Quando i monaci buddisti sono scesi in piazza a Rangoon contro il regime birmano, tutto il mondo si è svegliato e si è ricordato improvvisamente della situazione dell’ordierno Myanmar, ex-Birmania. Repressione, esecuzioni, violenza contro gli oppositori. Abbiamo visto giornalisti uccisi dai militari e centinaia di monaci arrestati. E poi, dopo poco, è tornato il silenzio della stampa internazionale. Peccato che la situazione sia ben più grave di quello che ci è stato raccontato. E c’è chi combatte da quasi sessant’anni per la propria identità.
I Karen sono una delle minoranze che compongono lo stato birmano. Da quando gli inglesi sono tornati da Sua Maestà, sono in lotta per l’autodeterminazione. Ma tanti se ne dimenticano. Come non spiegarselo, guardando i conti della Total o di tante altre multinazionali del democraticissimo ‘occidente’ che continua a colonizzare le terre birmane. Proprio per questo Nerdah ha visitato l’Europa. Per spiegare la loro condizione, la loro lotta. Il portavoce del popolo Karen, comandante operativo di quattro battaglioni del Knla (l’esercito di liberazione Karen), ha visitato le stanze del potere dell’Europa e dell’Italia. Ha visitato il Parlamento europeo di Strasburgo e il Senato italiano. Ma non si è fatto affascinare dai luoghi che contano e non ha cercato facili pietismi. Non ha richiesto a gran voce la democrazia occidentale. Non si è prostrato davanti ai signori di dollaro ed euro. “Chiediamo l’autodeterminazione, combattiamo per difendere la nostra cultura, la nostra identità, la nostra lingua”, dice Nerdah. “In Birmania esistono tanti gruppi etnici e il regime vuole che le minoranze abbandonino le proprie terre per andare a vivere in qualche campo profughi o magari fare l’emigrante in giro per il mondo. Noi combattiamo per la pace – spiega il colonnello Karen – per dare un futuro alla nostra gente, facendo in modo che possa tornare nella propria terra”.
Il colonnello Karen studia a Bangkok e poi negli Stati Uniti. Ma dopo qualche anno torna tra la sua gente, il desiderio di libertà è troppo forte. Dopo il normale cursus honorum nell’esercito, arriva in poco ai livelli gerarchici più alti. Segue, in poche parole, le orme del padre, in nome del suo popolo e della lotta per la libertà. “L’esercito del regime birmano attacca i nostri villaggi, brucia le case, stupra le nostre donne. Ci sono esecuzioni sommarie. Noi combattiamo una lunga guerra nella giungla di cui nessuno nel mondo sa nulla. Il regime militare opprime e uccide”, spiega il portavoce Karen, a chi pensa che ora la situazione in Birmania sia più semplice. Alle istituzioni comunitarie e a quelle italiane, nei dieci giorni di visita ufficiale organizzata dalla Comunità Solidarista Popoli, il colonnello Nerdah ha raccontato la situazione in cui vive quotidianamente il suo popolo. E poi ha fatto una precisa richiesta: “Bisogna fermare il regime. L’Europa, la comunità internazionale, devono intervenire per bloccare i finanziamenti, gli investimenti che vengono dall’estero, ma che da noi hanno solo l’odore del sangue. C’è bisogno di un cambiamento rapido”.
“Abbiamo la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra identità, la nostra bandiera: vogliamo la nostra nazione. Accetteremmo anche una federazione con ampia autonomia, dopo aver avuto ampia libertà di scelta, ma il regime non vuole fare alcuna concessione”.
Parlare con Nerdah è importante, è un uomo sicuro, determinato, pieno di forza. Soprattutto è una persona che dalla giungla comprende realmente la situazione internazionale in maniera molto pragmatica. E non manda a dire nulla: “Non vogliamo essere i burattini di potenze straniere, non vogliamo una democrazia importata: noi la democrazia l’abbiamo già”. Come vengono amministrati i Karen? Con una idea pura di vero e proprio comunitarismo, che “non cambierà neanche quando raggiungeremo l’indipendenza, non ci faremo affascinare da altri modelli”. “Quando c’è il cibo, si condivide con tutti. Esiste l’aiuto reciproco – spiega Nerdah – Anche nel futuro questa sarà la nostra società”. Ogni villaggio ha un rappresentante, “è l’uomo giusto, la persona che viene riconosciuta da tutti come il più saggio”.
Chissà come la prenderanno nelle nostre famigerate democrazie occidentali. I Karen non si pongono il problema delle elezioni, è tutto scritto, senza alcun problema. “C’è un rispetto sacrale per gli anziani e la famiglia. I giovani rispettando i consigli dei più grandi”. I rappresentanti di ogni villaggio decidono quelli di ogni distretto. La nazione Karen è organizzata in sette distretti che compongono altrettanti battaglioni. Gli ‘eletti’ dei distretti vanno a comporre il congresso Karen ed esprimono il presidente. Ecco la vera democrazia che viene dal popolo. Un vero e proprio esempio per tutti noi, un esempio che non vuole essere pilotato o colonizzato da nessuno.
“I Karen – racconta il responsabile della comunità Popoli, Franco Nerozzi - sono un popolo che da 2.700 anni è in Birmania e da sessant’anni combatte per l’indipendenza. È un popolo che lotta per la propria identità e per la propria autonomia e per questo vuole abbattere il regime militare. Ma non solo, lottano anche per noi, combattendo duramente il traffico di eroina e di anfetamine. Peccato che la Birmania sia diventata un business, dove molte multinazionali di paesi occidentali e democratici sostengono e finanziano il regime militare”. Popoli dal 2001 ad oggi ha realizzato tre cliniche mobili e tre scuole elementari: le strutture mediche servono un bacino di utenza di circa 12000 persone appartenenti all’etnia Karen, minacciata di genocidio dal regime birmano.
Le scuole elementari consentono ai bambini Karen di mantenere la propria lingua e di apprendere la storia del popolo a cui appartengono. Tutte queste strutture si trovano in zone di guerra dove l’intervento di organizzazioni umanitarie è vietato dalle autorità. “I Karen – sottolinea Nerozzi – sono un esempio per tutti. In un momento in cui si parla di flussi migratori, loro combattono proprio per evitare che il proprio popolo si disperda in tutto il mondo”. “Con il progetto “Terra-Identità” – conclude il responsabile di Popoli - vogliamo cercare di far percorrere al contrario l’itinerario che ha portato questa gente ad allontanarsi dalle proprie terre”.
Il progetto, che dovrebbe partire ad aprile del prossimo anno, si svilupperà in diverse fasi: la prima prevede la bonifica, la lavorazione e la semina di un terreno di circa 30 ettari nella zona di Kler Law Seh e la costruzione di 5-10 abitazioni per ospitare i profughi intenzionati a ripopolare la zona; le successive fasi del progetto prevedono di estendere l’ampiezza dei terreni per accogliere nuove persone.
E’ chiaro, quindi, che in Birmania non c’è solo Aung Suu Kyi e il suo movimento democratico. “Adesso abbiamo un nemico comune con il premio nobel per la pace e i monaci buddisti”, dice Nerdah. La nazione Karen, “il Paese dei fiori”, lotta per la sua indipendenza e per abbattere il regime militare. Forse è arrivato il momento che l’Europa e l’occidente si rendano conto della situazione, smettendo una buona volta di pensare al business Birmania e alle multinazionali che lucrano in quei territori. I Karen vivono, combattono e muoiono anche per tutti noi. C’è bisogno di aiuto, non c’è più tempo da perdere.
Di Tommaso Della Longa, pubblicato su Rinascita.
«Gabriele ha voluto che segnassi proprio io…». Mentre lo dice quasi si commuove Fabio Firmani. Detta così, può sembrare una frase strappalacrime, una cosa che tutti si aspettano che lui dica. Invece, non è così, anche perché Firmani conosceva bene Gabriele Sandri ed è stato molto scosso dalla sua morte. Per tutta la settimana, nonostante avesse qualche acciacco muscolare, il biancoceleste si è preparato a dovere per la partita proprio perché ci teneva in modo particolare. E’ stato lui a preparare le t-shirt con l’immagine di Gabriele e probabilmente la maglietta che si è tenuto tanto gelosamente la consegnerà alla mamma, al papà e la fratello di Gabriele. Non solo. Poco prima della partita lui e Lorenzo De Silvestri si erano scambiati la promessa: siamo romani come Gabbo e oggi segni tu o lo faccio io. E così è avvenuto. «Già so che non rivivrò mai più un’emozione simile perché questa rete va oltre al calcio giocato anzi quasi non c’entra nulla. Pensate che il Walter Pela (il magazziniere) alla fine del primo tempo mi ha detto: ammazza che jella. Io l’ho tranquillizzato dicendogli che Gabbo voleva che segnassi sotto la Nord. E’ stata senza dubbio la giornata più bella della mia vita. Per me questo gol varrà sicuramente di più di uno fatto alla Roma o al Real Madrid e non sto dicendo questo perché ho segnato proprio io contro il Parma. Lo dico perché è così che stanno le cose».
Rinascita è un quotidiano unico, in Italia, nel suo genere, perchè antagonista del regime nel suo insieme, perchè aperto ad ogni contributo fuori dagli schemi imposti ai mezzi di comunicazione di massa dai manipolatori del pensiero umano, e perchè, soprattutto, sta diventando lentamente ma ineluttabilmente il luogo geometrico d’incontro di chi, ancora e nonostante tutto, ritiene di non avere condotto il suo cervello all’ammasso del Verbo liberaldemocratico, della globalizzazione economica della miseria, del pensiero unico che ogni cosa e ogni persona livella e rende schiava di una società senza memoria e priva di avvenire. Non è merito nostro. Indubbiamente abbiamo colto il momento propizio, il momento giusto, per dare inizio alla nostra felice avventura. Ma se fosse mancata – e non è mancata - l’immediata comprensione e trasmissione orizzontale del senso politico, culturale, di questo impegno, se fosse mancata la collaborazione tra la nostra pattuglia e chi con questa ha immediatamente dialogato, costruito, inventato un cammino comune, ebbene questa iniziativa avrebbe perso mordente, fiducia, si sarebbe ripiegata su se stessa, isterilita, si sarebbe purtroppo spenta.
Il colonnello Nerdah Mya è rientrato in Birmania subito dopo aver lasciato l'Italia, al termine del suo viaggio iniziato il giorno 11 di questo mese. Ci ha chiamati questa sera, dal comando del 203° battaglione, pregandoci di ringraziare di nuovo tutti quelli che lo hanno incontrato ed ascoltato durante il "tour" europeo.


Dopo la vittoria del Partito democratico del Kosovo (Pdk), il suo leader - il ben noto terrorista e narcotrafficante albanese - Hashim Thaci fa la voce grossa, sostenendo ancora una volta l’indipendenza di Pristina da Belgrado.
Una tragedia alle porte del centro storico di Perugia, colpisce improvvisamente al cuore della città. Ma, malgrado in molti prevalga lo sgomento, è sentire comune una non meglio identificata sensazione che porta immediatamente a ritenere che un pò tutti ce lo saremmo aspettato.
Aldo Bianzino era un falegname che risiedeva a Pietralunga, un piccolo paese tra Città di Castello e Gubbio. Il 12 ottobre, a seguito di un’operazione delle forze dell’ordine di Città di Castello, Aldo Bianzino insieme alla sua compagna di vita Roberta Radici, viene arrestato per detenzione e coltivazione di piante di marijuana. Vengono portati in un primo momento al commissariato di Città di Castello e poi trasferiti al carcere di Capanne (Perugia); qui, ovviamente si separano. Il 13 ottobre, l’avvocato d’ufficio vede entrambi, prima lui, poi lei, e Aldo Bianzino sembra apparire in condizioni di salute normali.Domenica 14 ottobre, alle ore 08.15, Aldo viene trovato morto nella sua cella d’isolamento. La prima versione, e ovviamente quella “ufficiale”, dice che Aldo Bianzino è deceduto per un infarto tra la notte di sabato e domenica. Aldo Però aveva diverse lesioni alla schiena e all’addome, costole rotte e lesioni alla testa. Il PM ordina l’autopsia sul cadavere, che conferma la presenza delle lesioni e che da queste sia derivato il suo decesso. Al momento dell’arresto l’avvocato della coppia, Massimo Zaganelli, precisa: “Furono portati in carcere in perfetta salute e durante il viaggio non fu torto loro un capello”, e ancora: “Per quel che sappiamo il decesso è verosimilmente riconducibile a un trauma, ma non a un trauma accidentale”. Di solito un arrestato resta nella cella d’isolamento fino a quando non incontra il Giudice per le indagini preliminari e dunque, Aldo Bianzino, non dovrebbe essere venuto a contatto con nessun altro detenuto.