giovedì 23 ottobre 2008

QUESTA E’ UNA CITTA’ PER VECCHI: IL CEMENTIFICIO DELLE IDEE.





Il dott. Andrea Cernicchi  probabilmente è il meno intellettualmente sprovveduto, avendo conseguito una laurea in filosofia, tra i suoi colleghi amministratori. Di ciò gli sia dato atto. E’ così che è la sua firma di assessore alle politiche culturali e giovanili del Comune di Perugia a siglare il breve preambolo apposto sugli opuscoli pubblicitari di “le arti in città”, kermesse stradaiola destinata a rinfrancare i perugini con gli esiti ultimi della cultura contemporanea calata nello spazio urbano. Ho provato a interpretare la cifra ideologica dell’ operazione, dissimulata nel gergo intellettualistico, nelle parole adoperate da commissari del popolo, artieri, capocomici ed istrioni per descrivere il mirabolante intento cui s’ erano destinati. Un ideologia che tradisce  la sostanziale omogeneità dell’ espressione artistica contemporanea al mercato e alla tecnica, e che nell’ ibrido e nel meticcio, o di fronte all’ esito estetico  ultimo della loro mescita che è il ‘virtuale’, provoca il momentaneo  appagamento narcisistico di cui gongolano gli intellettuali borghesi. La città viene presentata da costoro secondo la categoria informatica dell’ “interfaccia”, vale a dire di un  “dispositivo di collegamento in grado di assicurare la comunicazione tra due sistemi informatici altrimenti incompatibili” (vocabolario della lingua italiana devoto-oli). Essendo anche la nostra città, a modo di vedere dei Dott. Pettirossi e Barboni, gli organizzatori in persona  di “le arti in città”, divenuta “policentrica”,  ecco che per far dialogare i “nuovi centri” periferici (quelli nella merda), col centro storico (…) occorre dotarsi di un nuovo linguaggio. Anzi: “lo strumento adottato qui è quello della pluralità dei linguaggi”. Già, la ‘pluralità’ dei linguaggi… E dunque  multidisciplinare, di necessità, deve essere pure la riflessione “volta ad indagare il rapporto uomo-città”: a tale scopo si è scelto - evidentemente a ragion veduta- l’interno dell’ ex carcere maschile di piazza partigiani.  Ma “stili diversi si confrontano e dialogano”, immancabilmente, pure all’ esposizione collettiva del pgruppe art committee, laddove performers donne saranno, bontà loro,  addirittura mescolatrici del tempo che “utilizzeranno il passato per divertirsi e divertire, come quando s’indossano vecchi indumenti fuori moda.” (?) L’idea di città e di cittadino venerata dall’ intellighenzia borghese perugina  sembra essere quella del “fluxn’remix”, orripilante espressione da loro utilizzata che immortalerà il momento prevedibilmente apicale della manifestazione umbra: l’ “esperienza immersiva collettiva nel flusso di internet grazie ad un allestimento multi schermo ed al suono avvolgente” (sti cazzi).  La città di oggi, ci viene insegnato, “è sia vaso che fertilizzante”, è il contenitore  in cui la “persona intesa quale umana energia e la macchina-installazione comunicano”.  All’insegna della trance cromatica avverranno invece le successive “in-fusioni” di corpo e musica, di corpo e immagine e  infine di corpo e voce del mutante vegetale umbro.  Ma anche qui il colore, così come nella società multirazziale, è alienato dalla propria originaria unicità per essere reso sempre disponibile,  manipolabile e spendibile nel mercato dell’ anonimato di massa.  Che dire? A ridosso di questa incontinenza comunicativa della società dello spettacolo, di questo  villaggio di farina integrale dove una nicchia di privilegiati blasè dialogano e si confrontano, si ‘raccontano’, portano per sovra mercato il sacco di farina altrui, vi è la città reale, fatta di alienazione, solitudine, violenza, degrado dei luoghi veri, dei corpi reali, del linguaggio autentico. Una città  policentrica, forse, ma sicuramente intasata e classista,  che piazza i suoi figlioli snob nell’industria culturale, laddove si decide d’ufficio chi parla e chi no, chi può confrontarsi e chi no, chi può raccontarsi e chi no.  E “chi può” sono loro, i figli di papà della sinistra “falce e carrello”: con una mano sul carrello della coop e con l’altra sul culo della puttana nigeriana: sono loro i veri prodotti dell’ americanizzazione culturale, individui narcisisti e piccolo borghesi che amano spiare ed essere spiati, voyeuristi ed esibizionisti che piazzano ovunque telecamere poliziesche facendole passare per opere d’arte postmoderne. Sono loro che hanno bisogno di interfacce, web-cam, spazi virtuali e feedback perché non sanno cosa significa abitare, costruire, pensare, combattere.  tentano di persuaderci maliziosamente che la babele di linguaggi esotici  e sfaldati messi a cozzare l’uno contro l’altro senza ritmo  possa in qualche modo produrre la misurata plasticità di una parola ben detta. E che la confusione o l’infusione o l’infezione possano compensare l’afasìa che attanaglia la persona e la stringe nel vuoto del non senso,  nei saturnali grevi della globalizzazione.  Gongolano nel venderci surrogati di realtà come merci preziose ma sono solo alla ricerca  di  celare le proprie deformità  e giustificare il proprio flatus voci in vortici informatici, nel rutilante flusso di codici privi di un senso. I nostri addetti alla cultura brillano per assenza di  barlume critico nei confronti delle dinamiche più problematiche di una modernità bulimica e sempre più in crisi, e di cui prolungano i viluppi tecnologici opprimenti, le maglie asfittiche. Da una parte troviamo una comunicazione spazzatura fatta di rutti scoregge coccarde tricolori tettone e culi (quella de “destra”); dall’ altra abbiamo le cineserie, i bizantinismi, i vuoti paralogismi pseudo intellettuali e buonisti (quella de “sinistra”): come al solito ci vogliono schiacciare sulla logica binaria delle macchine e delle galline, sempre a chiederci se siamo chic o pop  Proprio perché viviamo come in un mondo orwelliano, quello di Farenheit 451: dolcemente fluide, impercettibili, cangianti, le catene che questa gentaglia vuole stringerci intorno alle menti sono di gran lunga più insidiose e subdole, oltre che efficaci, di quelle fabbricate nel passato.  Costoro millantano una città “policentrica”: hanno ragione, se si riferiscono ai centri commerciali.  Ma sono in malafede e senza alcun senso del ridicolo, come gonfi efebi del Basso Impero: promuovono l’espressione artistica ‘urbana’  dopo che i paparini hanno varato un piano urbano di mobilità (il famigerato PUM) a dir poco ‘eccentrico’… a conferma (superflua) di una reificazione dell’ arte - e degli artisti- piegati  indignitosamente ai desiderata dei consigli di amministrazione dei cementifici e dei mulini bianchi. Se la loro città è “vaso e fertilizzante”, jungerianamente porteremo il bosco dei ribelli ovunque.



Articolo di M.C. tratto da "Il Monolite"


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