di Eresia Maxima
La crisi della “destra radicale”:
tra estremismo pre-politico, trasformismo neo-conservatore
e derive nazional-populiste.
La terza sponda della crisi: la deriva nazional-populista e l’abiura della metapolitica
L’ultima sponda che ha devastato la destra radicale è quella nazional-populista; perfettamente in linea con lo scenario di crisi appena prospettato dalle altre due tendenze: pre-politica ed estremistica la prima; di entrismo e trasformismo-post-ideologico la seconda.
Il Nazional-Populismo è figlio di un termine ambiguo partorito dalla leadership rautiana negli anni Ottanta (il termine “nazional-popolare”), che nell’intento originario doveva essere concepito come la totale e naturale influenza della destra radicale e del suo impianto metapolitico nella crescita e nella “rigenerazione” di classi dirigenti che avessero la predisposizione e la tentazione ad essere vere avanguardie rivoluzionarie di popolo. Questo termine viene poi successivamente confuso per anni con gli scenari francesi del Fronte Nazionale di Le Pen, con Haider in Austria o col BNP Inglese, ed ha finito per generare in Italia una miriade di micro-formazioni alla ricerca di una collocazione elettorale distinta ed alternativa alle destre ufficiali (An – Fi – Lega). Dal
Purtroppo la “mal-destra” concorrenza dei leader politici di riferimento, che hanno vissuto e vivono tutt’oggi di rimessa “sugli avanzi del pranzo e della cena” lasciati dal duce Berlusconi, non ha permesso la crescita di uno spazio concretamente autonomo, identificato, radicato, alternativo. Esiste il paradosso che vede sempre la stessa scena: tutti i gruppi più o meno minoritari nazional-populisti, pur utilizzando il medesimo linguaggio minimalista, pur utilizzando gli stessi immaginari, ed avendo pressoché simile il posizionamento politico, invece di creare un unico cartello strategico, entrano in pesante conflitto pre-elettorale per le briciole (conflitto sapientemente etero-diretto dall’ unico grande regista duce-Berlusconi), ed avendo in sé tutti indistintamente il gene regressivo della “vetero-missinità” ducista rinunciano ad una costruzione unitaria condivisa, ad un lavoro per staff, quindi orizzontale, ed alla logica crescita di classi dirigenti sui cosiddetti tempi lunghi. Tutti questi soggetti puntano per definizione all’uovo oggi anziché alla gallina domani. Anche questa terza sponda che interagisce pesantemente con il perimetro meta-politico della destra radicale risulta fortemente “guastata” nel linguaggio ed inadeguata negli immaginari proposti, i quali da un lato non risultano abbastanza forti per arginare le spinte estremistiche pre-politiche sulle quali dovrebbero dominare incontrastati (lo stadio, la musica, la strada) e dall’altro sono percepite invece con tinte troppo fosche ed indesiderate per la società civile da conquistare.
Anche il “nazional-populismo” è supinamente appiattito sulla brutta copia della destra anti-comunista istituzionale, anche il nazional-populismo è seriamente limitato nelle tematiche di difesa ad oltranza del cittadino dall’immigrato invasore islamico e dallo stupratore rumeno, anche il nazional-populismo è tornato ad essere a seconda della prevalenza e del periodo (soprattutto negli immaginari endogeni) neo-fascista, anti-comunista, interventista, squadrista, dannunziano ecc.ecc.ecc. senza tuttavia esserlo nelle scelte finali di natura culturale e politica (anche perché fascisti, interventisti, squadristi e dannunziani, votati tutti al concetto della mobilitazione totale, erano, antropologicamente parlando, tutto tranne che “di destra”).
In realtà non ci si pone la domanda di come venga percepito esternamente tale immaginario e/o se perlomeno risulta essere “differenziato” rispetto all’estremismo pre-politico e/o al neo-conservatorismo post-ideologico.
È soprattutto nella fascia giovanile nazional-populista che “la contro-rivoluzione” sul linguaggio, gli immaginari ed il collocamento politico ha colpito più duramente, e che la destra radicale sta perdendo la sua battaglia di influenza culturale, a tal punto che c’è una sottile polemica strisciante, una sorta di disconoscimento verso tutte le pregresse esperienze, verso tutti i fratelli maggiori destro-radicali, verso tutte le espressioni precedenti e/o collaterali, in nome di un nuovo purismo assoluto, intransigente, pragmatico.
La parola d’ordine è: lasciateci lavorare in pace dove voi avete fallito.
In questa fascia hanno preso piede tutti una serie di “integralismi” possibili ed immaginabili (da quello cattolico a quello neo-squadrista, a quello neo-futurista, ha ripreso spazio un anti-comunismo militante spicciolo di strada, la visione dell’occidente come ultimo “baluardo di purezza razziale assoluta” (ah ah ah!!!), ed il linguaggio si è pesantemente involuto, contratto; le parole d’ordine si sono ridotte a slogan di “micheliniana” memoria che erano già fuori moda nel 1968, e tutti sognano il protagonismo rinnovatore della grande destra anti-comunista ed anti-immigrazione che ci liberi dal peccato originale (amen).
Così mentre “l’occidente tramonta seriamente” ogni giorno di più, sulle perfette intuizioni spengleriane dei primi del ’900 (accettata addirittura ormai da sinistra), i naturali interpreti del pensiero della crisi (la destra radicale) sono alla continua ricerca di improbabili ed impossibili soluzioni di ritorni all’età dell’oro, magari con l’illusione che la perfetta alchimia tra l’estremismo pre-politico, il trasformismo post-ideologico e le derive nazional-populiste generino l’avvento di una nuova meravigliosa “ Thule Iperborea”.
In pochi si rendono invece conto di “ … come sia difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”.
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