lunedì 25 febbraio 2008

Famiglia "fragile ed esausta", la politica può fare qualcosa.

Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Leonardo Varasano uscito sul Giornale dell'Umbria lunedì 18 Febbraio 2008.



Premessa politicamente scorretta: la famiglia di cui si va a parlare qui di seguito è la famiglia tradizionale, quella - per così dire - biblica, fondata sull’unione tra uomo e donna.



Fatta questa necessaria - visto il momento storico - precisazione, proviamo a chiederci quale sia lo stato di salute della famiglia italiana. È vero, come ha scritto Francesco Alberoni, che è sempre più “fragile ed esausta”? A dar retta ai numeri, algidi come al solito, sembrerebbe proprio di sì.



Iniziamo dai divorzi, dalla crisi della forma-famiglia fondata sul matrimonio. Il 2006 è stato un anno da record: secondo il ministero della Giustizia si è passati dai 27.000 divorzi del ’95 ai 47.000 del 2005 fino agli oltre 60.000 del 2006, con un incremento del 25% in soli 12 mesi. Senza contare le intenzioni di divorzio, ovvero quelle coppie che “vorrebbero divorziare ma non lo fanno per ragioni economiche”. Una progressione inesorabile, figlia del cambiamento della morale pubblica, ma non solo. Perché ci si divide? Le statistiche dicono che la causa principale è “il progressivo deterioramento del rapporto” (un’elegante perifrasi che non dice nulla); seguono l’insofferenza verso la vita coniugale, ragioni economiche, litigi, tradimenti e via dicendo. Fanno pendant con questo florilegio di motivazioni le ragioni che più frequentemente annullano le nozze religiose (il “divorzio cattolico”): il narcisismo, la propensione alla poligamia, la “persistente tendenza a dire bugie” e il “gioco d’azzardo patologico”. A volte, “separarsi non solo è lecito” ma “addirittura inevitabile” perché il matrimonio non può trasformarsi in una “trafila di reciproche scorrettezze”: parola di Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano. Da noi per divorziare servono 3 anni - e chi gestisce le vicende legali guadagna bene: il giro d’affari fattura ogni anno dai 500 milioni al miliardo di euro -, mentre nel resto d’Europa si va dal “divorzio on-line” inglese, ai 4 anni necessari per l’ordinamento polacco. In Germania si parla addirittura di “matrimonio a tempo”, eventualmente rinnovabile ogni 7 anni. Fin qui numeri e cause. Che però non rendono conto dei drammi sottesi ai distacchi, quelle tante “guerre dei Roses” sparse anche nel nostro Paese. A Bologna, per superare rancori e sofferenze legate alla separazione, a volte pari ad un lutto, è stata aperta una “Clinica della crisi”. I media danno troppo spesso un’immagine deformata di separazioni e divorzi: i personaggi dello spettacolo sembra lo facciano con leggerezza e allegria. Nessun monito che provenga dalle urla di disperazione e di odio, dal “male di vivere”, dalle difficoltà quotidiane della vicinìa. Nessuno, o quasi, che spieghi che divorziare non è come cambiar casa. Tutto sembra precario, transeunte, prêt-à-porter: il lavoro, i sentimenti, le relazioni interpersonali. Ha ragione Lucetta Scaraffia, la quale parlando del crepuscolo del ballo si è chiesta: “E poi ci stupiamo della fragilità di unioni nate da persone che non hanno provato ad accordare i loro passi neppure per il breve tempo di una canzone?”. Non è un caso che la vita affettiva, spesso disordinata, inclini verso forme paramatrimoniali (secondo l’Istat nascite e nozze, sempre più spesso multietniche, sono sotto la media europea, mentre aumentano sia le unioni di fatto che i nati fuori dal matrimonio).  



Già con quanto descritto fin qui, c’è da non sposarsi mai, da rifugiarsi in un eremo. Altro che “mito dell’androgino”. Ma non è finita. In famiglia si consumano ancora la maggioranza delle violenze sulle donne, mentre i rapporti di vicinato sono sempre più segnati da quella che l’etologo Konrad Lorenz definiva come la “patologia da urbanizzazione”: l’aggressività. Passiamo ai figli. Per soccorrere i genitori - entrambi obbligati a lavorare - mancano asili nido, scuole e college diurni, dove i ragazzi possano essere controllati e al tempo stesso co-educati. Il risultato? Secondo Save the children i bambini si “educano” da soli, con internet. Sembra di udire Homer Simpson - il capofamiglia dell’omonimo cartone animato - quando dice: “Che ci vuole a fare il padre? Ormai i figli si crescono da soli, con intercity, internet, inter… nos!”. Fa sorridere, ma deve far riflettere.



Disarcionato Prodi, siamo ormai in campagna elettorale. Sulla psiche e sulle coscienze è difficile intervenire. Ma la politica, anche in Umbria, può e deve far molto per rimuovere le cause che possono portare all’atrofia dell’istituto familiare. Con le sue difficoltà, con le sue miserie, la famiglia resta sempre la culla originaria dove si soffre e dove, forse più spesso, si gioisce insieme.

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