Milioni di siriani sono scesi in piazza in tutto il paese, martedì 21 Giugno 2011. La folla era un oceano a Damasco, Aleppo, Homs e Tartus. Questo scenario, nei deboli richiami sui siti dei quotidiani nostrani, si riduce a «migliaia di lealisti». La notizia viene nascosta, ma sarà difficile farlo a lungo. Quale notizia? Che esistono basi di consenso reali per le riforme annunciate dal presidente Bashar al-Assad nel suo discorso all’università di Damasco. Nel registrare questo consenso non parliamo di favoriti del regime che difendono privilegi. Non ha senso ridurre un evento simile a una misura così meschina, quando le strade proprio non ce la fanno a contenere la massa umana.
Parliamo di una forte realtà popolare, di manifestazioni di una grandezza senza precedenti nella storia della Siria. Anziché raccattare testimonianze dai social network, i grandi media farebbero bene a chiedersi perché i loro rozzi schemini sulle rivolte arabe facciano cilecca. Nel dubbio, intanto, le manifestazioni per loro non esistono. In termini puramente numerici, il confronto fra i milioni che appoggiano il presidente con le migliaia di manifestanti anti-Assad delle scorse settimane mostra un divario indiscutibile. Può non piacere, ma ignorarlo significa partecipare a una manipolazione sfacciata dell’informazione, e non fa sorgere domande corrette su cosa stia accadendo in Siria.
I familiari dei soldati, e sono tanti, hanno il polso della situazione. Non credono ai tentativi orwelliani dei grandi canali via satellite in lingua araba di raccontare bombardamenti di villaggi, massacri e fosse comuni perpetrati dal regime. In molti, persino fra quelli che conoscono le scomode prigioni del loro paese, ritengono che la Siria sia al centro di una campagna di destabilizzazione nello stile di quelle che subivano i paesi latinoamericani negli anni settanta, con gruppi armati foraggiati dall’estero, e un’escalation di misure diplomatiche in vista di un intervento militare, domani, della Nato.
I pochi giornalisti occidentali sul campo in questi mesi, e anche gli inviati di Al Jazeera prima che si dimettessero per protesta contro le false rappresentazioni della situazione in Siria e Libano, hanno tutti verificato la portata del consenso popolare al presidente, a dispetto degli innegabili problemi. Lo schemino dittatura/libertà è in questo caso inservibile. I conti tornerebbero se si usasse lo schema sovranità/dipendenza, e magari un terzo schema: laicità/religione; e un quarto: conflitti interetnici.
Sembra che le masse siriane non vadano a consigliarsi da Rosy Bindi né da Napolitano. Hanno guardato per anni Al Jazeera, che – quando manipolava di meno le notizie e girava di più a raccoglierle – mandava quasi a morire i suoi reporter con il giubbotto antiproiettile, e quelli dimostravano come alla caduta di Saddam non sia seguito un eldorado di democrazia, ma il caos e gli eccidi in un paese usurpato, schiacciato, abusato, concretamente rovinato.
È per questo che finanche chi ha avuto la sventura di stare nelle celle riservate per anni agli oppositori, con pieno discernimento politico dice: non come in Iraq, prego. E si stringe intorno all’unica difficile, contraddittoria proposta di riforma davvero in campo, quella di Assad. Il resto odora già di uranio impoverito, fosforo bianco e predatori sostenuti dalle aberrazioni sempre più indecenti dell’interventismo umanitario, ancora incapace di uno straccio di autocritica persino di fronte ai bombardamenti che fanno stragi di innocenti in Libia.
(Pino Cabras, “Milioni con Assad: perché?”, da “Megachip” del 22 giugno 2011).
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