giovedì 19 marzo 2009

IMMIGRAZIONE, UNA RISORSA… PER CHI?

L’immigrazione è generalmente considerata una risorsa, io invece la considero una sconfitta, anzi una duplice sconfitta.


Una sconfitta per i paesi d’origine che si dimostrano incapaci di assicurare un futuro ai loro figli costringendoli ad abbandonare la propria terra, i propri affetti, le proprie abitudini per cercare fortuna, dopo aver rischiato a vita a bordo di una carretta del mare, in paesi spesso inospitali. Come accadeva ai nostri nonni, quando con la valigia di cartone legata con lo spago in mano, leggevano esterrefatti all’ingresso dei bar della Svizzera interna cartelli con scritto: “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”.



Rappresenta una sconfitta per i paesi di approdo per gli inevitabili conflitti sociali che ne derivano quando, come nel nostro caso, il fenomeno raggiunge proporzioni di massa. Il telegiornale lo vediamo tutti i giorni e cos’è se non un bollettino di guerra? Questo accade perchè insieme agli immigrati che sbarcano a frotte sulle nostre coste con i migliori propositi ve ne sono tanti altri che giungono a noi con l’intento di delinquere. Come si fa a distinguerli? Non c’è l’hanno mica scritto in fronte che sono malviventi…. A questi si aggiungono coloro che un lavoro non lo trovano o che lo perdono e che, inevitabilmente, finiscono nei circuiti delinquenziali. Non è un caso che metà della popolazione carceraria sia costituita da extracomunitari. Non che gli italiani siano dei santarelli, tutt’altro e i fatti di cronaca lo dimostrano, ma agli spacciatori italiani si aggiungono gli spacciatori albanesi, agli stupratori italiani si aggiungono gli stupratori rumeni, alla mafia italiana si aggiunge quella cinese, russa e albanese. Senza contare la recrudescenza di rapine e furti nelle abitazioni nonostante la militarizzazione del territorio con telecamere ad ogni angolo di strada e forze di polizia, carabinieri, militari, vigili, vigilantes e ronde più o meno padane a presidiare i quartieri, (neanche durante il Fascismo c’era una presenza così massiccia e capillare di forze dell’ordine eppure, allora, si poteva dormire con le finestre aperte, mentre ora siamo costretti a barricarci in casa con allarmi e porte blindate…).



A questo punto dobbiamo domandarci a chi giova l’immigrazione, che molti si ostinano a considerare una risorsa, valutato l’altissimo costo sociale ed anche economico che tutti noi siamo chiamati a sostenere. Anche gli immigrati infatti si ammalano e vanno curati a spese dello Stato, le case popolari non bastano e ne vanno costruite di nuove anche per loro, davanti agli uffici degli assistenti sociali la coda dei disperati è sempre più scura. Adesso gli immigrati regolari versano i contributi, ma domani anche loro andranno in pensione e saranno a nostro carico.



La realtà è che l’immigrazione più che una risorsa per l’Italia è una convenienza per molti, come dimostra il paradosso che stiamo vivendo: da un lato italiani disoccupati o in cassa integrazione, famiglie alla disperazione e giovani senza futuro e dall’altro immigrati che invece un lavoro lo trovano. In tutti i settori della nostra economia dall’industria ai servizi, dall’artigianato all’agricoltura, troviamo stranieri che fanno gli stessi lavori degli italiani.



Perfino al sud, dove la disoccupazione è cronica, nella raccolta del pomodoro sono utilizzati quasi esclusivamente immigrati che accettano di lavorare dodici ore al giorno sotto il sole cocente di luglio per trenta/quaranta euro. E fanno pure i razzisti, infatti i cosiddetti caporali, anch’essi immigrati, ingaggiano solo i loro connazionali.



Al mercato, dietro le bancarelle si vedono sempre più facce orientali. Nelle case dei ricchi i domestici filippini sono d’obbligo (fanno tendenza). Fate caso ai camionisti, autotrasportatori e padroncini, vi accorgerete che sono quasi sempre stranieri. Elettricisti, idraulici, imbianchini, cuochi, manutentori e magazzinieri parlano spesso lingue a noi incomprensibili….E siamo solo all’inizio.



Se gli immigrati un lavoro lo trovano e gli italiani no cosa significa? Che siamo diventati un popolo di lazzaroni? Che i nostri giovani non hanno più voglia di lavorare? Che consideriamo degradante perfino fare l’operaio? Sicuramente c’è del vero in queste affermazioni: molti italiani più che al lavoro ambiscono al posto, molti disoccupati lo sono solo per il fisco, molti figli piuttosto che sporcarsi le mani preferiscono farsi mantenere dai genitori… ma bastano queste considerazioni a spiegare un fenomeno, quello dell’immigrazione più o meno clandestina, regolare o irregolare che sia, in forte e continua crescita?



La verità è che gli stranieri, come accennato nel caso della raccolta del pomodoro, a prescindere dal tipo di occupazione, sono preferiti sempre di più agli italiani. I nostri imprenditori scelgono gli immigrati per il semplice motivo che costano meno e rendono di più. Sono disponibili a lavorare in nero, non fanno storie quando gli si chiede di lavorare 10/12 ore al giorno per poche centinaia di euro, per dormire si accontentano di una branda in una fabbrica abbandonata o sono disposti a lasciare parte del loro magro compenso al datore di lavoro per un posto letto in un tugurio, se cadono dall’impalcatura nessuno se ne accorge, nei laboratori clandestini dove si produce per le grandi firme i cinesi vivono e dormono sul posto lavoro….tutte condizioni indegne per un paese civile, ma accettabili per chi proviene dall’Africa più nera o dai balcani squassati dalla guerra o dalla Cina dei campi di lavoro e che fanno la fortuna dei tanti, tantissimi imprenditori italiani senza scrupoli e coscienza.



Gli extracomunitari che trovano un’occupazione regolare sono invece preferiti agli italiani perché si dimostrano più bravi, più volenterosi e maggiormente motivati: sanno che se perdono il lavoro si giocano il permesso di soggiorno e questo li porta a sopportare qualunque sopruso e a qualsiasi richiesta del padrone italiano rispondono sempre di si.



Perfino negli ospedali troviamo infermieri stranieri. Questo non perché gli italiani considerino il lavoro nelle corsie degradante, basta andare in Svizzera dove sono pagati meglio per capirlo, ma perché le assunzione avvengono tramite gare d’appalto affidate alle cooperative che per abbassare i costi utilizzano infermieri dell’est, diplomati e spesso laureati. Lo stesso accade nell’edilizia dove una volta i dialetti più diffusi erano il meridionale e il bergamasco adesso è invece una babele di lingue. La distribuzione dei volantini e delle rubriche telefoniche, che in passato permettevano ai nostri ragazzi di arrotondare la paghetta e, in alcuni casi, di mantenersi agli studi, è affidata esclusivamente agli immigrati.



Fino a qualche anno fa gli industriali del nord poteva scegliere tra un lavoratore lombardo ed uno meridionale. Adesso hanno di fronte un lombardo, un meridionale ed un extracomunitario. Chi si offre a meno?



Il partito di Bossi ha sponsorizzato un film sulle 5 giornate di Milano, per le comparse chi pensate abbiano utilizzato, giovani padani? Neanche per sogno, un migliaio di rumeni ingaggiati direttamente nel loro paese. La giunta provinciale di Varese a guida nordista non ha battuto ciglio quando, per i mondiali di ciclismo dello scorso anno, il ricco mercato dei gadget è stato affidato a ditte cinesi invece che alle industrie del nord (e poi tappezzano le nostre città con manifesti con cui denunciano l’invasione dei prodotti made in China).



Anche in questo caso le ragioni del soldo prevalgono su tutto, anche sulla fede padana.



A Milano intieri quartieri sono in mano ai cinesi che hanno acquistato, pagando in contanti e senza battere ciglio, appartamenti e attività commerciali. Da chi comprano immobili e negozi se non da quegli stessi italiani che poi si lamentano per la loro presenza?



Per non parlare di Malpensa dove tutto passa attraverso pseudo cooperative che per attività manuali quali catering, pulizie e facchinaggio utilizzano quasi esclusivamente extracomunitari, gli unici in grado di accettare condizioni di lavoro da terzo mondo.



Quando i nostri industriali, partiti e sindacati lanciano l’allarme occupazione, quando il governatore di Bankitalia Draghi si straccia le vesti per i contratti a termine che non saranno rinnovati, quando il governo con i nostri soldi sostiene l’industria dell’auto e la cementificazione del territorio….quando gli uomini che contano ci esortano a creare nuovi posti di lavoro a chi si riferiscono, agli italiani o agli immigrati?



Tutti noi siamo chiamati a fare sacrifici, ma a quale scopo, per dare un futuro ai nostri giovani, per dare un lavoro ai nostri disoccupati o per sostenere l’immigrazione ad esclusivo vantaggio di certi imprenditori?



Il buon senso ci porterebbe considerare gli italiani prima degli immigrati, come una madre in caso di difficoltà aiuta prima suo figlio e poi il figlio di uno sconosciuto, invece la convenienza politica e le ragioni dell’economia - sempre più dominata dalla finanza e dalla logica del puro profitto - vanno da tutt’altra parte e stridono con i bisogni di un popolo in difficoltà.



Alla base di questo fenomeno, solo in apparenza contraddittorio, vi sono convinzioni ideologiche e vantaggi economici che mettono d’accordo tutti: i partiti, da destra a sinistra, gli imprenditori e anche la Chiesa. A farne le spese sono, come al solito, gli italiani.



Per la destra il principio cardine del capitalismo - il fatidico libero mercato - porta i nostri politici e imprenditori che si riconoscono pienamente in questa ideologia, a non fare distinzione tra italiani e stranieri. Per loro i lavoratori sono solo dei mezzi di produzione, una sorta di articoli di magazzino da usare quando servono e da eliminare quando diventano un costo. Se sono stranieri tanto meglio, rendono di più, costano di meno e si cacciano più facilmente e poi li fanno sentire moderni, democratici e altruisti….quasi, quasi dei benefattori.



Come faccia la destra di Fini a conciliare il suo decantato principio di identità nazione con la massiccia immigrazione è poi un mistero.



La sinistra, legata al mito della società multietnica, non pare interessata alle sorti dei nostri operai altrimenti si batterebbe per eliminare questa concorrenza sleale ai loro danni. Non lo fanno, gli eredi di Marx, per diluire la nostra identità e perché sono nostalgicamente legati al mito dell’uguaglianza: tutti uguali di fronte alla miseria. E poi pensano, o meglio si illudono, di indottrinarli facilmente per colmare i vuoti nelle fila dei loro tesserati.



La Chiesa, infine, per un mal compreso senso di solidarietà. Se per una madre suo figlio viene prima di tutti ed è disposta a qualunque cosa per il suo bene, per la Chiesa, che ha una visione sovranazionale e non si riconosce nel concetto di Patria, non vi è differenza tra italiani e stranieri. Sono tutti figli di Dio, quindi ben vengano i nuovi diseredati che si aggiungono ai nostri sofferenti, con la differenza che i nuovi venuti una fede già ce l’hanno, e non è quella cattolica….e poi, diciamola tutta, per alcune associazioni umanitarie come la Caritas che percepiscono fior di quattrini dallo Stato per l’assistenza agli immigrati, l’immigrazione rappresenta un bel business.



Su queste considerazioni, che già di per sé basterebbero per squalificare i nostri politici e a comprendere l’affanno della Chiesa, sovrasta l’ideologia capitalista.



Il capitalismo appunto, malattia infantile di un’Europa alla deriva. Nato trecento anni fa dalla mente perversa di un economista fallito, certo Adam Smith, si esprime attraverso il principio del libero mercato. Libero mercato è la ricerca a tutti i costi della convenienza economica, a prescindere da qualunque considerazione di ordine etico, sociale, di interesse nazionale o di semplice buon senso.



Il capitalismo - da non confondere con la libertà d’impresa e con la proprietà privata che sono sempre esistiti in quanto insiti nella natura umana e che hanno contribuito allo sviluppo delle civiltà, quelle vere - ha un solo obiettivo, il profitto ed una sola regola, il mercato.



“Meno stato e più mercato”. Questo slogan demenziale ha portato, solo per fare alcuni esempi, a distruggere le nostre arance, le migliori del mondo, per importare gli agrumi da Israele e dalla Spagna, a multare i nostri allevatori per poi acquistare il latte dalla Francia, a chiudere le fabbriche in Italia per spostare la produzione all’estero, ad abbandonare interi settori manifatturieri per importare gli stessi prodotti da Cina, Pakistan o India, ed ora ad assumere immigrati.



E lo Stato? Tace e acconsente, anzi si compiace perché il principio del libero mercato è rispettato. Non fa nulla se dipendiamo sempre di più dall’estero, che non abbiamo più una nostra economia e che ci siamo legati a filo doppio a quella americana.



Dipendenza economica significa anche dipendenza politica, ne sono la riprova le 113 basi militari americane (alcune nucleari) sul nostro territorio e mantenute con i nostri soldi, gli oltre 10mila soldati italiani all’estero a sostenere, a nostre spese, le guerre volute da Bush, la nostra politica estera scodinzolante e il peso politico internazionale praticamente nullo.



L’Italia, anche nel recente passato, ha invece dimostrato di saper camminare con le sue gambe e di non aver bisogno d’immigrati per prosperare. Durante gli anni trenta si è modernizzata ed ha primeggiato in tutti i settori dell’economia, nella tecnica e nella ricerca, nei difficili anni della ricostruzione ha saputo risalire la china fino a diventare una potenza economica. Tutto questo grazie allo spirito d’iniziativa ed alla voglia di fare dei nostri imprenditori che credevano nella loro attività, perché consapevoli che facendo grande la loro impresa facevano grande l’Italia e grazie all’impegno dei nostri operai e impiegati che vedevano nella fabbrica la loro seconda famiglia. Lavoravano duro, ma con la tranquillità del posto fisso e la certezza della pensione. Agevolati in questo dai governanti dell’epoca il cui unico obiettivo era il bene dell’Italia e degli italiani.



Se oggi, come vogliono farci credere, la nostra economia dipende dagli immigrati è perché la nostra classe imprenditoriale ha perso la sua coscienza sociale e il suo amor di Patria per abbracciare l’ideologia capitalista. Con il pretesto della “competitività sui mercati internazionali” (bella frase) i nostri capitani d’industria, a seconda della convenienza, assumono mano d’opera immigrata per abbassare i costi, trasferiscono all’estero la produzione, oppure si convertono in semplici e redditizi importatori dalla Cina. In altri casi (vedi Cirio e Parmalat) usano gli utili d’impresa per avventate speculazioni di borsa che trascinano nel baratro aziende sane. Scandaloso è il comportamento della Fiat che dopo aver usufruito per decenni di aiuti di Stato sposta la produzione dei suoi modelli di punta in Polonia e Brasile. L’Indesit, altro esempio eclatante di questi giorni - ma l’elenco potrebbe continuare a lungo - incassa il sostegno del governo alla vendita di elettrodomestici e come ringraziamento chiude il suo stabilimento in Italia, licenzia gli oltre 600 lavoratori e riapre in Polonia. E il governo? E i nostri politici di destra e di sinistra? E i sindacati? Non hanno nulla da dire? La stessa opinione pubblica, sempre più rassegnata e resa apatica, non reagisce, allarga le braccia e continua a subire.



Anche il sud del mondo non va certo meglio, sta infatti soffrendo anch’esso le conseguenze nefaste del capitalismo globalizzato. Dopo le rapine delle potenze coloniali dei secoli scorsi, nei Paesi dei terzo mondo privi di risorse naturali si era avviata un’economia di sussistenza, semplice e primitiva, ma che garantiva a quelle popolazioni stremate dalla fame perlomeno la sopravvivenza e creava i presupposti per un successivo sviluppo. Quello che si produceva in agricoltura, pastorizia e pesca serviva principalmente a loro e solo le eccedenze venivano esportate.



Poi sono arrivate le multinazionali che con il pretesto degli aiuti umanitari hanno imposto le monocolture e la scandalosa produzione dei biocarburanti (coltivazioni per ricavarne benzina e gasolio) destinate esclusivamente all’esportazione. Tutto ciò di cui quelle popolazioni avevano bisogno e che in precedenza producevano in proprio viene ora importato, naturalmente dalle stesse multinazionali e pagato a caro prezzo.



E qui entrano in gioco il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale prodighi di prestiti subordinati alla completa trasformazione dell’economia di sussistenza in economia di mercato per l’esportazione. In più, parte di quel fiume di dollari che legano a filo doppio quei paesi condannandoli a pagare per sempre tassi d’interesse usurai, finiscono nelle casse dei dittatorelli di turno che li usano per acquistare armi, vendute naturalmente dagli occidentali e così quei dollari ritornano da dove sono venuti. Rappresentativa è l’immagine del bambino africano denutrito con al suo fianco il miliziano ben pasciuto, che spara all’impazzato a bordo di una camionetta. Manca il cibo, ma non le armi, manca l’acqua, ma non la benzina per i militari.



Non va meglio per i paesi del sud più progrediti. Sono diventati anch’essi preda del capitalismo mondializzato che impianta fabbriche per la produzione dei soli beni di largo consumo per l’occidente, il resto deve essere importato a caro prezzo e, anche in questo caso, il cerchio si chiude ad esclusivo vantaggio delle multinazionali. Questa è quella che gli economisti chiamano globalizzazione e che molti confondono con la libera circolazione degli uomini e delle idee, quando invece la globalizzazione o mondialismo altro non è che l’estensione planetaria del libero mercato, gestito dalla multinazionali e controllato dall’alta finanza.



Non è un caso che le due più grandi crisi, quella del ’29 e quella attuale, siano di origine finanziaria e che siano partite dall’America, sede delle maggiori corporations e dei grossi gruppi che controllano il mondo. In entrambi i casi operazioni di borsa avventate e bolle speculative fuori controllo hanno causato danni irreparabili alle economie reali di tutti i paesi.



Interessante, riguardo alla crisi del 1929, è il caso dell’Italia che fu appena sfiorata da quel ciclone. In quegli anni tutte le economie occidentali di stampo capitalista furono colpite da una recessione spaventosa che portò alla disoccupazione di massa - basti pensare ai 6milioni di disoccupati della Germania e al tasso di disoccupazione dell’America che passò dal 4 al 25% mentre i tre quarti dei contadini furono ridotti alla fame – all’iperinflazione che obbligò la Repubblica di Weimar ad emettere una banconota da 5miliardi di marchi, che tuttavia non bastava per acquistare il pane (chi aveva la fortuna di trovarlo), all’aumento impressionante della violenza di strada, suicidi, alcolismo, famiglie alla disperazione e giovani allo sbando.



L’Italia invece ne rimase indenne, questo perché il regime fin dal suo avvento si adoperò per gettare le basi di una solida economia nazionale finalizzata, per quanto possibile, all’autosufficienza, soprattutto in campo alimentare e riparata dai grandi giochi internazionali di borsa (vedi il rafforzamento della lire sulla sterlina, la cosiddetta quota novanta). Ricordate la tanto sbeffeggiata campagna per il grano? Ebbene servì a ridurre la dipendenza dall’estero, a risanare terre incolte e a dare lavoro ai nostri contadini, anche se si sapeva benissimo che importare il grano dall’Argentina costava meno.



Un vasto piano di opere pubbliche e di risanamento ambientale contribuì ad assorbire la disoccupazione e a rilanciare l’economia e, cosa non secondaria, a sottrarre manovalanza alla Mafia che fu costretta, anche grazie al pugno duro del Regime, ad espatriare in America dove trovò, non a caso, terreno fertile (salvo poi ritornare in Patria a “liberazione” avvenuta).



Ma fu soprattutto lo Stato Sociale a mettere al riparo i nostri lavoratori dai contraccolpi della crisi internazionale. Istituiti come l’INPS, l’INAL, l’Istituto Case Popolari, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, l’assistenza sanitaria gratuita e la scuola pubblica accessibile a tutti, gli assegni familiari, la scala mobile per l’adeguamento dei salari, i contratti collettivi di lavoro, le ferie pagate, la liquidazione, le colonie estive per i figli degli operai e altro ancora permisero di limitare i danni e a dare serenità agli italiani, nonostante la soppressione dei partiti.



Altri Istituti come l’IRI e il CNR aiutarono le industrie in crisi a riconvertirsi. Il controllo dello Stato sulle banche e la nascita di grandi istituti bancari come il Credito Italiano fecero il resto. Tutti interventi estranei ai principi dell’economia di mercato e in contrasto con i dogmi del capitalismo.



Lo Stato Sociale fascista fu poi malamente ripreso da Roosevelt con il cosiddetto New Deal che, applicato in un contesto capitalistico come quello americano, non sortì alcun effetto, infatti la depressione si protrasse fino al 1940 e solo l’entrata in guerra, con il conseguente impulso derivante dall’industria degli armamenti, permise all’America di uscire dalla crisi. Ancora oggi la produzione delle armi esportate in tutto il mondo (a sostegno della democrazia, si dice) rappresenta una voce primaria per l’economia USA.



Ora ci risiamo, ancora una volta il giocattolo degli economisti si è rotto e tutti ne facciamo le spese. Solo che non siamo negli anni trenta, quel poco di Stato Sociale rimasto è degenerato nell’assistenzialismo e i nostri politici, sindacati e imprenditori non sanno vedere oltre il capitalismo, per giunta assistito e parassitario.



Come uscirne? Basta superare l’ideologia e tornare al buon senso, agendo da subito sulla leva fiscale per incentivare l’assunzione dei nostri disoccupati: meno contributi a chi assume italiano e più tasse a chi impiega mano d’opera straniera e maggiori sanzioni per chi l’utilizza in nero. Vedrete che, a parte l’accusa di razzismo dei soliti ben pensanti con la pancia piena, il fenomeno degli sbarchi andrà a ridursi perchè verrà meno la motivazione, ossia la possibilità di trovare facilmente e comunque un’occupazione.



Agevolazioni a chi produce in Italia e maggiori oneri per chi importa dall’estero a scapito delle nostre aziende (vuoi la felpa fatta in Cina? La paghi di più). Accordi internazionali bilaterali di cooperazione e libero scambio tra governi e senza la mediazione delle banche per importare ciò che ci manca, o che non siamo in grado di produrre, ed esportare ciò in cui eccelliamo. Superamento delle assunzioni a termine, sostegno all’apprendistato e introduzione del principio di partecipazione dei lavoratori agli utili delle grandi Aziende con l’ingresso di una rappresentanza sindacale nel Consiglio di Amministrazione. Mutuo sociale per il diritto alla proprietà della casa, abitazioni realizzate direttamente dalle Regioni, senza fini speculativi e senza le costose intermediazioni di banche e agenzie immobiliari.



E i soldi? I soldi ci sono, basta saperli usare. Sapeste quanti ne sono sprecati in opere inutili e spesso incompiute, quanti soldi gettati al vento per farci belli agli occhi del mondo o per compiacere i vari Gheddafi, quanti quattrini versiamo ogni anno all’Europa, fondi che solo in parte ci vengono restituiti sotto forma di finanziamenti per progetti spesso di dubbia utilità, quanti soldi se la lotta all’evasione fosse condotta seriamente…e per carità cristiana mi fermo qui.



Se poi il nostro esercito di politici, governanti e amministratori di società pubbliche rinunciassero solo ad una parte dei lori lauti stipendi, spesso immorali e ingiustificati, si libererebbero ulteriori risorse, oltre a dare un segnala forte di vicinanza agli italiani che soffrono a causa delle loro scelte sbagliate (dubito però che da quest’orecchio i nostri politici ci sentano).



Vogliamo uscire e in fretta da questa crisi? Allora finiamola una volta per tutte di pensare a ricette ideologiche vecchie e superate, che hanno creato solo danni, ingiustizie e grandi profitti per i soliti noti e adoperiamoci per costruire una solida economia nazionale in un rinnovato Stato Sociale. E solo allora, avendone nel frattempo creato i presupposti economici, potremo pensare alle popolazioni del sud del mondo che stanno sicuramente peggio di noi.



Gianfredo Ruggiero, presidente Circolo Excalibur - Varese

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