martedì 6 maggio 2008

Socializzazione.

La storia dimentica quello che non vale la pena ricordare. Se qualcosa del passato, nonostante tutto, continua ad essere oggetto di disputa (storica e politica...) è perché contiene valore: se non valesse nulla, nessuno si accanirebbe a negarlo (quel valore...) e nessuno, a parte gli scemi, perderebbe un attimo del suo tempo ad affermarlo... Nonostante tutto e il contrario di tutto, il fascismo agita ancora parecchie passioni, anche se non sempre per le ragioni fondamentali della sua storia vera e, soprattutto, della sua vera eredità... E l’eredità del fascismo - io credo - è scritta nel suo testamento... Si può rifiutare un’eredità in toto: perché, no? Nessuno deve essere costretto ad accettare un’eredità che non vuole... Ma se, putacaso, la rivendica... oh! allora, non si scappa: quel qualcuno deve osservare le prescrizioni della volontà testamentaria. E la prescrizione ereditaria del fascismo ha un nome solo e preciso: socializzazione...



Partiamo da un dato di fatto: la socializzazione non è una teoria, non è un dogma, non è un atto di fede... La socializzazione è una praxis. Una prassi, in quanto tale, richiede la continua messa a punto delle tecniche e delle modalità d’applicazione. Per quanto affezionati al modello che la storia del fascismo ci ha lasciato in eredità, se volessimo applicarlo (quel modello...) in maniera pedissequa, alla lettera, difficilmente lo renderemmo utilizzabile oggi: fra una società (per di più in guerra: e che guerra...) in cui le imprese industriali, agrarie e commerciali erano ancora di proprietà del capitalismo (chiamiamolo...) familiare e la società del turbocapitalismo finanziario che ha nelle organizzazioni trans e super nazionali (Fmi, Bm, etc...) e nelle banche private i veri centri di proprietà (delle imprese...), non vi sono punti di sutura talmente efficaci da rendere trasferibile, sic et simpliciter, il modello originario al nostro dato tempo... Ma quell’eredità (del fascismo, intendo...) non è una reliquia: non deve essere custodita e venerata, bensì convertita in valore di spesa corrente...



Per quanto occorre stabilire, abbrevierò la definizione di socializzazione a quel che segue:



socializzazione = divisione delle responsabilità dell’impresa (a), dei suoi utili (b) e reinvestimento produttivo e sociale del super profitto che eventualmente ne deriva (c)...



Procediamo a ritroso e partiamo dal terzo postulato (c): reinvestimento produttivo e sociale del super-profitto. Ora, in un contesto come il nostro che si fonda proprio sulla logica del super-profitto, per di più a qualunque costo, chiedere (o imporre, ammesso che lo si possa...) ai nuovi proprietari delle imprese (l’aristocrazia finanziaria di cui si diceva sopra: banche etc..) di rinunciare alla loro logica, può voler dire scatenarli nell’esercizio che gli riesce meglio: affamare stato e popolo (l’ancòra recente caso Argentina insegna...). Si può pretendere tanto? No, per il momento, non si può. Come diceva Benito Mussolini: “La natura non procede a salti... e nemmeno l’economia...”. Pretendere, in maniera estremista, tutto e subito è la chiosa di rivoluzionari destinati a rimanere per sempre allo stato infantile (così diceva, più o meno, Lenin e, infatti, il più grande reazionario di tutti i tempi, Stalin, che gli succedette, non avanzò di un millimetro sulla via del “tutto il potere ai soviet”, cioè ai consigli autonomi di impresa, anzi: retrocesse, e di molto, dalle premesse e promesse iniziali...). Il rivoluzionario adulto, invece, procede per gradi. E secondo i gradi del possibile...



Sul postulato (b): divisione degli utili, il discorso diventa possibilista. Ma, prima di inoltraci nel dettaglio, sarà bene esporre un breve excursus sulla figura dell'operaio.



L’operaio (cioè: il prestatore d’opera variamente inteso...) è stato educato e indotto (da oltre sessant’anni di proliferante persuasione liberal-socialista, yes...) a difendere due cose: il posto di lavoro fisso e il salario... Il turbocapitalismo (nell’ultimo decennio o giù di lì...) ha quasi dissuaso il prestatore dopera dal pretendere l’inalienabilità del “posto fisso”: il lavoro interinale ha ormai una voce in capitolo di bilancio (nel mercato delle imprese...) al meno pari, se non superiore, a quello del lavoro a tempo indeterminato... I sindacati istituzionali mediano quel che possono (poco e male...) ma, alla lunga (non troppo...), si arriverà alla completa (o quasi...) mobilità della forza lavoro. In media analisi, il messaggio, appena sottinteso dal turbocapitalismo, è questo: un posto di lavoro vale un altro, l’importante è il salario (cioè il reddito sicuro: sicuro almeno finché il contratto precariale lo garantisce...). Un rivoluzionario italiano, tal Mazzini Giuseppe, propagandava, invece, esattamente il contrario: rinunciare alla sicurezza del salario e pretendere, piuttosto, la piena proprietà e responsabilità (dell’operaio...) della e nell’impresa in cui è occupato. Occorrerebbe, per tanto, creare delle isole, dei modelli che incrinino la tendenza imperante: “niente-stabilità-del-posto-di-lavoro = massima sicurezza del salario”, in quest’altra formula, rivoluzionaria ed appropriata:



abolizione-del-salario (almeno di quello in progressione per scala mobile, contingenza etc, lasciando eventualmente un margine al reddito minimo garantito...) = piena proprietà dell’impresa e divisione degli utili.



Quello che va disintegrato, insomma, è il regime salariale che rende l’individuo schiavo del mercato del lavoro e non artefice della fortuna (o della sfortuna...) della SUA (nel senso di proprietà partecipe...) impresa di lavoro... E se non a tanto sia possibile giungere nell'immediato o nel prossimo futuro esiste, pur tuttavia, una mediazione già tangibilmente sperimentata in Francia ed UK, non a caso additate ad esempio dalla risoluzione del Parlamento europeo del 15.1.1998 proprio a proposito de “La promozione della partecipazione dei lavoratori subordinati ai profitti e ai risultati dell'impresa (compresa la partecipazione al capitale)”, e che ne sollecita l'imitazione da parte dei paesi membri inadempienti: Italia in primis. Insomma, un margine utile d’intervento c’è...



E veniamo ora al punto (a) della definizione sopra data di socializzazione: responsabilità dell’impresa.



Essere proprietari di un’impresa, significa assumersi la responsabilità della sua gestione... Che, oggi, e ieri dalla rivoluzione industriale, questa (la responsabilità di gestione dell’impresa...) sia privilegio (e onere...) assoluto del fornitore di capitale, è un avvento storico che ha sottomesso la forza-lavoro all’arbitrio di chi possiede la moneta (i soliti noti...). Situazione, questa, neanche più mediabile dallo stato, avendo (esso: lo stato...) rinunciato, secondo dettame liberista, a qualsiasi ipotesi di intervento nell’economia, se non per cedergli porzioni utili di intraprese pubbliche... Né più (mediabile, né meno...), dallo spauracchio della lotta di classe, diventata, oramai, una icona romantica assolutamente disinnescata dagli attuali assetti del potere politico-economico... Riesumarla (la lotta di classe...) non servirebbe a nulla (e neanche mi interessa...). Occorre perseguire altre vie... Per esempio, il giorno in cui: “saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra in qualunque direzione si eserciti”, come predicava Mazzini, il vizio marxista della contrapposizione di classe sarebbe un insulto alla logica... Così come pure la pretesa del capitale di essere l’unico giostraio dell’impresa... E, proprio come affermava Mazzini: dal momento in cui tutti fossimo responsabili dell’impresa economica, dal momento in cui, cioè, tutti fossimo operai, statene certi la preveggenza di Corridoni si avvererebbe e: “la questione sociale sarebbe definitivamente risolta...”. Potrei, per aggiunta, chiosare sul concetto di “operaio” - definito da Ernst Jünger - “padrone della tecnica” e, quindi, del “destino” di questo dato mondo: ma finiremmo lontani da ciò che qui importa stabilire e, quindi, glisso dal verticale (e vertiginoso...) metafisico per restare nel campo orizzontale della società. E, in questo campo, il possibile da farsi è abbastanza ampio e largamente plausibile, fin anche all’interno dell’attuale legislazione costituzionale, figuratevi un po’... L’articolo 46 della Costituzione della Repubblica italiana, infatti, recita:



“Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.”



Si dirà, allora: quali farfalle andiamo cercando sotto l’arco di Tito? Siamo già nell’era delle condivisione delle responsabilità (dell’azienda, dell’impresa...). Attenzione: leggete bene... L’articolo costituzionale afferma che: “il diritto dei lavoratori a collaborare (...) alla gestione delle aziende è riconosciuto (...) nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi”. Bene, anzi malissimo: si dà il caso che quelle leggi che dovrebbero stabilire “i modi e i limiti della gestione delle aziende” da parte dei lavoratori, non siano mai state promulgate. Proprio così: Una norma della Costituzione italiana è, allo stato d’oggi (dopo sessanta e più anni...), completamente inevasa per mancanza di un’adeguata legislazione applicativa... E, guarda caso, è una norma che fa la rima a baciare con alcuni concetti fondamentali del Manifesto di Verona e della Costituzione della Repubblica sociale italiana in tema di socializzazione.



Io, che non sono un esegeta della Costituzione della Repubblica italiana, non so come questo art. 46 ci sia capitato dentro. Però, c’è capitato... E, siccome c’è capitato, sarebbe il caso di chiederne l’attuazione... Sarebbe necessario, in altre parole, intraprendere l’iniziativa per una proposta di legge popolare che pretenda - sì, pretenda, porco giuda - la promulgazione di leggi idonee a renderlo operativo...



Il che, poi, non richiede nemmeno un grande sforzo di immaginazione giurisdicente: si tratterebbe solo di estendere ai lavoratori di qualsiasi impresa produttiva quanto ad oggi è previsto dall'articolo 1 della legge Legge 27 marzo 2001, n. 141 per il socio lavoratore delle cooperative e che così, nel passaggio saliente, recita:



(...)

I soci lavoratori di cooperativa:

a) concorrono alla gestione dell'impresa partecipando alla formazione degli organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell'impresa;

b) partecipano alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni concernenti le scelte strategiche, nonché alla realizzazione dei processi produttivi dell'azienda;

c) contribuiscono alla formazione del capitale sociale e partecipano al rischio d'impresa, ai risultati economici ed alle decisioni sulla loro destinazione;

d) mettono a disposizione le proprie capacità professionali anche in relazione al tipo e allo stato dell'attività svolta, nonché alla quantità delle prestazioni di lavoro disponibili per la cooperativa stessa.





È troppo? Bene: che lo vengano a dire ai cinquantamila firmatari della proposta di legge di applicazione che è auspicabile presentare al più presto. E spieghino, anche, la reiterata disattesa delle aspettative della “Carta sociale europea” che da Strasburgo, il 3 maggio 1996, nominalmente ratificata e, sempre nominalmente, messa in vigore con legge italica 9.2.1999, n. 30, al fine di “favorire il progresso economico sociale” dei paesi membri del “Consiglio d'Europa” detta:



art. 21. I lavoratori hanno diritto all'informazione ed alla consultazione in seno all'impresa.



art. 22. I lavoratori hanno diritto di partecipare alla determinazione ed al miglioramento delle condizioni di lavoro e dell'ambiente di lavoro nell'impresa.



E non ci vengano a prendere per i fondelli con la pretesa che questi ultimi due postulati sono di fatto operativi nella pratica delle rappresentanze sindacali. I sindacalisti non sono né previsti né invitati nelle sale effettivamente operative delle imprese aziendali: i consigli di amministrazione, i consigli di gestione e i consigli di sorveglianza. Ed è esattamente qui, in questi consigli, dove si decidono le sorti dell'impresa, che il lavoratore deve affermare il suo diritto alla partecipazione.



Articolo di Miro Renzaglia

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