venerdì 13 marzo 2009

Spiritualità della montagna.

Parlare della spiritualità della montagna, oggi, non è troppo agevole, soprattutto per la ragione che la cosa ormai troppo spesso ha assunto i caratteri di un luogo comune. Forse in poche epoche come nell'attuale si è parlato tanto di «spirito» e si è stati propensi ad introdurre lo «spirito» un po' dappertutto, quasi come una specie di salsa destinata a condire compiacentemente ogni sorta di ingredienti: cosa che, peraltro, sta in singolare contrasto con un fatto assai positivo, cioè con la constatazione, che se vi è un'epoca pressoché priva di visuali e di principi veramente trascendenti, essa è proprio l'epoca contemporanea.



Nella gran parte degli anzidetti riferimenti moderni alla spiritualità si deve dunque veder meno qualcosa di positivo, che non una confusa aspirazione, la quale in tanto può avere un valore, in quanto riceva, in uno sviluppo ulteriore, un vero orientamento in senso di ferma autocoscienza per il contatto con qualcosa di più alto. Qui noi vogliamo svolgere alcune considerazioni circa quel che, specificamente, riguarda appunto la montagna e lo sport alpino, secondo le possibilità di vera spiritualità che essi contengono.



Anzitutto, che queste possibilità siano reali, che esse nulla abbiano a che fare con una voga dell'epoca e con la proiezione del passeggero entusiasmo di nuove generazioni, lo prova il fatto che la spiritualità della montagna corrisponde a ciò che, nel senso più alto, severo e universale, può chiamarsi una tradizione. Abbiamo già avuto occasione di raccogliere documentazioni precise (1) volte a dimostrare che dai tempi più remoti in quasi tutte le civiltà la montagna valse uniformemente come simbolo di stati interiori trascendenti e come sede allegorica di nature divine, di eroi, in genere di esseri trasfigurati e portati di là dalla condizione umana: tanto che l'ascendere le vette o l'essere rapito nelle vette nei miti più varii dell'umanità tradizionale figura secondo il valore di un misterioso processo di superamento, di integrazione spirituale, di partecipazione alla «super vita» olimpica e all'immortalità. Per chi non partecipa all'opinione falsi-ficatrice del precedente secolo materialista e illuminista, secondo la quale il mito degli Antichi non sarebbe stato altro che poesia e arbitraria fantasticheria, tutto ciò assume il valore di una precisa e arbitraria fantasticheria, tutto ciò assume il valore di una precisa testimonianza, da investigare nel suo significato nascosto. Tutte queste figurazioni antiche, ove torna il tema della sacrità della montagna, a costui appaiono adombramenti di una realtà spirituale, la connessione della quale col simbolismo della montagna non può essere stata accidentale. L'uomo antico non scelse a caso la montagna come mezzo di espressione simbolica di significati nettamente trascendenti: a ciò fu portato da ragioni di analogia, ma, in più, da un presentimento di ciò stesso che l'esperienza della montagna può suggerire alla parte più profonda del nostro essere, una volta che essa venga realizzata adeguatamente. Per precisare questo contenuto superiore, giova anzitutto eliminare ad una ad una le interpretazioni oggi più correnti della spiritualità della montagna e dell'ascensione alpina, ovvero circoscriverne la portata per subordinare via via i punti di vista condizionati ad un punto di vista assoluto.



La prima fra le assunzioni più correnti è quella puramente «lirica». Si tratta del mondo della retorica letteraria e della «poesia» in senso cattivo, cioè in senso di sentimentalismo borghese e di idealismo convenzionale e stereotipo. Qui entra in questione essenzialmente la montagna-panorama vista da lontano con tutti gli aggeggi del «pittoresco» più di dubbio gusto; entra in questione l'Alpe come oggetto di pirotecniche liriche tanto brillanti, alate e «elevate», quanto vuote di ogni serio contenuto e di ogni base di schietto e diretto sentire. Questa retorica della montagna non la conosce né l'uomo dei monti, né il vero alpinista. Essa resta confinata nel mondo libresco estetizzante e, per fortuna, oggi è da considerarsi in gran parte sorpassata, essa ci appare come un residuo del romanticismo ottocentesco, come la compensazione di una generazione borghese la quale non sapeva aspirare alle altezze che attraverso i facili slanci e i luoghi comuni di un lirismo parolaio.



In secondo luogo, abbiamo la spiritualità della montagna concepita in termini di naturismo. È una concezione propria ad una generazione di spirito opposto a quello cui abbiamo ora accennato e che si può chiamare la «generazione della crisi». In larga misura, questa è soprattutto una specialità tedesca. Per una specie di oscuro bisogno di compensazione organico-biologica e anche psichica, per un istinto di rivolta contro una civiltà divenuta sinonimo di arido intellettualismo, di meccanica, di utilitarismo, di conformismo, si è avuto una specie di esodo nella natura e di bisogno assoluto della natura quale anticittà e anticultura, presso cui naturalmente la montagna e l'alpinismo hanno avuto una parte importante. Così è sorto una specie di nuovo misticismo primitivista della natura e della vita sportiva in natura, che in buona parte riprende le stesse premesse di J. J. Rousseau (2) e lo stesso processo contro la civiltà di Nordau (3), di un Freud (4), di un Lessing (5), di un Bergmann (6), di un Klages (7).



Ora, dinanzi ad un fenomeno del genere è importante che non nascano malintesi. È evidente che non si può aver nulla in contrario a che delle masse si ristorino, si distendano e si rianimino in una ripresa di contatto con la natura e con la montagna. Anzi, ciò è senz'altro desiderabile e lo sport qui assurge ad una funzione di protezione sociale di valore indiscutibile. Ma non si debbono scambiare cose molto distinte, non si deve credere che delle sensazioni più o meno fisiche di benessere, di ristoro organico e di riconquistata forza abbiano qualcosa a che fare con la spiritualità e che l'uomo in un clima di pratica primitivistica e naturalistica si trovi troppo più vicino alla parte essenziale del proprio essere, che non nelle discipline e nelle lotte della vita civilizzata. Già il carattere di evasione e di reazione che, nella gran parte dei casi, ha questo fenomeno e questa esaltazione della natura, basta, nella sua negatività, a limitarne la portata. Al di là sia della civilizzazione nel suo senso limitato, materialistico-sociale e intellettualistico che questo termine ha assunto nei tempi ultimi, sia nell'anticivilizzazione, cioè della «natura» intesa come mera antitesi di essa, sta il piano in cui la personalità spirituale può cogliere o rafforzare il senso di sé. Ed è questo piano che noi qui abbiamo in vista, non quello delle condizioni e dei mezzi migliori per riparare o preservare organismi e cervelli minati dai veleni materiali e psichici della vita moderna.



Passiamo ad un terzo punto. Si tratta di superare anche l'atteggiamento, per il quale la spiritualità della montagna e dell'ascesa alpina vien data in termini di semplice sensazione e di eroismo fisico. Qui entra già in questione l'élite costituita da tutti coloro che praticano seriamente e attivamente l'alpinismo e si tratta di una delle interpretazioni più diffuse e, in fondo, non banali. La montagna è spirito per tutto ciò che essa implica quale disciplina dei nervi e del corpo, ardimento lucido, spirito di conquista e insomma impulso all'azione pura in un ambiente di pure forze. Ora, di tanto è certo che tutto ciò racchiude un alto valore educativo, di altrettanto è opportuno venire ad una distinzione ulteriore. Questa distinzione, anzitutto, riguarda ancora una volta le finalità. Come il naturalismo ha la sua, già indicata ragion d'essere su di un dato piano, parimenti ha la sua ragion d'essere l'alpinismo quale scuola per le qualità già indicate; e indubbiamente è desiderabile che le nuove generazioni si facciano il più possibile capaci di quello spirito di ardimento e di quelle doti psico-fisiche, quali la pratica attiva della montagna può largamente propiziare. Ma è questo il più alto livello a cui si può aspirare?



Esaminando il lato interno della cosa, cioè prescindendo dalle qualità da apprezzarsi ai fini della salute e dell'energia e della disciplina fisica di una nuova generazione, sta di fatto che esiste un amore per il rischio e perfino un eroismo, il cui valore è quello di una mera sensazione e il cui risultato spesso è esasperare una percezione puramente fisica, chiusa, dura della personalità e della virilità, la quale nell'uomo moderno è già anormalmente sviluppata e non costituisce certo la condizione migliore per la riconquista di una spiritualità vera, liberata, trascendente. Si deve ben riconoscere che lo stesso alpinismo vissuto secondo questo solo spirito non si potrebbe troppo distinguere dalla caccia all'emozione per l'emozione stessa, che provoca, specie in America, ogni sorta di stravaganze e di frenesie, miracoli di ardimento e di acrobazia in salti da aeroplani, corse alla morte, ecc, ma che, alla fine, non significa cosa troppo diversa di una specie di eccitante o di stupefacente, il cui uso ci dice più dell'assenza che non della presenza di un vero senso della personalità, un bisogno più di stordirsi, che di possedersi. Anche l'interesse tecnico dell'ascendere può facilmente degenerare, e non di rado si incontrano degli scalatori portati automaticamente per abitudine a studiare vie di possibile ascesa per ogni dove, perfino di fronte a facciate di palazzi.



Tuttavia è certo che se si deve indicare un elemento suscettibile a propiziare, nell'esperienza della montagna, una realizzazione di carattere superiore, esso è costituito appunto dall'elemento «emotivo», dall'elemento «sensazione». Ma l'essenziale sta allora nel vedere in esso solo il punto di partenza e la «materia prima», sta nel considerare la sensazione come un mezzo e non come un fine. Qui trovano luogo alcune considerazioni generali. Specialmente l'uomo moderno dinanzi a ciò che egli sente ha un atteggiamento completamente errato. La sensazione è per lui un fatto che comincia e finisce in se stesso e rispetto a cui egli è passivo. Egli è troppo debole per separare dalla sensazione o emozione l'elemento puramente irrazionale, ciò che in essa si riduce ad una mera impressione o scuotimento dell'anima, e per cogliere in essa, con un atto interiore, qualcosa che valga direttamente e attivamente per lo spirito come conoscenza in senso superiore.



E ciò vale anche per l'esperienza della montagna. Chi dalla montagna si trova irresistibilmente preso, spesso non ha saputo cogliere che come una emozione una grandezza che ancora egli non sa concepire: egli non ha saputo impadronirsi di un nuovo stato interiore affiorante dal profondo e realizzarvi una sua propria natura. Così egli non saprebbe dire perché abbia cercato gli orizzonti sempre più vasti, i cieli sempre più liberi, le vette sempre più aspre, perché di cima in cima, di parete in parete, di pericolo in pericolo attraverso la sua vicenda abbia visto misteriosamente svanire e fuggire dietro di sé anche tutto quel che nella sua ordinaria vita gli sembrava più vivo, più importante, più appassionante. Ciò che gli parla e che lo muove, è il possente messaggio interiore direttamente evidente in tutto quel che la natura alpina ha di più non-umano, quasi di distruttivo e di sgomentante nella sua grandezza, nella sua solitudine, nella sua inaccessibilità, nel suo immane silenzio, nella primordialità scatenata delle sue tempeste, nella sua immutabilità attraverso il monotono susseguirsi delle stagioni e il vano alternarsi delle caligini e dei liberi cieli solari: vicenda infondente il senso più immediato di quel che è caduco e che come tale si eclissa di fronte ad un presentimento dell'eterno.



È così che la montagna potrebbe agire come «simbolo» e che come simbolo potrebbe avviare ad una realizzazione interiore corrispondente. Ma, d'ordinario, l'uomo si arresta all'aspetto emotivo, il quale ha sempre più il carattere di un turbamento che non quello di una conquista e di una conoscenza. È dall'irrazionalità di impressioni, visioni, di inesplicabili slanci e inesplicabili, gratuiti eroismi che egli viene portato avanti, lungo vie di un ascendere, che alla fine giunge inavvertitamente ad agire anche in termini d'interiorità. E in sede di subcoscienza che egli si trova inserito in una realtà più vasta e che da essa riceve non solo trasfigurazione in senso di calma, sufficienza, semplicità, purezza, ma anche un afflusso quasi sovranormale di energie, insuscettibile ad essere spiegato con i fallaci determinismi della fisiologia, una indomabile volontà di procedere ancora, di sfidare nuove altezze, nuovi abissi, nuove pareti, poiché appunto in ciò si traduce la inadeguatezza dell'azione materiale rispetto al significato che ormai la anima, la trascendenza dell'impulso spirituale rispetto alle condizioni esterne, alle imprese, alle visioni, alle audacie che ne hanno propiziato il risveglio e che ancora costituiscono la materia necessaria per la estrinsecazione concreta di quell'impulso stesso.



E non ci sembra azzardato dire che questo deve essere anche stato il segreto delle più grandi imprese di montagna, di quelle che sembrano aver davvero trasceso i limiti delle comuni possibilità umane. Ma anche a questo grado dovrebbe subentrare la vera realizzazione, il superamento dell'elemento istintivo ed irrazionale, la piena, ferma autocoscienza, cioè la trasformazione dell'esperienza della montagna in un modo d'essere. È allora che sorgerebbe, nei migliori, il senso che ogni andare, ogni ascendere, ogni conquistare, ogni osare è solo contingente mezzo di espressione di una realtà immateriale, la quale ne potrebbe avere infiniti altri: e ciò sarebbe la forza di coloro che, in fondo, può dirsi che mai ritornano dalle vette alla pianura, di quelli per i quali non vi è più né l'andare né il tornare, perché la montagna è nel loro spirito, perché il simbolo è diventato realtà, perché la scorza è caduta. La montagna per essi non è più né novità d'avventura, né romantica evasione, né sensazione contingente, né eroismo per l'eroismo, né sport più o meno tecnicizzato. Essa si lega invece a qualcosa, che non ha principio né fine e che, conquista spirituale inalienabile, fa ormai parte della propria natura, come qualcosa che si porta con sé ovunque a dare un nuovo senso a qualsiasi azione, a qualsiasi esperienza, a qualsiasi lotta della vita quotidiana.



È per tal via che di là dal simbolo naturale, cioè direttamente offerto ai sensi, della montagna, si può accedere anche al simbolismo dottrinale e tradizionale che le si riferisce, cioè al contenuto più profondo dell'insieme dei miti antichi sopra ricordati, ove la montagna appare come «luogo» di nature divine (l'Olimpo ellenico, la Walhalla come monte, il buddhistico «monte degli eroi»), di sostanze immortalanti (l'haoma e il soma della tradizione indo-irànica), di forze di regalità solare e sovrannaturale (il monte solare di cui nelle tradizioni della romanità imperiale ellenizzata, il monte quale sede della «gloria» mazdea, ecc), di «centralità spirituale» (il Monte Meru e gli altri monti simbolici concepiti come «poli»), ecc. Infatti in tutto ciò altro non deve intendersi che la varia figurazione, personificazione o proiezione di stati trascendenti di coscienza, di risvegli e di illuminazioni interiori, che sono vere quando non rappresentano più qualcosa di vago, di «mistico», di fantastico, ma appaiono invece secondo i caratteri di una evidenza e di una normalità d'ordine superiore, tale da far apparire, piuttosto, come anormale tutto ciò che prima appariva più comune, familiare e abituale.



E possibile che gli Antichi, i quali ignoravano l'alpinismo ovvero ne conoscevano solo forme rudimentali, e quindi avevano dinanzi la montagna secondo i caratteri di una reale inaccessibilità e inviolabilità, appunto per questo furono portati a sentirla secondo il carattere di un simbolo e di una trascendente spiritualità. Oggi che la montagna è materialmente conquistata e poche sono le vette che ancora l'uomo non ha violate, è importante far sì che questa conquista non si equivalga ad una profanazione e ad una «caduta» di significato. Per questo, è essenziale che le nostre nuove generazioni poco a poco giungano ad elevare l'azione al valore di un rito, che poco a poco esse riescano a ritrovare quel punto trascendente di riferimento, attraverso il quale le vicende di ardimento, di rischio e di conquista, le discipline del corpo, della sensibilità e della volontà fra l'immota e simbolica grandezza montana assurgano al valore di vie per la realizzazione di ciò che nell'uomo sta di là dall'uomo, epperò ricevano la loro più alta giustificazione nei quadri del nuovo moto ascendente e spiritualmente rivoluzionario della nostra stirpe.



Note



(1) Cfr. il precedente Note sulla «divinità» della montagna, pubblicata tre anni prima sempre sulla Rivista del CAI (N.d.C).



(2) Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), il noto filosofo e scrittore svizzero di lingua francese. Qui il riferimento di Evola va chiaramente al suo romanzo pedagogico Emilio o dell'educazione (1762) (N.d.C).



(3) Max Nordau ( 1849-1923), pseudonimo di Max Simon Suedfeld, saggista e romanziere, nato in Ungheria ma trasferitosi in Francia. Nei saggi di esordio, Le menzogne convenzionali della nostra civiltà (1883) e Paradossi (1885), condusse un'aspra critica contro le degenerazioni e le convenzioni della civiltà borghese, in nome di un razionalismo di ascendenza positivistica (N.d.C).



(4) Sigmund Freud (1856-1939), il noto medico austriaco fondatore della psicoanalisi. Probabilmente il riferimento di Evola va ad una delle sue ultime opere, Disagio della civiltà (1929) (N.d.C).



(5) Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781), drammaturgo e filosofo tedesco. Come filosofo si dedicò prevalentemente a problemi di religione. Il riferimento di Evola va forse all'opera del 1780 L'educazione del genere umano (N.d.C).



(6) Ci si dovrebbe riferire a Gustav Bergmann, nato a Vienna nel 1906 (era ancora vivo nel 1993). Appartenente al Circolo di Vienna, sin dai primi anni Trenta criticò il neopositivismo come «metafisica dell'antimetafisica». È soprattutto un filosofo del linguaggio (N.d.C).



(7) Ludwig Klages (1872-1956), filosofo e psicologo tedesco. In una delle sue opere principali, Spirito e vita (1935), mette in opposizione due concetti: la vita comprende le facoltà intuitive ed impulsive che consentono all'uomo d'immedesimarsi col flusso cosmico originario; lo spirito, invece, comprende le facoltà intellettive che danno luogo alla civiltà concepita come un mondo artificiale che sempre più isola l'uomo dal cosmo per chiuderlo in una rete di forme e simboli astratti. Nella volontà di potenza, tecnica e ideale, che caratterizza la civiltà occidentale, Klages vede l'espressione dell'opera negatrice e dissolvitrice dello spirito (N.d.C).



di Julius Evola

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