martedì 8 aprile 2008

Recensione conferenza laogai e questione tibetana. [Raido]

L’argomento del convegno tenutosi sabato scorso presso i nuovi locali dell’associazione culturale Raido, siti in Roma, via Scirè 21-23, è stato la presentazione del libro “Cina, traffici di morte”. L’attenzione era focalizzata sull’atroce pratica, gestita con piglio manageriale dalle autorità cinesi, della rapina degli organi operata sui malcapitati caduti nelle grinfie della sadica giustizia dagli occhi a mandorla. Relatori: Antonello Brandi e Maria Vittoria Cattanìa, della Laogai Research Foundation Italia. Nell’ambito del convegno è stata dibattuta la spinosa questione della feroce repressione messa in atto dalle autorità comuniste di Pechino nei confronti del popolo tibetano. Testimone e relatore della politica di genocidio etnico e culturale che sta modificando il volto del tetto del mondo è stato Tenzin Thupten, presidente della comunità tibetana in Italia. Subito dopo aver osservato un minuto di silenzio in onore delle 15 vittime cadute giovedì scorso sotto il piombo capital-marxista, Antonello Brandi ha esordito illustrando la situazione dell’universo concentrazionario cinese nel terzo millennio.



Vi sono due categorie di gulag attualmente in esercizio nella repubblica Popolare cinese. La prima è quella del Laogai, vocabolo che nella perfidia metaforica dell’idioma dei mandarini sta a significare “riforma del pensiero”. Naturalmente, leggendo tra le righe della sublime poesia, appare immediatamente la vera laida natura di tale “riforma”. Si tratta infatti dell’aberrante pratica del lavaggio dei cervelli di quei poveracci che, al termine del suddetto “processo di riforma”, sono ridotti a vere e proprie larve umane, vegetali incapaci della pur minima possibilità di reagire o di accennare un pallido simulacro di pensiero indipendente. Fantasmi decerebrati pronti a tradire padre e madre e ad autoaccusarsi delle colpe più nefande, tanta e tale è stata l’intensità della tortura fisica ed emotiva cui sono stati sottoposti. Ridotti in queste condizioni, gli inquilini del Laogai diventano degli automi capaci soltanto di eseguire gli ordini e di lavorare per 18 ore al giorno per una manciata di riso e senza “stipendio”. La seconda categoria di gulag gestita dai tecnocomunisti di Pechino è quella delle vere e proprie fabbriche-lager, dove le condizioni-limite dei Laogai sono rese ancora più penose, vi si mangia se possibile ancora meno, si dorme in 15 sulla nuda pietra (kang) in una stanzetta priva di finestre, che funge pure da w.c. e da camera da pranzo. Paradossalmente, nella via crucis giornaliera di questi parìa del genere umano è contemplata, naturalmente per legge, anche l’”ora di studio” (leggi: indottrinamento). Morti di fame, ma sapientemente edotti di mistica marxista! In queste bolge di sofferenza e di degrado si fabbrica di tutto.


Generi alimentari, abbigliamento, scarpe, giocattoli, materiali elettrici, componenti di macchinari, thè, vino marca Dinasty. Una bengodi per la gioia degli insanguinati portafogli dei paperoni d’Occidente, che, investendo lautamente nell’inesauribile mercato asiatico e producendo merce a prezzi stracciati sfruttando crudelmente vecchi, donne e bambini, possono invadere i nostri paesi con prodotti talmente convenienti da risultare pressoché privi di concorrenza. Wal mart, Nestlè, l’italiana Iveco, Yahoo, sono gli squali che, avidi di guadagno a tutti i costi, non si rendono neppure conto dell’impoverimento della nostra forza produttiva e del depauperamento progressivo dei nostri salari. Grazie a questi Shylock del neocapitalismo globalista si sta arrivando al paradosso di vedere mercati rigurgitanti di merci offerte a prezzi irrisori che fanno le ragnatele perché nessuno - o ben pochi – se le può permettere. Sia i Laogai (circa un migliaio in tutta la Cina) che le fabbriche lager furono istituiti dal “grande timoniere” Mao Tse Tung nel lontano 1950, pare su suggerimento di quell’altro grande “benefattore” dell’umanità che risponde al nome di Stalin. In questi “resort” del dolore vi si trovano perlopiù monaci buddisti e preti cristiani, patrioti anticomunisti e seguaci della pacifica religione neotaoista Falungong, spiantati e prostitute, immigrati, barboni, emarginati sociali e semplici cittadini la cui unica colpa è stata quella di avere osato opporsi e protestare contro gli sfratti indiscriminati, le deportazioni, le confische, gli aborti coatti praticati cinicamente anche su gravidanze quasi al termine e i cui cadaverini vengono utilizzati nelle fabbriche di cosmetici, gli abusi dei guru della psichiatria, l’inquinamento che sta devastando l’ambiente, e il traffico degli organi. Proprio per illustrare tale infame pratica ha preso la parola Maria Vittoria Cattanìa. Il libro “Cina, traffici di morte” parla di 68 capi d’imputazione suscettibili di pena capitale. Ai tempi dell’impero erano solo 19. Il risultato è qualcosa come 10.000 esecuzioni l’anno “secretate” dal regime con la disinformazione interna e con la minaccia esterna. Una minaccia che ha trovato terreno assai fertile specialmente da noi in Italia. Veltroni, sindaco della capitale, è stato il primo, se non uno dei primi uomini politici nostrani che, in cerca di facili consensi, ha inaugurato l’usanza di “accendere” le luci del Colosseo solo quando un condannato a morte viene graziato. Superfluo considerare che se fosse per i cinesi l’Anfiteatro Flavio potrebbe benissimo trasformarsi in un “buco nero”. “Traffici di morte” inoltre illustra le scandalose complicità tra i poteri dello Stato cinese e tra questi e le autorità ospedaliere e poliziesche. Le diapositive proiettate durante il convegno ci hanno catapultato in un mondo disumano, di una crudeltà diabolica. Vittime torturate e col corpo cosparso di orribili piaghe e vaste ferite. Membra troncate di netto. Bocche prive di denti. Cavità aperte “al vivo” su addomi e su schiene di poveri diavoli ridotti a larve esangui. Ma cosa mai può aver fatto di male un uomo per meritarsi questo? Il tutto è gestito da uno Stato cinico, privo di etica e di morale, che considera un essere umano soltanto come una catena di smontaggio, un tragico bambolotto della serie “Piccolo Chirurgo”, dal quale depredare il depredabile, in vita con lo sfruttamento, in morte col furto degli organi. Sembrava di trovarsi sul set di un film di Romero o di Dario Argento. In una sequenza allucinante, il condannato, imbambolato dai sedativi, viene fatto schierare davanti a una folla di spettatori. Le mani sono legate alla schiena, mentre un capo della fune viene fatto passare attorno al collo, in modo tale che al minimo cenno di ribellione il prigioniero si auto-incapretta. Una volta letta la sentenza, il poveretto viene fatto inginocchiare con calci e pugni. L’aguzzino alle sue spalle estrae la pistola e gli spara a un colpo a bruciapelo, sapientemente mirato in modo tale da non compromettere gli organi vitali. Sia il cuore che il cervello, infatti, vanno risparmiati. Il cuore perché deve essere recuperato e venduto. Il cervello perché, una volta danneggiato e interrottosi l’afflusso di sangue agli organi interni, questi rischiano di andare rapidamente in necrosi, compromettendone il valore commerciale. A condannato ormai agonizzante, interviene subito una équipe medica “armata” di tutto punto che trasporta il triste fardello in una funzionale camera operatoria ambulante di marca Fiat Iveco nella quale si esegue in pochi istanti l’espianto degli organi. Sembra che la macabra procedura sia giunta a un tale stato di efficienza che i condannati vengono selezionati già a monte a seconda del loro gruppo sanguigno, onde accorciare i tempi di “piazzamento” dell’organo. Piazzamento che avviene su apposito sito internet con tanto di prezzario in dollari. Una volta terminata l’atroce pratica, il “vuoto”, o ciò che ne rimane, viene esposto al pubblico ludibrio con tanto di cartello illustrativo appiccicato al collo. Se il “soggetto” è anziano o malato e i suoi organi giudicati privi di valore commerciale, dopo l’esecuzione il cadavere del poveretto viene colpito con un violento calcio per farne uscire l’aria residua e dopo la macabra messinscena dell’esposizione viene scarnificato e lo scheletro venduto agli istituti di medicina legale e alle università. Il prezzo del colpo di pistola servito a giustiziare il condannato viene fatto recapitare, con tanto di ricevuta fiscale, al domicilio dei familiari dello sventurato, e tutto ciò in una società che reputa necessario, per un sereno soggiorno nell’aldilà, dipartire col proprio corpo integro.


Il terzo relatore, Tenzin Thupten, portavoce del Dalai Lama in Italia, ha illustrato la tragica situazione in cui si dibatte la sua infelice patria, il Tibet. Sospeso a quattromila metri d’altitudine, un’atmosfera rarefatta pervasa di fervido misticismo e con una religione sofisticata e tutta protesa a indagare nei territori dello spirito, il Tibet è oppresso da 60 anni da una feroce occupazione portata avanti sui cingolati e le autoblindo di una perversa mentalità materialista, procedente con la fredda tecnica del rullo compressore, senza alcun riguardo per la cultura, gli usi e i costumi della popolazione autoctona. I tibetani si trovano nella triste condizione di stranieri in patria. Vietata la lingua, vietati i testi sacri buddisti, bruciati preziosissimi incunaboli e libri sacri, saccheggiati e distrutti i monasteri (il Potala stesso fu salvato dai cannoni delle guardie rosse per una decisa presa di posizione di Ciu En Lai), il capo spirituale, il Dalai Lama, esiliato nella confinante India, il capo politico, il piccolo Panchen Lama, sequestrato dalle cosche di Pechino, monaci e monache internati, la gente dell’altopiano combatte nel fragoroso silenzio delle autorità e dei mass media del mondo intero, una eroica quanto disperata battaglia contro i barbari delle pianure. Il processo di dissoluzione dell’identità dei tibetani ha di recente subito un’accelerazione dopo l’inaugurazione della linea ferroviaria che collega Pechino con Lhasa. Avendo fallito la politica del lavaggio del cervello, i demoni del partito comunista cinese, provano con l’immigrazione. Milioni di cinesi si sono riversati sull’altopiano, liberi d’intraprendere qualsivoglia attività a scapito degli autoctoni, e la situazione è divenuta insostenibile. Il progresso selvaggio apportato dagli han non ha giovato per nulla ai tibetani, che si trovano con la loro patria depredata delle ricchezze (si parla di recenti scoperte di uranio e pietre preziose nel sottosuolo), trasformata in discarica nucleare, arretratissima nelle campagne e avanzata (ma solo la casta dei cinesi) nelle poche città, con l’aria e i magri raccolti avvelenati e senza la possibilità di avanzare socialmente. Ben 24 Laogai sono sparsi ovunque per l’altopiano, macchiando come schifose metastasi la cristallina purezza dell’aria himalayana. Ora il governo di Pechino, senza alcun ritegno, e per colmo della beffa, intenderebbe pure far transitare la fiaccola olimpica attraverso il centro di Lhasa. Questo è veramente troppo anche per i super pacifisti monaci seguaci del Gautama, i quali si sono ribellati e a migliaia stanno - i superstiti - affluendo nei gulag, deportati e orribilmente massacrati dalle guardie rosse. I rastrellamenti avvengono di notte, con gruppi di miliziani del partito che circondano e setacciano casa per casa, monastero per monastero, violentando, malmenando, saccheggiando e incendiando nell’indifferenza delle autorità dell’Onu e del Cio, del Wto e di Greenpeace, delle organizzazioni per la tutela dei diritti dell’uomo. Naturalmente, di svenevoli Lilli Gruber e di sculettanti Carmen Lasorella disposte a sfidare gli assassini di Tien an men per rendere edotto il mondo sulle nefandezze dell’accoppiata Capitale+Libretto Rosso non se ne trovano neanche a pagarle oro. E di politici “buonisti” neppure. D’altronde, come diceva Don Abbondio, il coraggio, se uno non ce l’ha, non se lo può mica dare. E poi i tibetani non rendono mica politicamente… dall’altra parte c’è il grande dollar-partner cinese…..


Di SpAng, tratto da www.azionetradizionale.com

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