lunedì 26 maggio 2008

Responsabilità e serietà per far crescere il sistema Italia.


 



“Pago tante tasse (…) e pago quando sbaglio. In alto, troppa gente non risponde di nulla”. Parole semplici, forse autoassolutorie ma di buon senso. Parole che stupiscono un po’, perché pronunciate - nei giorni scorsi - da Vasco Rossi, l’incarnazione vivente della “Vita spericolata”, non un benpensante qualunque, non un piccolo borghese casa e lavoro. Parole che, in fondo, esprimono un diffuso sdegno verso forme di irresponsabilità sempre più gravi e frequenti.


Il principio è elementare: all’errore - che pure è umano e tendenzialmente degno di pietas - deve corrispondere una sanzione, più o meno rilevante a seconda dei casi. È uno degli architravi su cui poggia l’esistenza stessa di una società. E deve valere per tutti. Anche - anzi, soprattutto - quando a sbagliare sono individui collocati in posizioni-chiave: dirigenti, funzionari, magistrati, politici. Nel nostro Paese, però, accade non di rado che gli appartenenti a questa vasta schiera - ben remunerata anche in virtù dei gravami a cui è sottoposta - siano immuni (o quasi) alla fondamentale logica dell’ammenda. Esistono, insomma, persone a responsabilità limitata; persone, per dirla con Orwell, “più eguali degli altri”; persone che, anche in caso di negligenza, neghittosità e/o conclamate scelte erronee, rimangono imperterrite ed impunite al proprio posto, inghiottite e difese dalla corporazione di turno, dalla turris eburnea degli apparati. Di dimissioni, ovviamente, neanche a parlarne.


Proviamo a fare qualche esempio, tutt’altro che esaustivo. Un caso clamoroso è quello di Napoli, dove nessuno, a ben vedere, è risultato politicamente e materialmente responsabile per l’infinito squallore dei rifiuti. Hanno pagato i partiti, perdendo voti alle ultime elezioni, ma non i diretti interessati: a partire dal governatore della Campania, sono tutti ancora lì, ancorati al proprio posto. Ma fenomeni del genere, con varie gradazioni, si registrano anche in altri ambiti. Si pensi all’epilogo del campionato di serie A. Dopo tante incertezze, l’Osservatorio per le manifestazioni sportive ha vietato la trasferta dei tifosi dell’Inter a Parma, macchiandosi di una valutazione grossolana che solo per caso non ha avuto gravi conseguenze. Da subito è parsa una scelta dettata da un malinteso senso di equanimità, finalizzato a compensare l’assenza dei tifosi della Roma al Cibali. Com’era prevedibile, la vicinanza tra Milano e Parma ha impedito il controllo della situazione. Il risultato? La curva che non doveva esserci, quella nerazzurra, era invece fuori dal Tardini. All’esterno dello stadio, le opposte fazioni si guardano in cagnesco, si studiano. Poi si affrontano. Quattro feriti e un asilo distrutto da qualche minus habens più criminale degli altri. Incidenti evitabili? Chiaramente sì. Qualcuno ha pagato per questa scelta sbagliata? Ancora una volta no.


Dulcis in fundo, si fa per dire, il contesto in cui questa sorta di immunità alligna con preferenza: il nostro farraginoso e bizantino sistema giudiziario. A vent’anni dalla morte di Enzo Tortora - che volle farsi seppellire portando con sé la manzoniana “Storia della colonna infame” -, i casi (gravi) di malagiustizia sono ancora tanti. Troppi. Si pensi alle scarcerazioni incomprensibili o ai clamorosi ritardi: episodi riconducibili a cause diverse e a differenti livelli di responsabilità che però creano sempre inevitabile sconcerto e preoccupazione. Indicativo il caso del giudice di Gela che in otto anni non è riuscito a produrre le motivazioni di una sentenza di primo grado, provocando la scarcerazione di pericolosi boss. Al di là della pur necessaria reprimenda del capo dello Stato, chi ha pagato? Fin ad oggi proprio nessuno: il Csm ha respinto la richiesta di sospensione del magistrato. In circostanze del genere - di fronte a errori rilevanti e non a sviste con poche conseguenze - ci si limita ad un buffetto sulle spalle e ad una raccomandazione pro-futuro. Con buona pace della credibilità delle istituzioni.


Non è giustizialismo o forcaiolismo: chi sbaglia in maniera significativa e non riceve una sanzione corrispondente mina la dignità dello Stato. Gli “ultimi” pagano tutto. E sempre. Perché mai alcuni membri dell’establishment riescono a sottrarsi al principio della giusta pena? Se è vero, come pare, che il vento sta cambiando, che va iniziando il tempo della serietà, si ponga un argine alla irresponsabilità. Iniziamo a non avere paura di fare quello che molti Paesi già fanno: valutare le professionalità, punire gli errori. Ne va della competitività del sistema-Italia. Che non è fatta solo di crescita economica.



Di Leonardo Varasano, uscito su "Il Giornale dell'Umbria" il 26/05/2008.

1 commento:

  1. “Osservazioni” non politicamente corrette



    Durante la scorsa settimana si è sentito molto parlare, più che di calcio giocato, del se era giusto o no mandare i tifosi della Roma a Catania e conseguentemente se era giusto o impari mandare i tifosi interisti a Parma.

    Dopo un lungo campionato di serie A, talvolta molto interessante e bello con una spettacolare rimonta della compagine giallo-rossa e animato dai molteplici passi falsi dei nero-azzurri, si era arrivati ad un finale scoppiettante.

    Due partite che oltre a decretare i campioni d’Italia, avrebbero decretato anche retrocessioni o permanenze in serie A.

    L’osservatorio – che poi tanto osservatore non sembra – aveva negato la trasferta dei capitolini in quel di Catania e poco dopo, viste le minacce dei tifosi della Roma che dichiaravano il loro intento di arrivare a Parma per tifare contro l’Inter, si è deciso di vietare la trasferta anche ai nero-azzurri milanesi.

    Che fosse un provvedimento impari era palese, i romani dovevano percorrere più di 900 Km per arrivare a Catania con il rischio di non poter entrare e di varie conseguenze legali, mentre Milano e Parma sono molto più vicine e già tramite internet e giornali locali gli interisti avevano annunciato che sarebbero partiti lo stesso e che sarebbero rimasti fuori dal “Tardini” a tifare per i propri colori.

    Non ci voleva certo Nostradamus né tanto meno l’osservatorio per capire che vietare l’entrata allo stadio ai tifosi interisti una volta arrivati nella città emiliana avrebbe significato creare disordini.

    E così è effettivamente avvenuto, i giornali on-line e le notizie Ansa sin dal primo pomeriggio parlavano di ultras interisti impazziti che andavano contro tutto e tutti fuori dallo stadio di Parma.

    Si è subito pensato al peggio e come sempre – da buoni giornalisti - si è cercato di ingrossare tutto quello che stava succedendo...

    Ma questa è un’altra storia.

    Le due partite finiscono, la Roma scoraggiata dalle notizie che arrivavano dal campo di Parma finisce in pareggio e l’Inter, vittorioso per due a zero, si aggiudica il sedicesimo scudetto della sua storia.

    A fine partita gli interisti vengono fatti entrare dentro lo stadio per festeggiare con i giocatori e quando riescono, ancora disordini e provocazioni da ambo i fronti.

    Interisti che gridano “serie B” ai rivali e i giallo-blu che ovviamente non ci stanno a rimanere a guardare...

    Questa è su per giù una piccolissima cronaca della giornata di domenica diciotto maggio, ma quello che nessuno si è domandato, o meglio ancora, non ha voluto render pubblico è che per l’ennesima volta è stato commesso un errore.

    Si esatto, un errore.

    Se gli interisti fossero stati mandati a Parma regolarmente, nulla, oltre ai festeggiamenti e al massimo qualche goliardico sfottò, sarebbe successo.

    Non c’è mai stato nulla di grave da segnalare tra le due tifoserie e non c’era motivo, soprattutto in un’occasione del genere, per cui tale rapporto dovesse cambiare.

    Che, almeno questa volta, sia da monito per il futuro.



    Fabio Polese – www.tifogrifo.com

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