sabato 5 giugno 2010

Il laboratorio della repressione.


Si narra che nella Roma classica - ci riferiamo a qualche secolo fa e, dunque, siamo liberi di poter dubitare dell’autenticità di quanto raccontato senza per questo correre il rischio di venir in alcun modo tacciati - l’Imperatore Caligola ebbe una stravagante trovata che trasformò subito in applicazione: ordinò dal giorno alla notte, senza alcuna apparente spiegazione, che tutti i calvi di Roma venissero sacrificati nell’arena, divorati da fiere rese feroci da giorni di astinenza dal cibo. Pura follia e unanime condanna da parte degli storiografi contemporanei. Nulla da eccepire. Eppure, se Caligola potesse oggi difendersi dalla comprensibile condanna dei suoi posteri, siamo convinti che gli argomenti non mancherebbero al bizzarro e loquace despota romano, considerando soprattutto che la pena di morte era in tempi antichi una misura frequentemente usata - come oggi avviene solo in Cina, in USA ed in qualche altro odierno stato incivile - anche dalle nostre parti. Non è detto che le ipotetiche arringhe auto-difensive di Caligola sarebbero convincenti, ma varrebbero almeno a restituire agli occhi dell’opinione pubblica un profilo d’umanità al truce dittatore. Sì, perché al tentativo di giustificarsi, gesto che implica un’umanissima necessità di assoluzione, da sempre consegue, se non il perdono, almeno la comprensione. Ma Caligola, appunto, da qualche secolo non può più parlare e la sua figura è costretta a sorbirsi il biasimo senza possibilità di difendersi. A differenza di Caligola, chi oggi detiene i mezzi e la forza di potersi difendere può invece venire assolto dall’opinione pubblica. Anche a fronte delle peggiori malefatte. In cosa consistono i mezzi e la forza a cui facciamo riferimento? Nel controllo dell’informazione (non tutta) e nell’ottenimento di una posizione di comando, anzi, della posizione di comando per antonomasia: una posizione istituzionale. Il riferimento allo Stato, al suo braccio armato nella fattispecie, non è casuale. Questi strumenti sono stati applicati tante, innumerevoli volte, probabilmente in altrettanti casi non è sopraggiunto neanche il bisogno di dover ricorrere ad essi: episodi di abusi accadono presumibilmente con cadenza tristemente frequente ma sono sottaciuti o non dimostrabili da chi li subisce. Il mese scorso, precisamente il 5 maggio, qualche furfante telecamera impugnata da qualche osservatore sbigottito, ha fatto sì che la polizia di stato dovesse ricorrere a tali strumenti. Sì, perché le immagini degli abusi del reparto celere nei pressi dello Stadio Olimpico sono state registrate in modo amatoriale, inviate ai TG ed ora, data anche l’indignazione mediatica che hanno provocato, varranno come elemento in sede processuale. Ma veniamo con ordine, spiegando correttamente quanto accaduto e perché. Lo scorso 5 maggio all’Olimpico di Roma si è giocata la finale di Coppa Italia tra Roma e Inter. Il dispiegamento di forze di polizia è stato massiccio, le misure restrittive nei dintorni dello stadio imponenti; questo, onde evitare si verificassero scontri tra due tifoserie contrapposte e istigate da un clima d’odio intorno al calcio particolarmente intenso durante questo finale di stagione. Inoltre, la tribuna autorità era quella sera frequentata da massimi esponenti del mondo politico e di tutto si sarebbe voluti parlare il giorno dopo, fuorchè di un flop nella gestione dell’ordine pubblico. In pochi avevano dunque previsto potessero esserci scontri nel pre o nel post gara. Invece, non è stato così. Nel leggere dai giornali la mattina seguente del numero degli arresti avvenuti nei pressi dell’Olimpico sembra di imbattersi in un bollettino da guerra civile: undici persone finiscono con le manette ai polsi. Strano, poichè il clima - e lo dice chi quella sera era presente sugli spalti - non lasciava certo presagire nulla di così pesante. Ma chi allo stadio quella sera non era presente, leggendo degli undici arresti avvenuti, avrà senz’altro pensato ci sia stata una guerriglia con obiettivo le forze dell’ordine. Almeno undici di chissà quanti facinorosi sono finiti dietro le sbarre! Meno male! - avrà esclamato qualche fanatico dell’ordine pubblico. A proibire che questa teoria si cristallizzasse tra le coscienze collettive arriva però un breve servizio del TG3: si tratta di un video, inviato in redazione da un abitante nei pressi dello stadio che lo ha girato col telefonino da una finestra di casa, in cui si vedono dei celerini bloccare un motorino transitante con sopra due persone, le quali vengono accolte da manganellate ingiustificate. Il TG3 si mette successivamente in contatto coi familiari del ragazzo alla guida del motorino intervistandoli, i quali sostengono che il figlio non c’entrasse nulla con la partita (addirittura pare non sia neanche tifoso), che stesse andando con un amico ad una festa e che ora si trova detenuto (in spregio di ogni garanzia giuridica), in cella d’isolamento con diverse escoriazioni, un dente rotto e sei punti di sutura in testa per le botte prese dalla polizia, senza che potesse convincerli della sua estraneità alla partita dell’Olimpico. Anzi, la stessa polizia voleva costringerlo a firmare un foglio, dopo il fermo, in cui egli avrebbe dichiarato di voler rinunciare alle cure mediche. I due servizi del TG3 innescano uno scenario mediatico alquanto preoccupante per la polizia di stato: le televisioni mandano in onda altri video dai quali si evincono, chiaramente, i rastrellamenti ingiustificati della celere ai danni di gente inerme nei pressi dello stadio. La fuga di un ragazzo, preso di mira dalla furia in casco e manganello, viene stroncata volutamente dalla manovra di un’auto della polizia che lo investe. Le immagini scomode, mandate in onda da alcune televisioni, sembrano finalmente aver aperto una breccia nel mondo dell’informazione, infatti anche la carta stampata si occupa di quanto accaduto e dà voce a chi solitamente voce non ha: le vittime degli abusi di potere e/o i loro famigliari. Per diversi giorni fanno notizia i fatti dell’Olimpico e si viene a sapere che tra coloro, sfortunati, che sono finiti nella rete degli arresti ci sarebbero almeno sette persone assolutamente estranee a logiche di scontri con la polizia (gli altri, tra cui dei minorenni, sono stati arrestati per il tentativo di scavalcare). A questo punto, a fronte della comprensibile condanna dell’opinione pubblica per quanto mandato in onda e per quanto sostenuto dalla voce delle vittime finalmente non priva di risonanza mediatica, la polizia si vede costretta a dover giustificare l’atteggiamento, eufemisticamente, autoritario. Si giustifica sostenendo che le persone, i cui arresti vengono ripresi dalle telecamere, indossano tutte una giacca rossa, stesso colore di quella di un presunto teppista che le forze dell’ordine stavano cercando in mezzo ai tifosi, precedentemente prodigatosi nel lancio di una bottiglia all’indirizzo della celere. In tal modo l’opinione pubblica si rasserena, indicando nella provocazione, nella violenza di un gruppo di facinorosi il motivo di certa esasperazione che quella sera ha caratterizzato il reparto celere. Tante scuse agli arrestati, rassicurazioni (solo verbali, sia chiaro!) di provvedimenti interni verso gli autori degli eccessi e tutti felici e contenti. Insomma, se Caligola potesse ancora oggi difendersi dalle accuse di sanguinario despotismo, forse sosterrebbe a sua discolpa che alcune voci, giunte ai propri orecchi dal bisbiglio attendibile di qualche spia, lo mettevano in guardia da una congiura pronta a sferrarsi contro di lui, messa in atto da un gruppo di sovversivi all’ordine imperiale accomunati dall’usanza di raparsi il capo. Il suo accanirsi nei confronti dei calvi - con le giuste proporzioni storiche, sociali, antropologiche - troverebbe uguale comprensione dell’accanirsi della polizia, lo scorso 5 maggio presso l’Olimpico di Roma, verso gli indossatori di abiti rossi. E’ bene essere realisti ed individuare una spiegazione all’innalzamento del livello repressivo da parte dello stato, a seconda della contingenza storica e del contesto sociale in cui il provvedimento repressivo viene attuato. Ebbene, nel mondo degli stadi, per iniziativa del ministro degli interni Maroni, è in atto una vera e propria opera di bonifica di tutte quelle realtà giovanili organizzate, comunitarie, estranee a logiche di compromesso con le autorità, che rappresentano un motivo di preoccupazione per lo stato. Quest’opera di bonifica verrà presto attuata attraverso l’applicazione della cosiddetta “tessera del tifoso”, una schedatura massificata di tutti i frequentatori degli stadi, discriminatoria verso una categoria di persone: coloro i quali hanno avuto in passato problemi giudiziari legati al mondo del tifo, anche se hanno ormai scontato la loro pena. Essi saranno così inibiti a poter usufruire dei servizi di questa tessera: acquistare un abbonamento o poter seguire la loro squadra in trasferta. Questo provvedimento liberticida - ponendosi lo scopo di voler rivoluzionare una realtà come quella del tifo, storicamente radicata nel “belpaese” e conservatrice nei suoi costumi - necessita di un casus belli convincente agli occhi dell’opinione pubblica. Presto spiegato il “furore celerino” di quel 5 maggio. Ancora una volta in Italia, lo stadio diviene per lo stato un laboratorio repressivo.
 
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