mercoledì 21 novembre 2007

Occhio alla banca-sciacallo.

C'era una volta il direttore di banca.

Quando un artigiano, commerciante o impresa chiedeva un fido, andava a vedere di persona le gru, i capannoni, i magazzini del potenziale debitore. Era un personaggio ben inserito nella realtà economica locale. I profitti della banca venivano in parte notevole da questa attività. E non erano piccoli: dopotutto, ricavava interessi da denaro che per il 90% era creato dal nulla, e per il 10% apparteneva non alla banca ma ai depositanti, che di interessi non ne vedevano.

Oggi non più.Come spiega un doloroso articolo su Libero Mercato (1), il bancario deve «vendere» a qualunque malcapitato entri in banca assicurazioni, «prodotti finanziari» che puzzano, «derivati» e «strutturati» col trucco, e di cui il cliente non ha bisogno.

Vuoi il fido?

Allora beccati anche questo swap dollaro-yen, o questa quota di hege fund con portafoglio colmo di azioni di Pechino.

Non ti occorre?

Ma la banca, per darti il fido, ti chiede di «contribuire ai profitti dell'istituto, che oggi si fanno così».

Altrimenti niente credito.

I risultati sono quelli raccontati spesso dalla Gabanelli e da Libero stesso: negozi ben avviati portati al fallimento dalla leva negativa di quegli «strutturati», su cui bisogna pagare margini che superano i fatturati; prestiti-ponte per pagare quei debiti improvvisi; colossali indebitamenti occulti di Comuni Province e Regioni.

Non è colpa dei bancari.

E' che il loro status è stato cambiato: parte del loro stipendio oggi dipende dai «risultati», ossia da quali schifezze e truffe hanno rifilati ai clienti.

Ridotti a promotori finanziari senza preparazione specifica, assillati «dagli uffici-marketing che dettano quale cliente chiamare, a quale ora e per quale prodotto» e dalla telefonata del capo-area che vuole «risultati», altrimenti niente «incentivi» e premio annuale.

La condizione dei bancari è quella delle prostitute albanesi nelle grinfie del racket, e come tali devono comportarsi.

E i vecchi direttori hanno perso la «delega»: non sono più loro a dire se quell'artigiano o impresa meritano di essere affidati, ma «processi automatizzati», decisi da lontani computer con software irreali, «made in USA».

«Processi di vendita massificati», dice Libero, «non serve pensare: tutto è pianificato» dagli arroganti neo-banchieri che imitano Wall Street.

Dice Libero: tra i risultati, c'è che crescono le perdite delle grandi banche «sui crediti di piccola dimensione».

E che i clienti, non trovando più il direttore che li conosceva da anni, ripiegano sulle piccole banche locali, che «tengono e crescono» nonostante l'arretratezza tecnologica, e che erano state date per spacciate «perché non hanno le dimensioni».

Ma non è questo il punto.

La vera tragedia è che la banca, prima, era almeno una ausiliaria dell'economia reale, dell'industria e del commercio.

Oggi ne è il parassita distruttore.

Gli avvoltoi, almeno, mangiano cadaveri già putrefatti.

Le «nuove» banche divorano imprese vive e vegete, rifilando loro prodotti fallimentari, «strutturati» incomprensibili che aggraveranno i conti fino alla bancarotta.

Libero Mercato, che è il miglior giornale economico in circolazione per il fatto che è meno colluso dei «grandi» (peccato solo che Oscar Giannino, così chiaro quando parla, non scriva benissimo), se n'è accorto e denuncia.

Fra un anno o due - magari - se ne accorgerà anche il genio, il venerato maestro Mario Draghi, lo dirà con parole criptiche nella relazione annuale; rimprovererà le banche col ditino alzato, «non si fa così».

E i Profumo, Bazoli, Geronzi ed altri avvoltoi di carne fresca assentiranno.

E tutti gli ipocriti di 24 Ore, Repubblica e Corriere saranno in estasi: come ha ragione!

Che genio Draghi!

Ha ragione, non si fa così.

Così si fa invece, sull'esempio e il modello della speculazione purissima, di Wall Street, degli hedge fund, che però almeno hanno a che fare con multinazionali, mica con artigiani e negozi di calzature.

E' il dogma del liberismo senza freni né controlli: profitti finanziari comunque ottenuti, anche a prezzo della morte della pecora da tosare.

E' un cambiamento di «cultura», come si dice: dal credito come ausiliario al credito-marketing predatorio.

Fra due anni, quando Draghi parlerà, magari non ci saranno più piccole imprese da salvare dai predatori.

Invece è urgentissimo cambiare subito quella «cultura», magari con punizioni esemplari e penali. Perché ora viene la recessione, le occasioni di profitti finanziari diminuiscono, e gli avvoltoi speculativi hanno preso di mira l'ultimo settore dell'economia reale: l'agricoltura, quella che ci dà da mangiare, che soddisfa i primari bisogni umani.

«Di colpo, gli investitori [leggi: speculatori] sono interessati più al rame e al minerale di ferro che ai derivati sul credito», leggo sul Telegraph (2).

«E il Credit Suisse ha stilato uno studio eccellente sulle opportunità offerte dai mercati agricoli».

Il settore schifato per decenni (i crediti ai coltivatori non rendono niente, meglio l'hi tech e l'ingengneria finanziaria) diventa di colpo appetibile alla speculazione.

Il trasporto delle derrate dall'altra parte del mondo costa sempre più (caro-petrolio, mancanza di offerta di flotte), sicchè l'autarchia agricola può ridiventare conveniente.

Anche in recessione, la gente deve mangiare.

I cinesi cominciano a mangiare più carne.

Parte delle preziose granaglie sono consumate per il demente sogno del bio-carburante, e sottratte all'alimentazione umana e animale.

Soprattutto, la domanda è superiore all'offerta, e tale resterà per decenni.

Occorrerà che la produzione globale di cibo cresca del 3,3% l'anno, ha scoperto lo studio del Credit Suisse: in tempi di recessione, di economia a crescita negativa, è una pacchia per la speculazione.

I prezzi cresceranno per decenni, perché i terreni agricoli non sono sufficienti, anche la rimessa a cultura delle terre che la UE ha voluto lasciare incolte dando incentivi alla non-coltura («sovrapproduzione», sancivano gli oligarchi di Bruxelles) aggiungerà solo l'1% annuo alla terra arabile.

Naturalmente, la speculazione vede subito l'affare in questo modo: «investire direttamente in queste materie prima attraverso exchange traded funds», ossia altri strumenti finanziari esoticamente strutturati.

«Ma ci sono altri modi di profittare della imminente rivoluzione agricola, e molti sono meno volatili dei mercati della soia e del frumento», dice il Telegraph.

Per esempio, si profitterà del fatto che saranno i Paesi produttori a tenere per le palle i Paesi consumatori.

E non sia mai che i produttori ci guadagnino, dopo aver coltivato.

Investire subito nelle vaste tenute del Brasile, come già fa la Bunge - una delle sei sorelle del Cartello del Grano - che vende soya brasiliana alla Cina, ed è il massimo esportatore.

I coltivatori brasiliani sono tenuti per le palle dalla Bunge: vuoi crediti?

Ti compriamo la soya in erba.

Naturalmente con uno sconto…

«Un altro modo» gradito agli avvoltoi è «investire nel credito bancario, nelle banche che finanziano il settore agricolo. Più di un terzo dei prestiti del Banco do Brasil sono fatti agli agricoltori»: presto, portarglieli via, prendiamoceli noi, i genii della finanza globale.

«Altre aree che attrarranno nuovi investimenti sono quelle della genetica: imprese come Tyson in USA, Genus in Inghilterra, Nutreco e Monsanto che sono all'avanguardia nello sforzo di aumentare le rese».

Il che significa che tutta la finanza sarà a spingere, con la sua nota potenza, per i cibi geneticamente modificati: non è soddisfare un bisogno umano che le interessa, ma il profitto finanziario, l'ultima riga del bilancio.

Certo, gli avvoltoi vedono bene che conviene «investire in irrigazione, infrastrutture, macchinari, fertilizzanti», perché l'irrigazione aumenta la produzione del 30%, e la Cina ha solo il 2,8% di terre irrigate modernamente, contro il 100% di Germania e di Israele.

Bisogna dunque comprare azioni delle aziende che operano in questi settori.

Ma, ancora una volta, con «quella» cosiddetta «cultura» trionfante nel mercato libero globale.

Non serve, dice il Telegraph, studiare quelle aziende, andare a vedere le loro fabbriche, pensare dove e perché sia meglio investire.

Troppo difficile.

La soluzione è «pagare qualcun altro per farlo».

Per esempio rivolgersi al CF Eclectica Agricolture Fund britannico, che già investe in queste «opportunità», ed è «aperto a investitori al dettaglio».

Ancora una volta, vogliono i vostri soldi: e vi fanno balenare il sogno di fare profitti stando in poltrona, mentre milioni nel mondo faticano sulla terra strozzati dal credito, e altri milioni chiedono di mangiare.

Naturalmente è il solito inganno.

Vogliono rifilarvi un altro prodotto strutturato, un altro derivato, un incomprensibile bond o future dell'Eclectica Fund.

Beccatevi questo «prodotto», c'è dentro il credito al contadino, il nuovo subprime!

Con questa «cultura» dominante, non ausiliaria ma predatoria, questi affameranno il mondo.

Esattamente come le banche italiote hanno già fatto portare i libri in tribunale a piccole imprese prospere, così faranno a quelli che ci stanno dando da mangiare.

Perché l'agricoltura, anche la più «efficiente», non si presta ai profitti rapidi e monetari richiesti.

Nessuna tecnologia, nessun alimento gonfiato o ormonizzato, indurrà una mucca ad accelerare il parto del vitello - richiederà sempre dieci mesi.

Nessun fertilizzante Monsanto aumenterà del 30-40% la produzione di granaglie.

Il segreto dell'agricoltura è «risparmiare» investimenti al minimo necessario per la produzione naturale, non aumentarli a dismisura e a credito.

Quelli renderanno sterili terre, e strozzeranno contadini, per accalappiare un profitto semestrale da mostrare a Wall Street.

Quelli stanno mettendo i loro becchi dentro l'ultimo, cruciale settore dell'economia reale; e in piena recessione.

Draghi se ne accorgerà due anni dopo.

A lui, il cibo non mancherà.

Di quella «cultura» è maggiordomo, per quello l'hanno messo dov'è.



Maurizio Blondet - Effedieffe.

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Note

Jack Free, «Il vecchio bancario? Condannato a morte», Libero Mercato, 13 novembre 2007.

Tom Stevenson, «Backing agriculture could reap a rich harvest», Telegraph, 13 novembre 2007.

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