martedì 24 novembre 2009

La mano nera.

Furfante fu la mano nera di Thierry Henry che, accompagnando il pallone altrimenti diretto oltre la linea di fondo, ha consentito all’attaccante della nazionale francese di effettuare l’assist per il decisivo gol in chiave qualificazione ai mondiali della squadra d’oltralpe. Ovviamente vibrate in campo, data la prestigiosa posta in palio, le proteste degli avversari, gli irlandesi; furiosi con l’arbitro, reo di non aver visto la palese irregolarità che ha viziato il gol francese, e dunque responsabile del furto perpetrato ai loro danni. Come sempre avviene nello sport, il campo da gioco assume i connotati di uno spettacolare teatro in cui ad esibirsi, sotto forma di gesti atletici, sono i vizi e le virtù di noi umani. Avviene di conseguenza che, a seconda del modo di giudicare gli episodi sportivi, può evincersi una chiave di lettura utile a comprendere una personalità. E’ dalle discordanze nel giudizio di quanto avviene sul campo che emergono le linee di demarcazione tra diverse nature. Su tutte, le più congenite a scontrarsi sono due: quella di chi antepone il successo ad ogni altra cosa, concedendosi anche il più disonorevole mezzo al fine di conquistarlo, e quella di chi è pronto ad offrire se stesso all’ingrata morsa dell’insuccesso pur di far trionfare ciò che di più prezioso possiede, i propri valori. Quest’ultima si chiama dignità ed onore dei vinti. Quell’altra si chiama disonestà. Tanti vincitori le debbono le loro fortune e non ne provano alcun accenno di vergogna. Del resto, una volta posatisi sopra le proprie teste gli allori, diventano anche immuni da ogni obiezione, avendo attirato intorno a sé pletore di zerbini ammaliati dal luccichio magniloquente che accompagna il loro trionfo e pronti a cantarne le gesta, sebbene ingrate. Così stando le cose, la mano nera di Henry non è soltanto l’abusiva parte del corpo che ha permesso furbescamente alla sua squadra di strappare il biglietto per i mondiali che si giocheranno a giugno in Sud Africa, ma è anche lo specchio delle miserie umane, dell’ipocrisia di quanti dei propositi di correttezza sanno solo sciacquarsene le bocche. Ma la mano nera di Henry è ancora altro; essa, nel momento in cui viene colpevolmente considerata invisibile dagli sguardi complici dell’arbitro e dei suoi assistenti, rappresenta la crudele spinta a quella vecchia, pura, romantica maniera di concepire il calcio. Spinta che ne comporta la caduta rovinosa a terra, a beneficio del calcio industria, del profitto a tutti i costi che ha finito per insozzare anche questo antico avamposto di romanticismo che ruotava intorno ad un pallone di cuoio. Profitto che, per definizione, misconosce valori ed identità, ritenendoli ostinate ed obsolete sovrastrutture che ostacolano il suo caotico processo di fagocitazione. L’industria ha il solo obiettivo di vendere un prodotto e, per farlo, deve condirlo nel modo che sia più appetibile al consumatore. Il campionato mondiale è sicuramente il prodotto che maggiormente attira a sé le attenzioni degli appassionati, immenso bacino di pubblicità e fucina di danari. Per esser tale è però necessario, appunto, che non manchi di attrazione. Che la lista delle partecipanti non manchi di tutte le maggiori rappresentative del globo. E, quando si parla di maggiori rappresentative, si fa riferimento non ai meriti sportivi, bensì alla fama e, conseguentemente, alle sponsorizzazioni, alla capacità che esse hanno di rendere proficua la più importante manifestazione calcistica. Ora, non per consumarci dietro a quella che può esser ritenuta l’ennesima ode celebrativa all’isola d’Irlanda, vorremmo fare un’osservazione: il fatto che il torto sia avvenuto ai danni della nazionale irlandese è il motivo per cui esso ha avuto una risonanza mediatica altrimenti impensabile. Le proteste irlandesi non si sono limitate a farsi vibranti sul rettangolo di gioco, ma sono seguite in modo altrettanto veemente anche in altri ambiti. La federcalcio, addirittura il governo irlandesi non hanno lesinato critiche e provocatorie richieste di ripetizione della partita, in nome della sportività tanto decantata, che hanno messo alla berlina l’ipocrisia di FIFA e calcio francese. Il capitano della nazionale gaelica Robbie Keane è andato coraggiosamente oltre, ricercando i motivi dell’accaduto nelle logiche del mondialismo che vedono le multinazionali protagoniste: "L'Adidas sponsorizza il mondiale, la Francia ha come sponsor l'Adidas, quindi era tutto già deciso, dovevano andarci loro in Sudafrica". Questa netta e caparbia presa di posizione da parte irlandese ha permesso che i riflettori mediatici si posassero su quella mano nera, marchiando la presenza francese al mondiale con la spiacevole etichetta che si dà ai ladri. Del resto, lo scontro tra le nazionali calcistiche di Francia ed Irlanda rappresenta proprio il conflitto tra due realtà opposte. L’Irlanda pervicace, composta da tanti onesti portatori d’acqua e da un paio di ottime individualità, trova la propria forza - che le consente di competere con formazioni più attrezzate - nel coraggio, nell’orgoglio e soprattutto in quell’attaccamento ai colori della propria terra che fa sì che la maglia verde e la pelle di chi la indossa diano vita ad una magica commistione. La Francia meticcia, piena di sponsor ma priva d’identità, sbiaditissimo ricordo di quel che fu il suo europeo blasone secolare, è composta da tanti celebrati campioni che hanno riscattato le infanzie da relegati a vivere nelle banlieues appropriandosi del maggior palcoscenico sportivo nazionale; ad unirli, nessuna appartenenza, nessuna magia, ma soltanto le ricchezze concesse loro dal calcio moderno. Lo sport, nel senso più nobile del termine, nel senso olimpico, non può che trovar conforto nel poetico incantesimo dell’Irlanda. La vera vincitrice di Saint Denis. Malgrado una mano nera, la colpevole omissione degli arbitri ed il processo incessante che domani, quando cesseranno le fastidiose proteste irlandesi, avrà già dimenticato tutto, proponendoci un altro capitolo di questa farsa.


 

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