venerdì 24 aprile 2009

PENSARE NEL MONDO GLOBALIZZATO? IMPRESA DIFFICILE.



Si sente spesso parlare ingombranti personalità di razionalità e di laicità. Legando la sfera politica a quella razionale, e secolarizzando il pesante bagaglio d'eredità lasciatoci da secoli di cattolicesimo potremmo dire "olistico", si è inseguita la chimera e la favola della separazione dualistica, in una linea di perfetta continuità con quanto sul piano spirituale aveva fatto il pensiero giudaico-cristiano (separando realtà sensibile e realtà oltre-sensibile). Non solo si è separato l'aspetto religioso ed etico, relegato frettolosamente alla sfera intima o privata, dall'aspetto politico e giuridico, impropriamente confuso con la mera dimensione pubblica, ma si è nei fatti posta la supremazia della ragione umana in un'ottica di misurabilità universale, e nel più generale ambito di una teleologia escatologica ad uso e consumo dell'uomo stesso. Non più Dio insomma, ma una nuova divinità dogmatica e autoreferenzialistica: la Ragione. Nel saggio dedicato alla parola di NIetzsche "Dio è morto", interno alla raccolta Holzwege - Sentieri erranti nella selva, Martin Heidegger osserva che "Non cominceremo a pensare finchè non capiremo che la Ragione, glorificata da secoli, è la più accanita avversaria del pensiero", proprio riferendosi a ciò che Nietzsche aveva intuito, capovolgendo la metafisica classica (attraverso la collocazione della volontà di potenza come essenza e dell'Eterno ritorno come modalità), pur non superandola. Quello che dà alla lettura del pensatore tedesco un nuovo e più ampio margine di attualità e ciò che indubbiamente pone Heidegger quale termine assolutamente primario per comprendere il pensiero continentale del Novecento, è la ricomprensione del nichilismo, dell'"ospite indesiderato", all'interno della metafisica stessa, che a sua volta viene ricompresa quale fenomeno destinale ed ontostorico nella vicenda dell'essere umano. Una decadenza in definitiva ricompresa nel ciclo storico che regola e governa la Natura, in quel ciclo, ossia, a sua volta obliato anch'esso, all'interno del più grande Oblio. Quella dimenticanza, cioè, riguardante la condizione umana di ente gettato nel mondo ed in ultima battuta riferita alla differenza ontologica tra Essere ed ente.Senza addentrarci troppo in questioni teoretiche, e restando all'interno della storia e dell'organizzazione societaria dell'uomo, possiamo notare che proprio quei termini che avevano contraddistinto la nascita della metafisica occidentale, il fine e l'oggetto, sono alla base di tutti i modelli fin'ora trionfanti nella società moderna. Il fine presuppone non solo la linearità storica in un'ottica palesemente escatologica che può indistintamente essere religiosa (pensiero giudaico cristiano come compimento salvifico) o sociale (marxismo come messianismo terrestre, idealismo come affermazione dell'Assoluto ecc...), ma anche la centralità dell'uomo nel suo luogo di transito. Il mito per cui questa Terra sia stata in qualche maniera creata (o sia da adibire) in funzione ed in completa relazione all'essere umano, e l'utopica illusione dell'universalità della ragione umana, conferiscono all'umanesimo moderno gli stessi termini antropocentrici di quelle religioni che aveva inteso contrastare nel nome di una laicità che nei fatti non esiste, poichè elimina lo scetticismo prezioso del dubbio critico (che era almeno indirettamente consentito dal carattere misterico-esoterico di certa parte della religione cristiana come di ogni altra forma di sacralità), ed impone sul piano mondano i dogmi dell'antropocentrismo.


Come disse Massimo Fini, in una sua pubblicazione ormai ultra ventennale, "la Ragione aveva torto", ed oggi ne vediamo le più palesi risultanze: l'uomo attraverso l'umanismo è insorto contro la natura e contro un ordine naturale che nessuno, nemmeno il più scettico ed "empio" degli antichi (basti pensare a Socrate e Platone), si era azzardato a negare e reprimere. Il carattere, forse mistico, ma indubbiamente ermeneutico, che emerge dal Mito della caverna di Platone, considerato tra i pionieri del pensiero moderno, ne è la più evidente prova. Non possiamo ottundere con il nostro metodo di ragionamento ciò che dialetticamente ci è dinnanzi, ma ontologicamente ci è ulteriore ed inattingibile. Il nostro linguaggio, quello migliore, cioè quello ermeneuticamente più calzante, quello poetico, è capace al più di alludere ad una serie di orizzonti semantici che possono rispondere all'interpellanza che ci viene da questo ordine naturale. E in un atto interpretativo contestuale nel quale sparisca qualunque categoria del tipo: soggetto e oggetto, causa e conseguenza ecc... categorie che la chiara aporia Kantiana ha evidenziato essere buone per noi, per il nostro comune vivere in società, per facilitare la nostra "maneggiabilità pratica", ma non certo per comprendere la struttura dell'uomo e del mondo. Il problema della metafisica, richiamato da Heidegger nel suo confronto Kantiano del 1928, è proprio quello dell'uomo contemporaneo: esaltare le categorie della ragione, ma non essere chiaramente capace di individuarne la fondazione. E, una volta individuatane una eventuale, si porrebbe sempre il problema della sua ulteriore fondazione, nella folle ed infinita corsa di un assoluto utopico contro il tempo e contro lo spazio, cioè, in una frenetica e folle riflessione contro noi stessi: contro la nostra condizione di enti, limitati nello spazio e nel tempo, destinati al perimento.



Oswald Spengler notando che "Ogni cultura ha un proprio criterio, la cui validità comincia e finisce con esso. Non esiste alcuna morale umana universale", ha chiaramente limitato la sua notazione al piano forse estetico della riflessione storica ed etnoantropologica, ma ha colto l'essenza del modernismo antitradizionale, esattamente nel suo assurdo assolutismo ottundente e ricomprendente qualunque tipo di pensiero, persino il più apparentemente opposto, al proprio fondamento interno: sono persino le sovversioni (e qui, sul piano politologico, ci corre in aiuto il belga Jean Thiriart) a risultare l'estremo più o meno conscio di una conservazione che, mira all'abbattimento delle mere forme del passato, senza minimamente intaccare l'essenza del presente, cioè la modernità coi suoi miti fasulli e con le sue utopie. E' questo il villaggio globale che omologa culture, popoli, specificità e peculiarità, distruggendo il concetto stesso di differenza, nel nome di un egualitarismo oppressivo, che partendo culturalmente dalle giuste rivendicazioni sociali e materiali delle classi più disagiate, ha poi ampliato il suo tiro e degenerato sino al proprio devastante penetramento all'interno di concetti teoretici e spirituali che non potevano chiaramente esserne coinvolti. Il livellamento ha colpito duro, ed ha schiacciato tutto, financo le gerarchie più naturali, vale a dire quelle orizzontali, quelle fisiologiche e lapalissiane che sancivano fedelmente la coesistenza e la convivenza delle differenze. Il linguaggio utilizzato dai media e dalla classe politica dominante è tutto indirizzato verso questa confusione semantica, e verso l'affermazione di un neoidioma semplificato e dimidiato da dare in pasto alle masse vuote ed insipide di sudditi/consumatori di questo Impero del Nulla, nel nome del profitto e della mercificazione di qualunque valore naturale, appiattito e svuotato, negato proprio nell'attimo del suo incrocio multiculturale, nel disastroso trionfante conformarsi (nel senso letterale di formarsi-assieme) degli uomini in una massa omologata e invisibilmente incatenata.


 

Wotan

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