E’ di tutta evidenza l’interesse americano – diciamo così, “istituzionale” – a influenzare, a democratizzare la rivolta che, deflagrata all’indomani del 17 dicembre dopo il suicidio di un lavoratore tunisino perseguitato dalla polizia di regime, si è estesa nei quattro angoli del mondo arabo.
E’ stato infatti più che naturale, per le centrali di omologazione e normalizzazione atlantiche, cercare subito, dopo i primi fuochi della ribellione di massa, di pianificare i “correttivi” per incanalare in un quadro meno indolore per gli equilibri d’Occidente le insorgenze che rischiavano di mettere a tappeto i propri decennali dispositivi di controllo degli Stati arabi sotto tutela.
In una lotta contro il tempo, dopo le sollevazioni arabe in Tunisia, Algeria, Egitto e Yemen, Washington ha in particolare agito su vari piani. In un primo momento ha tentato di contenere il dissenso popolare con timidi proclami sulla necessità di “democrazia”; quindi ha attivato una vasta propaganda mediatica per indicare “nelle giovani generazioni di internet” i protagonisti dei moti; poi ha alzato larghe volute di fumo-stampa sulla innescata ma fallita ripresa di una rivolta in Iran; quindi, dopo l’insediamento di temporanei governi militari pro-occidente, ha esorcizzato gli effetti devastanti nel Golfo, nella base della UsNavy in Bahrein, deviando l’attenzione generale sui moti popolari in Libia. Incentivando il concerto propagandistico delle “sanzioni” e delle possibili ritorsioni militari o “umanitarie” (sic) sul “facile” obiettivo di Muammar el Gheddafi. Un regime, quello di Gheddafi, si badi bene, da tempo schierato su posizioni pro-occidentali, se è vero come è vero che nel 2008 il Dipartimento di Stato tenuto da Condoleezza Rice definiva proprio la Libia “un forte partner nella guerra al terrorismo” e notava “le eccellenti relazioni tra servizi occidentali e libici”.
Che la “crisi libica” sia stata trasformata a tavolino, ex post, in un pretesto di intromissione Usa negli affari arabi, è oggi diventato un fatto più che evidente.
Poiché, però, queste ciambelle non riescono mai con un buco perfetto, è altrettanto evidente che più passano i giorni, più si modifica il possibile esito del moto di dissenso libico. Non paiono più “pacifiche” né la sostituzione delle bandiere verdi della Jamahiriah con le riesumate bandiere monarchiche innalzate dai rivoltosi a Bengasi, né la defenestrazione di Gheddafi dall’Ovest della Libia (Gefara e Fezzan).
Tutto ciò premesso, non è azzardato considerare demagogici e palesemente artificiosi gli “entusiasmi” occidentali sugli esiti finali di quanto sta accadendo nella regione araba. Fin qui i golpe militari in Tunisia e in Egitto o i moti anti-Gheddafi hanno infatti soltanto temporaneamente “sospeso” il pericolo di un’ondata anti-atlantica nella regione.
Tali “democratizzazioni” di facciata sono, allo stato, più degli “wishful thinking” - dei desideri in fieri dei signori d’Occidente - che dei fatti seppure vagamente consolidati.
Nello scacchiere arabo, il futuro prossimo è tutto da giocare. E una Libia divisa in due, alla libanese, non cambia certo il quadro generale.
Da una parte, la ribellione delle masse arabe contro i regimi pro-occidentali è appena iniziata.
Dall’altra, piuttosto che concedere libertà e sovranità economica a una regione nazionale ritenuta colonia e luogo di rapina delle materie prime, gli atlantici - questa è la regola “aurea” - sono disposti a tutto, anche alla guerra.
Ma è anche cambiato qualcosa nel mondo. Washington non ha più la forza di disporre del destino altrui. Gli interessi sull’Africa e sul Vicino Oriente sono multipolari. Riguardano ormai anche la Russia, il Brasile, l’India, la Cina.
Gli Usa hanno “globalizzato” tutto? Hanno voluto la bicicletta? Ora devono imparare ad usarla.
L’altra Europa, la nostra? Declama i principii dei diritti umani. E’ schiava. Resterà a guardare.
Di Ugo Gaudenzi, www.rinascita.eu
giovedì 3 marzo 2011
Il futuro prossimo? E' tutto da giocare.
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