PER IL LAVORO, PER LA PATRIA…
Filippo Corridoni è uno di quei personaggi che ci sa rendere orgogliosi del nostro paese, come pochi altri. Sconosciuto ai più, la sua storia è diventata, sin dall’immediatezza della sua morte, un simbolo e d un esempio di vita per molti ragazzi e per molti lavoratori, che vedevano nelle allora nascenti idee del sindacalismo rivoluzionario una speranza ed una ragione di rivolta. Nei primi anni del secolo scorso, erano ancora molto forti le influenze di Georges Sorel, in tutti quegli ambienti del lavoro che rifiutavano l’idea sempre più assestata nell’area del socialismo ufficiale, della necessità di un partito socialista interno al sistema politico parlamentare, e di un sindacato confederale. L’idea sorelliana, al di là delle implicazioni teoretiche e della storica contrapposizione del mito vitalistico-rivoluzionario rispetto alla cosiddetta “utopia” marxista, sostanzialmente si basava su di un sindacalismo che prevedesse la difesa autonoma e diretta dei lavoratori, e il sovvertimento dello Stato borghese in uno Stato del Lavoro, senza alcuna mediazione di terzi. Tra il 1907 e il 1909, in pieno fermento operaio, si trova a Parma, dove guida, assieme al carismatico Alceste de Ambris, pesanti rivolte contadine, portando avanti uno dei più serrati e potenti scioperi del proletariato agrario. Proprio a Parma, concentrerà la sua più audace attività sindacale, intervenendo con acume e lucidità critica, sulle colonne de L’Internazionale, rivista della Camera del Lavoro sindacalista rivoluzionaria del capoluogo emiliano. Arrestato, fuggì a Lugano, per poi rientrare, dopo un’amnistia, nel 1910, nel modenese. Nel frattempo, collaborò con altre due riviste legate alla Camera del Lavoro e guidate da Edmondo Rossoni: Bandiera Proletaria e Bandiera del Popolo. La strada intrapresa dal Partito Socialista Italiano era chiara da tempo: un ingresso nella normalità democratica del Paese, tentando la via del riformismo. Corridoni non si arrese mai a questa prospettiva e perseguì anche a Milano, nel biennio 1910-1912, il suo tentativo di introdurre nel sindacato il metodo organizzativo basato sull'unità produttiva e sul ruolo qualificato dell'addetto: questo metodo, era il suo pensiero, avrebbe portato a nuovi tipi di relazioni industriali, ma nel contempo introdotto un principio interclassista dal punto di vista politico. Nel momento della scissione interna alla CGdL, che diede vita all’Unione Sindacale Italiana (USI), moltissimi seguaci del Sindacalismo Rivoluzionario tentarono l’approdo a questa nuova formazione, sperando in una ripresa forte del sindacalismo italiano di base. Quando l’Italia partì per l’impresa coloniale in Libia, Corridoni attaccò impietosamente la monarchia e il governo, mostrando una contrarietà molto tenace all’interventismo e al sistema borghese dell’Italia giolittiana. Questo malcontento ramificato all’interno delle masse lavoratrici, non sorprendeva più di tanto ormai, ma nessuno avrebbe mai potuto prefigurare, anche con la più espansa fantasia, la terribile Settimana Rossa. Si tratta del comizio antimilitarista convocato il 7 giugno (anniversario dello Statuto), per protestare contro le "Compagnie di disciplina", contro il militarismo, contro la guerra, e a favore di Augusto Masetti e Antonio Moroni, due militari di leva. Il primo, rinchiuso come pazzo nel manicomio criminale (aveva sparato al suo colonnello prima di partire per la guerra in Libia), e l'altro inviato in una Compagnia di Disciplina per le sue idee (era sindacalista rivoluzionario). Essendo quella del 7 giugno una giornata piovosa, si decise di procrastinare il comizio alle ore 18 alla "Villa Rossa" sede del partito repubbicano di Ancona. Alla presenza di circa 600 persone, repubblicani, anarchici e socialisti, parlano il segretario della Camera del Lavoro, Pietro Nenni, Errico Malatesta per gli anarchici e Marinelli per i giovani repubblicani. Dalla Villa si decise di muovere verso la vicina piazza Roma dove si stava tenendo un concerto della banda militare. La forza pubblica, volutamente distribuita su due ali in modo da bloccare l'accesso alla piazza e far defluire in fila indiana verso la periferia della città la folla, dopo aver avvisato i manifestanti con ripetuti squilli di tromba, iniziò a picchiare indiscriminatamente anche donne e bambini, mentre dai tetti e dalle finestre delle case furono lanciati pietre e mattoni. Alcuni colpi di pistola vennero esplosi, probabilmente da una guardia, ed i carabinieri, credendoli (secondo la loro versione) partiti dalla folla, aprirono il fuoco: spararono circa 70 colpi. Tre dimostranti furono uccisi: Antonio Casaccia di 24 anni, Nello Budini di 17 anni, repubblicani, morirono all'ospedale e l'anarchico Attilio Gianbrignoni di 22 anni morì sul colpo. Vi furono anche cinque feriti tra la folla e diciassette tra i carabinieri. Il clima fu pesantissimo per settimane, e Corridoni venne efferatamente attaccato dalle colonne del Corriere della Sera, e additato quale agitatore di conflitti e scontri di piazza. Questo episodio segnò indissolubilmente la vita di Corridoni, che maturò sempre più posizioni sindacaliste rivolte all’interventismo. I suoi rapporti con Mussolini, all’epoca direttore dell’Avanti, furono sempre abbastanza gradevoli, ma divennero persino saldi e decisi, allorquando, l’ala interventista, interna al PSI, capeggiata dal futuro artefice del fascismo, raccolse molti consensi all’interno degli ambienti socialisti e sindacalisti e riunì le varie sigle sotto il nome dei Fasci d’Azione Rivoluzionaria. Corridoni riteneva che la sconfitta delle nazioni reazionarie e plutocratiche potesse in qualche modo favorire la posizione sociale dell’Italia, a partire anzitutto dal miglioramento delle classi operaie, sempre più schiacciate verso sé stesse, tanto internamente (Stato, Monarchia, padronato) quanto esternamente (imperi coloniali, reti creditizie). Partito volontario, ma minato dalla tisi, che lo affliggeva da anni, fu assegnato ai servizi di retrovia; ciononostante insisté per essere inviato al fronte: ci riuscì e partecipò ai combattimenti sul Carso, dove trovò la morte per ferita d'arma da fuoco in seguito a un assalto alla trincea austriaca. Risultò così profetica la sua affermazione eroica: "Morirò in una buca, contro una roccia o nella corsa di un assalto ma, se potrò, cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora!". Venne insignito della Medaglia d’Argento al Valor Militare, convertita in una Medaglia d’Oro nel 1925 per volere di Benito Mussolini.
«Soldato volontario e patriota instancabile, col braccio e la parola tutto se stesso diede alla Patria con entusiasmo indomabile. Fervente interventista per la grande guerra, anelante alla vittoria, seppe diffondere la sua tenace fede fra tutti i compagni, sempre di esempio per coraggio e valore. In testa alla propria compagnia, al canto di inni patriottici, muoveva fra i primi e con sereno ardimento all’attacco di difficilissima posizione e tra i primi l’occupava. Ritto, con suprema audacia sulla conquistata trincea, al grido di “Vittoria! Viva l'Italia!” incitava i compagni che lo seguivano a raggiungere la meta, finché cadeva fulminato da piombo nemico.»
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