Continua la pressione militare sulle aree Karen. Gli interessi mondialisti in gioco.
Numerosi scontri a fuoco di ridotta intensità stanno avendo luogo in questi giorni tra l’esercito birmano coadiuvato da una fazione di Karen collaborazionisti (DKBA, Democratic Karen Buddhist Army) e i giovani del K.N.L.A. (Karen National Liberation Army). I combattimenti sono concentrati soprattutto nell’area di Waley Khee, dove “Popoli” ha una delle sue cliniche, e attorno a Mu Aye Pu, sede di un’altra delle nostre tre strutture sanitarie. Per il momento le abbondanti piogge della stagione monsonica pare abbiano rallentato i preparativi della grande offensiva birmana, attesa già nelle scorse settimane dai guerriglieri Karen e preannunciata dai pesanti attacchi iniziati nel mese di marzo. La tensione resta alta, anche perché i Birmani continuano a far confluire truppe a ridosso delle roccaforti Karen, e questo fa presupporre l’intenzione di Rangoon di portare a termine l’operazione di “pulizia” nei confronti dell’esercito di liberazione. L’obiettivo è quello di cacciare da queste zone la popolazione attraverso i rastrellamenti e la distruzione di villaggi e colture in modo da isolare i combattenti e privarli del supporto logistico fornito dai civili. I segnali che arrivano dall’area non sono buoni. Per chi ritiene che il “mondialismo”, ovvero la politica di aggressione nei confronti delle identità dei Popoli condotta dalle oligarchie finanziarie attraverso gli agenti più disparati (siano essi eserciti di regimi dittatoriali o truppe che esportano la democrazia), sia all’origine di buona parte delle ingiustizie e degli squilibri dello scenario internazionale, è facile vedere come anche in questo scenario gli interessi economici minaccino la vita e la libertà di centinaia di migliaia di persone. Abbiamo già evidenziato in passato il coinvolgimento di importanti multinazionali statunitensi, francesi e britanniche nei progetti di sfruttamento delle risorse energetiche della Birmania (oggi Myanmar). Progetti che per essere realizzati hanno implicato la deportazione, l’uccisione, lo stupro e il lavoro forzato degli abitanti originari dei territori attraversati dalle strutture multimilionarie. Avevamo anche sottolineato come le sanzioni economiche e i veti posti nel 1988 dal Congresso americano a nuovi investimenti nel Paese avessero di fatto avvantaggiato proprio quelle compagnie che già operavano in Myanmar e che quindi si erano ritrovate sole a beneficiare dei proventi dell’impresa. Recentemente nuovi interessi contribuiscono a mettere in ulteriore difficoltà le etnie che lottano per la propria autonomia. La confinante Thailandia, storico avversario della Birmania, ha incrementato nell’ultimo decennio il valore degli scambi commerciali con il vicino in maniera esponenziale. Inoltre, si sono firmati importanti accordi per la costruzione di dighe sul fiume Salween, in Birmania, che forniranno ingenti quantità di energia elettrica alla Thailandia sommergendo allo stesso tempo ampie fette di territorio Karen, con catastrofiche conseguenze per la popolazione e per l’equilibrio ecologico. I lavori di costruzione delle dighe hanno portato nuove truppe nell’area, nuovi attacchi ai villaggi, nuove deportazioni e violenze. L’ex avversario storico, il governo di Bangkok che un tempo guardava con benevolenza all’etnia Karen che costituiva un utile cuscinetto di sicurezza tra i due stati, negli ultimi anni ha cambiato radicalmente atteggiamento. I Karen sono diventati scomodi. Minacciano la buona riuscita dei progetti scaturiti dagli accordi commerciali, infastidiscono il regime di Rangoon, causano incidenti che possono mettere a rischio le relazioni diplomatiche tra questo e i nuovi militari saliti al potere a Bangkok. Così, mentre anche in sedi internazionali (O.N.U. e U.E.) si invita il regime birmano ad accelerare le annunciate riforme democratiche (a vantaggio di una soluzione che dovrebbe vedere un giorno Aung San Suu Khyi a capo di un governo demo – liberista), la silenziosa repressione dei Popoli in lotta per l’autodeterminazione prosegue. L’istanza della richiesta di autonomia e di garanzia per la preservazione dell’identità culturale e linguistica del Popolo Karen è assolutamente inesistente nelle agende della diplomazia internazionale. Ovvio. Il Mondialismo, dicevamo, ha altri progetti. E tra questi c’è l’eliminazione di ogni resistenza al disegno di omologazione culturale. In questo senso, anche l’impresentabile narcodittatura del Myanmar è funzionale ed utile nel momento in cui contribuisce alla distruzione di Popoli originari, dalle profonde radici. Di Popoli che, pensate un po’, ancora credono che nella Madre Terra e nelle acque dei loro fiumi incontaminati vivano gli Spiriti creatori. E che per questo sono disposti a sacrificare la loro vita. Un domani, anche la democrazia dovrà fare i conti con loro, e allora quelli che oggi vengono chiamati (a fini propagandistici fin troppo conosciuti) “freedom fighters”, “combattenti per la libertà”, diventeranno loschi “warlords”, “signori della guerra”, se oseranno proseguire, come secondo noi è logico che facciano, la loro battaglia in difesa dell’identità. Attorno al massacro dei Karen, a debita distanza per non sporcarsi troppo, stanno quei Paesi che siedono alle luccicanti tavole rotonde dei summit finanziari internazionali: la Cina, principale partner del Myanmar, l’India, coinvolta nello sfruttamento energetico, Singapore, fondamentale cassa di riciclaggio per i proventi dell’eroina birmana e insostituibile polo di triangolazione con Israele per l’approvvigionamento di armamenti. Paesi che hanno il blasone conferito da esaltanti tassi di crescita economica, e che quindi hanno accesso al “salotto buono”. Dittature o democrazie, multinazionali o aziende statali di stampo veteromarxista (ne esistono ancora ?), banche, comitati di affari, trafficanti di stupefacenti: tutti assieme, appassionatamente. Alcuni giovani leader combattenti Karen questo lo hanno capito bene. “Quando la democrazia arriverà a Rangoon” – ci hanno detto – “la nostra lotta dovrà proseguire, perché nessuno al mondo può negarci il diritto di rimanere un Popolo. E questo diritto lo pagheremo con il sangue”. Ecco perché la Comunità Solidarista Popoli resta al loro fianco.
Franco Nerozzi – Comunità Solidarista Popoli - Onlus
www.comunitapopoli.org
Numerosi scontri a fuoco di ridotta intensità stanno avendo luogo in questi giorni tra l’esercito birmano coadiuvato da una fazione di Karen collaborazionisti (DKBA, Democratic Karen Buddhist Army) e i giovani del K.N.L.A. (Karen National Liberation Army). I combattimenti sono concentrati soprattutto nell’area di Waley Khee, dove “Popoli” ha una delle sue cliniche, e attorno a Mu Aye Pu, sede di un’altra delle nostre tre strutture sanitarie. Per il momento le abbondanti piogge della stagione monsonica pare abbiano rallentato i preparativi della grande offensiva birmana, attesa già nelle scorse settimane dai guerriglieri Karen e preannunciata dai pesanti attacchi iniziati nel mese di marzo. La tensione resta alta, anche perché i Birmani continuano a far confluire truppe a ridosso delle roccaforti Karen, e questo fa presupporre l’intenzione di Rangoon di portare a termine l’operazione di “pulizia” nei confronti dell’esercito di liberazione. L’obiettivo è quello di cacciare da queste zone la popolazione attraverso i rastrellamenti e la distruzione di villaggi e colture in modo da isolare i combattenti e privarli del supporto logistico fornito dai civili. I segnali che arrivano dall’area non sono buoni. Per chi ritiene che il “mondialismo”, ovvero la politica di aggressione nei confronti delle identità dei Popoli condotta dalle oligarchie finanziarie attraverso gli agenti più disparati (siano essi eserciti di regimi dittatoriali o truppe che esportano la democrazia), sia all’origine di buona parte delle ingiustizie e degli squilibri dello scenario internazionale, è facile vedere come anche in questo scenario gli interessi economici minaccino la vita e la libertà di centinaia di migliaia di persone. Abbiamo già evidenziato in passato il coinvolgimento di importanti multinazionali statunitensi, francesi e britanniche nei progetti di sfruttamento delle risorse energetiche della Birmania (oggi Myanmar). Progetti che per essere realizzati hanno implicato la deportazione, l’uccisione, lo stupro e il lavoro forzato degli abitanti originari dei territori attraversati dalle strutture multimilionarie. Avevamo anche sottolineato come le sanzioni economiche e i veti posti nel 1988 dal Congresso americano a nuovi investimenti nel Paese avessero di fatto avvantaggiato proprio quelle compagnie che già operavano in Myanmar e che quindi si erano ritrovate sole a beneficiare dei proventi dell’impresa. Recentemente nuovi interessi contribuiscono a mettere in ulteriore difficoltà le etnie che lottano per la propria autonomia. La confinante Thailandia, storico avversario della Birmania, ha incrementato nell’ultimo decennio il valore degli scambi commerciali con il vicino in maniera esponenziale. Inoltre, si sono firmati importanti accordi per la costruzione di dighe sul fiume Salween, in Birmania, che forniranno ingenti quantità di energia elettrica alla Thailandia sommergendo allo stesso tempo ampie fette di territorio Karen, con catastrofiche conseguenze per la popolazione e per l’equilibrio ecologico. I lavori di costruzione delle dighe hanno portato nuove truppe nell’area, nuovi attacchi ai villaggi, nuove deportazioni e violenze. L’ex avversario storico, il governo di Bangkok che un tempo guardava con benevolenza all’etnia Karen che costituiva un utile cuscinetto di sicurezza tra i due stati, negli ultimi anni ha cambiato radicalmente atteggiamento. I Karen sono diventati scomodi. Minacciano la buona riuscita dei progetti scaturiti dagli accordi commerciali, infastidiscono il regime di Rangoon, causano incidenti che possono mettere a rischio le relazioni diplomatiche tra questo e i nuovi militari saliti al potere a Bangkok. Così, mentre anche in sedi internazionali (O.N.U. e U.E.) si invita il regime birmano ad accelerare le annunciate riforme democratiche (a vantaggio di una soluzione che dovrebbe vedere un giorno Aung San Suu Khyi a capo di un governo demo – liberista), la silenziosa repressione dei Popoli in lotta per l’autodeterminazione prosegue. L’istanza della richiesta di autonomia e di garanzia per la preservazione dell’identità culturale e linguistica del Popolo Karen è assolutamente inesistente nelle agende della diplomazia internazionale. Ovvio. Il Mondialismo, dicevamo, ha altri progetti. E tra questi c’è l’eliminazione di ogni resistenza al disegno di omologazione culturale. In questo senso, anche l’impresentabile narcodittatura del Myanmar è funzionale ed utile nel momento in cui contribuisce alla distruzione di Popoli originari, dalle profonde radici. Di Popoli che, pensate un po’, ancora credono che nella Madre Terra e nelle acque dei loro fiumi incontaminati vivano gli Spiriti creatori. E che per questo sono disposti a sacrificare la loro vita. Un domani, anche la democrazia dovrà fare i conti con loro, e allora quelli che oggi vengono chiamati (a fini propagandistici fin troppo conosciuti) “freedom fighters”, “combattenti per la libertà”, diventeranno loschi “warlords”, “signori della guerra”, se oseranno proseguire, come secondo noi è logico che facciano, la loro battaglia in difesa dell’identità. Attorno al massacro dei Karen, a debita distanza per non sporcarsi troppo, stanno quei Paesi che siedono alle luccicanti tavole rotonde dei summit finanziari internazionali: la Cina, principale partner del Myanmar, l’India, coinvolta nello sfruttamento energetico, Singapore, fondamentale cassa di riciclaggio per i proventi dell’eroina birmana e insostituibile polo di triangolazione con Israele per l’approvvigionamento di armamenti. Paesi che hanno il blasone conferito da esaltanti tassi di crescita economica, e che quindi hanno accesso al “salotto buono”. Dittature o democrazie, multinazionali o aziende statali di stampo veteromarxista (ne esistono ancora ?), banche, comitati di affari, trafficanti di stupefacenti: tutti assieme, appassionatamente. Alcuni giovani leader combattenti Karen questo lo hanno capito bene. “Quando la democrazia arriverà a Rangoon” – ci hanno detto – “la nostra lotta dovrà proseguire, perché nessuno al mondo può negarci il diritto di rimanere un Popolo. E questo diritto lo pagheremo con il sangue”. Ecco perché la Comunità Solidarista Popoli resta al loro fianco.
Franco Nerozzi – Comunità Solidarista Popoli - Onlus
www.comunitapopoli.org
Nessun commento:
Posta un commento