro di parte”. In realtà, è proprio ciò che voleva essere: l’editore ha voluto dargli un titolo generico ma io nella stesura non ho mai cercato l’equidistanza perché non mi proponevo di ricostruire la storia del conflitto nella sua organicità ma di delinearne le cause e le implicazioni, soprattutto quelle di carattere culturale.



Nel libro parla di genocidio continuato per quasi otto secoli. Come arriva a formulare questa asserzione?



Nel corso dei secoli gli inglesi hanno sperimentato praticamente ogni forma di politica repressiva nei confronti dell’Irlanda. Tecnicamente, si può parlare di genocidio però solo con riferimento a quanto accadde alla metà del XIX secolo. L’ecatombe che si verificò ai tempi della grande carestia irlandese, tra il 1845 e il 1850, fu infatti una diretta conseguenza delle politiche del governo britannico, che fecero morire per fame e per inedia centinaia di migliaia di persone con l’obiettivo di distruggere una parte significativa del gruppo etnico, nazionale e razziale noto come popolo irlandese. Un rapporto giuridico commissionato negli anni ‘90 dagli irlandesi d’America al docente di Harvard Francis Boyle ha dimostrato che l’operato del governo britannico in quegli anni costituisce un atto di genocidio contro il popolo irlandese ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio adottata a New York il 9 dicembre 1948. Nel 1997 l’allora primo ministro inglese, Tony Blair, ha chiesto scusa all’Irlanda per questo.



Il ricorso alla lotta armata da parte degli irlandesi va dunque interpretato come una resistenza ad una dominazione iniqua? Quali i passaggi chiave dell’opposizione degli irlandesi alle aspirazioni britanniche sulla loro terra?



In tempi moderni, la resistenza irlandese prende avvio nella seconda metà del XIX secolo, con la nascita del movimento feniano e poi dell’I.R.A., all’inizio del XX secolo. Contrariamente a quanto la propaganda britannica ha sempre cercato di far credere, l’esercito repubblicano irlandese (I.R.A.) non è stato la causa del conflitto, ma la sua diretta conseguenza. Per gli inglesi era utile far credere che l’insurrezione anticoloniale dell’I.R.A. fosse in realtà una sorta di cospirazione criminale ordita da un gruppo di pazzi sanguinari. In questo modo era possibile trasformare l’esercito britannico in un arbitro imparziale della contesa tra due fazioni in lotta, e usare un ridicolo eufemismo come “troubles” (letteralmente “disordini, problemi, guai”) per definire un conflitto, come quello in Irlanda del nord, che è durato trent’anni e ha causato quasi 4000 morti, decine di migliaia di feriti e sfollati, che ha distrutto famiglie e città nel cuore dell’Europa occidentale.



Chi conosce l’isola d’Irlanda, in particolare le Sei Contee che appartengono al Regno Unito, sa che lì le vicende secolari non sono state affatto riposte nel cassetto della storia, ma rappresentano una componente essenziale della quotidianità. Ancora oggi violenze, prevaricazioni e settarismi scandiscono la vita delle due comunità: cattolica e protestante. Ciò che avviene ogni anno a Belfast il 12 luglio è in questo senso un paradigma…



La “stagione delle marce” inizia ogni anno dopo Pasqua e dura fino ad agosto, ma tocca il momento clou il 12 luglio, quando le logge paramassoniche orangiste nate nell’‘800, custodi inflessibili delle tradizioni protestanti e della mitologia del movimento unionista, commemorano la sconfitta del re cattolico Giacomo II nel 1690. Anche in anni recenti le principali marce sono purtroppo sfociate in manifestazioni di violenza settaria contro i quartieri cattolici. Quelle che all’apparenza sembrano colorate manifestazioni folkloristiche, sono infatti vere e proprie dimostrazioni di forza e superiorità che intendono perpetuare la supremazia protestante. Proprio per evitare scontri, negli ultimi anni Londra ha istituito un’apposita Commissione per le Parate che studia i percorsi cercando di evitare che si creino situazioni di conflitto. Spesso infatti i manifestanti pretendono di sfilare provocatoriamente nelle aree cattoliche, come il quartiere popolare di Ardoyne, a nord di Belfast, da sempre uno dei più sensibili e ad alto rischio. Ardoyne, per intendersi, è il quartiere dove le due comunità sono a stretto contatto in un piccolo fazzoletto di strade e dove, qualche anno fa, si svolse la triste vicenda delle bambine della scuola elementare Holy Cross, costrette ad andare a scuola scortate dai soldati in assetto antisommossa. Gli abitanti cattolico-nazionalisti dei quartieri interessati dalle parate non vogliono marciare da nessuna parte e chiedono solo di essere lasciati in pace, liberi dallo spettacolo non voluto e offensivo degli orangisti che marciano al ritmo degli enormi tamburi per ricordare ai ‘papisti’ di stare al loro posto. E soprattutto chiedono di non dover subire il rituale assedio di poliziotti e soldati armati fino ai denti che accompagna il passaggio delle parate.



Ogni anno, puntualmente, il 12 luglio è un banco di prova molto importante per la “tenuta” del processo di pace. La parata del 12 è anche anticipata dalla cosiddetta Bonfire night, la notte precedente durante la quale vengono accesi centinaia di falò per ricordare i fuochi sulle colline appiccati nel 1690 per illuminare la navigazione notturna degli eserciti di Guglielmo d’Orange. Per la strada vengono erette e poi incendiate colonne di bancali di legno in cima alle quali sono issate bandiere irlandesi.



La Commissione Parate - orientata in un primo momento a porre restrizioni al cosiddetto “Tour of the North” - ha infine decretato che la marcia orangista potrà percorrere Ardoyne e Crumlin Road. Anche alla luce dei recenti disordini per le strade di Belfast e degli arresti perpetrati ad alcuni esponenti della galassia repubblicana irlandese, prevede un clima ancora più incandescente quest’anno il 12 luglio?



Francamente, e volendo escludere la malafede, non riesco a capire la logica della decisione della Commissione Parate. Inoltre stavolta il comitato dei residenti repubblicani di Ardoyne ha anche convocato una contromanifestazione in contemporanea, insomma ci sono tutti gli ingredienti per far esplodere disordini peggiori di quelli che si sono verificati l’anno scorso, che durarono quattro giorni e causarono decine di feriti.



Dall’esterno si tende a sostenere - forse con un po’ di approssimazione - che le due comunità siano oggi pervase dal comune desiderio di pace, in quanto logorate da anni di violenze. Tuttavia, le cronache del Nord Irlanda ci raccontano costantemente - 12 luglio a parte - di attentati e tensioni. Come inquadra il riemergere dei conflitti sociali in un paese in cui, dopotutto, si può affermare vi sia oggi un benessere equamente diffuso?



In Irlanda del Nord il benessere ha sopito solo in parte la conflittualità radicata negli ultimi decenni e ha creato una situazione che era impensabile fino a una quindicina di anni fa. Tuttavia restano accesi alcuni focolai di tensione perché l’Accordo del Venerdì Santo del 1998 - come tutti i trattati di pace - è frutto di una serie di compromessi che inevitabilmente scontentano gli opposti estremismi. In particolare, ha escluso quelli che erano i due capisaldi fondamentali delle rivendicazioni dei repubblicani: la riunificazione del paese e la fine dell’occupazione britannica. I gruppi dissidenti repubblicani che sottolineano questo aspetto e attirano, ancora oggi, l’attenzione delle cronache sono però gruppi esigui, senza un reale sostegno popolare anche se purtroppo sono in grado di uccidere, come hanno dimostrato anche in tempi recenti. Un altro limite del Good Friday Agreement è quello di aver costruito una pace priva di un’effettiva riconciliazione, dove le comunità continuano a essere divise e a vivere arroccate nei loro quartieri, a oltre dieci anni dalla fine ufficiale delle ostilità. I conflitti sociali che vediamo riemergere oggi sono in ultima analisi alimentati anche dalla crisi economica che ha colpito l’Europa e il resto del mondo occidentale, e credo che debba far riflettere anche il fatto che il numero di suicidi in Irlanda del Nord sia cresciuto addirittura del 64% nel decennio che ha seguito la fine del conflitto.



Di Federico Cenci, http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=4245:nord-irlanda-12-luglio-tra-storia-e-attualita-intervista-a-riccardo-michelucci&catid=3:politica-estera&Itemid=35


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