mercoledì 20 gennaio 2010

Intervista a Francesco Mancinelli.

Domanda a bruciapelo: quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?





Domanda quanto mai complessa. Diciamo che accanto al pantheon tradizionale dei vari Nietzsche, Evola, Jünger, Guénon, nella mia formazione convivono stranamente elementi di neo-cripto-catarismo (alcuni li chiamerebbero anarchici o comunisti spirituali, ma solo per coloro che non hanno occhio nel capire), approfonditi ad esempio attraverso la poesia musicale di De André e Guccini, ma presenti anche in tutta la canzone d’autore degli anni ’70; pesco anche nella visione profonda ed essenziale di P. P. Pasolini. Il tutto viene poi condito dal riferimento assoluto ai temi della «Paganitas», soprattutto quella romano-italica, nonché alle tematiche esoteriche, uno degli amori di gioventù.



Poi, per chi semplicemente riesce a ricavare dagli sguardi e dall’intuizione «la propria via», il proprio destino, direi che Codreanu e «Che» Guevara rappresentano, nei loro sguardi essenziali, la sintesi perfetta del mio background politico e culturale. Comunque, andando a scavare c’è dentro veramente di tutto, ed è quasi impossibile anche per me farne una organica sintesi. Anzi direi che sono in-organico per definizione.





Risorgimento italiano. Ultimamente ferve il dibattito su questa pagina controversa della nostra storia. Tu hai parlato spesso di «Risorgimento tradito», potresti approfondire il concetto?





Di Risorgimento tradito ne parla ampiamente uno dei massimi cronisti della Storia Risorgimentale (protagonista oltreché cronista): Giuseppe Cesare Abba. Uno che capì molto prima di molti altri (prima dello stesso Gramsci e anche di Carlo Alianello) il binario morto su cui si era avviato il nostro moto di liberazione. Si stava codificando dal 1849, dopo la fine della Repubblica Romana, il teorema velenoso del trasformismo delle nuove classi dirigenti, per mancanza e volontà di strappi tragici ed irreversibili all’interno del tessuto sociale e culturale della nazione nascente.



Serviva un sacrificio iniziale di purificazione, alla Romolo e Remo per capirci, la famosa guerra civile di liberazione anziché le false guerre Internazionali teleguidate da potenze straniere (tre guerre d’Indipendenza che non hanno costruito niente in termini di coscienza civile e nazionale). Ma purtroppo tra noi italioti, estranei perfino alla rivoluzione protestante, i Giacobini non sono mai stati veri Giacobini, ed i legittimisti del vecchio ordine (a parte le frange eroiche dell’ultimo Brigantaggio borbonico post-unitario) erano già imborghesiti e pronti per un salto di ricollocamento nella nuova gestione post-unitaria, ed in chiave moderata-liberale. Potremmo dire che i due laboratori controrivoluzionari per eccellenza (Vaticano e Savoia piemontesi) hanno ucciso lo spirito «Pagano-Insurrezionalista» di Pisacane e di Mazzini, dei fratelli Bandiera, ed infine ridimensionato ed esiliato il mancato console-dittatore Giuseppe Garibaldi; hanno festeggiato insomma la solita normalizzazione oligarchica: da un lato sul corpo dei nostri martiri e dei patrioti caduti, considerati come feccia eversiva, e dall’altro sul genocidio ed il massacro premeditato del Sud Italia.



Se si vuole capire come si arriva a Caporetto, a Badoglio, e poi Fini o Alemanno in Sinagoga, bisogna partire da Cavour, dal Piemonte e dalle sue lobby illuminate, e/o dal potere millenario e conformista del Vaticano. Neanche il Fascismo riuscì a sradicare la controrivoluzione dei gattopardi trasformisti, degli ordini autocratici antinazionali (gesuiti e massoni in testa), il cancro atavico delle nostre classi dirigenti riconvertite all’apparato e alla decadenza.



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