lunedì 26 luglio 2010

Impìccati! Storie di morte nelle prigioni italiane.


Fa caldo, eh… Insopportabile il salire, in questa estate, della colonnina di mercurio: 33°, 35°, 38°, 40° … Addirittura vicino ai 50°, in alcuni casi. Fa caldo, eh…. Pareti roventi, idem per i pavimenti. Nemmeno l’aria condizionata riesce a lenire il cocente disagio, misto ad umidità. Non c’è un filino di vento manco a pagarlo. Pare di stare sotto i piombi di Venezia.



Fa caldo, eh… Provate ad immaginare quanto caldo possa sentire una persona rinchiusa in meno di 3 metri quadri. Spazio ben al di sotto dei 7 metri quadrati per ogni imprigionato in cella singola, stabiliti dal Comitato per la prevenzione delle torture del Consiglio Europeo. Pensate ora a 3 persone in sei metri quadri, con un bagno a vista, la luce sempre accesa, l’aria puzzolente….



Fa caldo… In una cella diciamo “normale” dovrebbero starci 3 detenuti. In quelle italiane arrivano sino a 10 e si dorme anche per terra… Senza contare le brandine a castello a tre piani, i topi, gli scarafaggi, la penuria d’acqua calda in inverno e dell’acqua in generale d’estate, la pioggia scrosciante, le malattie, la tossicodipendenza che imperano nei luoghi angusti. Lo chiamano sovraffollamento che “miniaturizza gli spazi vivi”. Nella sezione femminile del carcere romano di Rebibbia in 25 Mt. quadrati ci stanno appollaiate 12 persone compresi i molti bambini. A Regina Coeli dovrebbero essere 700 gli “ospiti” delle patrie galere. In verità i reclusi arrivano a 1.100.



Fa caldo… Secondo il Ministero dell’Interno, dati alla mano, in Italia sono ben 68mila i detenuti contro i 44mila previsti “regolari”. 37mila sono in attesa del giudizio definitivo. Oltre 12.000 gli stranieri. Il personale carcerario effettivo è pari a 35.000 unità. Ma ce ne vuole per arrivare alle 42.000 tanto auspicate. Di soldi da investire nel “piano carceri” non se ne parla. Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni (ospite de Il Fondo nel dicembre scorso – LEGGI QUI) auspicherebbe, tra le tante cose, «una riforma del codice penale che preveda la reclusione per i casi veramente gravi e un sistema di misure alternative – ma non per questo meno penalizzanti del carcere – negli altri casi». Troppo difficile per un paese, l’Italia, che si definisce una Repubblica sì finemente democratica? L’ultimo suicidio è dello scorso venerdì nella casa circondariale di Catania Bicocca. A conti fatti: dal 2002 al 2010 sono stati più di 1.600 i detenuti passati a miglior vita di cui circa 600 con morte per mano propria. Dall’inizio dell’anno 38 suicidi su 101 decessi, in età compresa tra i 25 ed i 70 anni, 46 tentativi di suicidio, un evaso pericoloso una decina di giorni fa, 10 poliziotti penitenziari colpiti nello svolgimento del servizio, turni massacranti, carenze di tutti i generi, scioperi e controscioperi, mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria, etc. etc. etc. “I detenuti sono uomini non numeri” ripetono e ricordano i siti www.ristretti.it e www.ristretti.org .



Fa caldo…. E si muore. I trapassi non sono sempre chiari e limpidi. «La prigione è dolore, solitudine, lacrime, paura, pena, vergogna, rabbia. In carcere si muore, come fuori e per le stesse cause: malattia, suicidio, omicidio. Ciò che non dovrebbe accadere mai, però, è morire di carcere: per mano di chi ti ha in custodia o per negligenza di chi ti ha in cura». A scriverlo è Luca Cardinalini, giornalista ed autore di libri dedicati ad inchieste e cronache italiane, nel suo Impìccati! Storie di morti nelle prigioni italiane della casa editrice romana DeriveApprodi, da poco in libreria. E si parla, qui, di alcuni detenuti tristemente saliti agli onori o disonori della cronaca e subito dopo obliati che, entrati vivi e vegeti in carcere, ne sono usciti morti «solo per i loro funerali: Aldo Bianzino, Diana Blefari, Luigi Acquaviva, Sami Mbarka Ben Gargi, Stefano Frapporti, Camillo Valentini, Niki Aprile Gatti, Stefano Cucchi». Otto esseri umani che tra il 2007 ed il 2009 sono morti in situazioni di vita e detenzione ben distanti l’una dall’altra. Otto persone che non sono riuscite a sopravvivere alle maglie della custodia cautelare. Otto storie che lasciano l’amaro in bocca nei lettori per la loro sbalorditiva semplicità e chiarezza di vita e morte.



Assolutamente chiara e limpida la postfazione di Laura Baccaro e Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti) dal titolo “Morire di carcere. Suicidi, autolesionismo e altri incidenti”. Alcune perle: «Sopravvivere al carcere – comunque, qualunque e in ogni ruolo -  è visto di per sé come un atto di eroismo». «Non esiste un diritto a morire, ma a essere curati. Nessuno deve fare una fine così, anche chi sta in carcere è un essere umano». «La pena carceraria non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». «Bisognerebbe ripensare seriamente al senso della pena e della custodia cautelare, che andrebbe applicata soltanto in casi estremi, ridimensionando la facilità con la quale viene disposta oggi». «… chi conosce la realtà del carcere non si chiede perché ogni anno un centinaio di detenuti muore, ma piuttosto perché altre migliaia decidono di resistere. Nonostante tutto. Anche i media sembrano essersene accorti: in carcere si muore sempre più spesso. Per suicidio, per malori o «per cause da accertare», un modo elegante per non dire che si viene ammazzati».



Fa caldo eh… Basta accendere il ventilatore o il condizionatore dell’aria per stare meglio… Un gesto semplice, naturale ma che agli occhi dei detenuti (siano essi colpevoli, innocenti, presunti qualcosa o qualcos’altro) appare “semplicemente” della vita e per l’esistenza stessa. Un stato, quello detentivo, che – non mi stancherò mai di ripetere e scrivere – potrebbe «toccare a ciascuno ed essere di tutti»



Fa caldo eh….

Di Susanna Dolci, www.mirorenzaglia.org


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