domenica 14 settembre 2008
















DOVE LE AQUILE HANNO OSATO.







Pensiamo, per un attimo, di quali misere idee siano infarciti, di norma, queli che vengono chiamati ‘programmi di partito’, e come, di volta in volta, vengano riadattati alle mutate idee correnti. Bisogna osservare attentamente, come sotto una lente, le idee centrali delle ‘commissioni per il programma’ dei partiti (in special modo quelli borghesi) per poter afferrare appieno la consistenza reale di questi aborti politici. Con questo, gettammo le basi e seminammo le nuove teorie che dovevano distruggere definitivamente quel lerciume rappresentato sino ad allora da teorie ed opinioni vecchie e per giunta non molto chiare. Era giunto il momento che energie nuove nascessero e si lanciassero contro la pigra e ormai anemica società borghese, a sbarrare il passo alla grande area marxista, e riequilibrare il traballante carro del Destino



(Adolf Hitler)






Così esordisce il Mein Kampf. La dialettica e il linguaggio tecnico, solenne ma al contempo preciso e pregnante che contraddistingue lo scritto con cui il Nazionalsocialismo prese corpo e su cui esso potè edificare la propria opera, si lascia immediatamente osservare. In queste righe è probabilmente riassunto ed implicitamente contenuto tutto ciò che sarà poi sviluppato nei paragrafi e nei capitoli susseguenti. L’attacco al sistema politico partitocratico portato avanti attraverso un’analisi decisa della realtà, ci mette dinnanzi al carattere profondamente ‘realistico’, che si espande nella volontà di distruzione ed annullamento, al fine di un superamento verso una dimensione nuova ed ulteriore. In fine, la parola che, probabilmente, più di ogni altra, segna indissolubilmente tutto il pensiero nazionalsocialista: Destino. La maiuscola è un evidente mezzo attraverso cui si vuole sottolinearne l’importanza e la supremazia all’interno del capitolo. Su tale termine si potrebbe con valida ragione recriminare una ben più ampia trattazione comprendente millenni della nostra storia, e decine di citazioni di illustri pensatori ma ahimè non è questa la sede per un compito di una portata tale. Basti attenersi al periodo storico contingente al fenomeno per poterne trarre importanti osservazioni. Nei primi decenni del Novecento, la Germania era ormai da almeno due secoli la patria indiscussa della filosofia occidentale, e uno dei suoi più grandi esponenti – Friederich Nietzsche, morto, guardacaso, nell’anno 1900 – aveva lasciato una pesantissima eredità, lasciando sullo sfondo una riflessione ineliminabile. Il cosiddetto ‘ospite indesiderato’, il nichilismo, quale fenomeno di decadenza e caduta dei valori e del senso dell’esistenza, ha poi col tempo ispirato tantissimi personaggi diversi: tra questi, innumerevoli pagliacci, fuorvianti profeti e chiaccheroni ignoranti, avevano forse offeso e tramortito gravemente la riflessione del filosofo. Ci volle la profonda e imponente opera di Martin Heidegger, il più grande filosofo del Novecento, che, forse, meglio di ogni altro, riuscì ad inquadrare ed interpretare il pensiero di Nietzsche. La decadenza dell’Occidente come implacabile destino onto-storico, la metafisica come dominio incontrastato e folle del soggetto, insorto contro l’essere autentico e dimentico della sua condizione di minorità rispetto all’essere, e la tecnica come mezzo di dominio e di sfruttamento delle risorse del pianeta: queste le principali tematizzazioni di Heidegger, attraverso una disamina teoretica che ha coperto la sua intera vita. L’esserci, cioè l’essere-nel-mondo, l’essere temporale, è la condizione umana e di ogni altro ente, ontologicamente minore e sottoposto all’essere.



Queste dissertazioni, che ai più profani di filosofia, potrebbero suonare complesse, sono in realtà frutto di una semplicissima osservazione della fallacia e dell’illusorietà che ha contraddistinto il pensiero occidentale da Platone fino ai giorni nostri: l’antropocentrismo, la centralità del soggetto umano, è pura arroganza ed illusione. L’uomo è in realtà compreso nel mondo e ontogeneticamente strutturato sulla base della finitezza (essere-per-la-morte). Heidegger stesso ci informa della semplicità del suo pensiero (tanto difficile da capire per l’ornamentoso e vuoto uomo moderno) facendo continuo ricorso al concetto di ‘origine’. L’origine, come in tutto, anche in filosofia è rappresentata dall’inizio del pensiero: Eraclito (riletto in Saggi e Discorsi) ed Anassimandro (riletto in Holzwege - Sentieri Erranti Nella Selva) sono, in tal senso, i due filosofi più genuini. L’essere balenò col suo lampo all’inizio del pensiero, per un attimo, e illucato, potè disvelarsi. Da allora però, fu via via dimenticato (o meglio obliato). I concetti di dis-velamento (aletheia) e di essenza dell’essere (logos accepito quale sostantivo di leghein, come posare-raccogliente), vengono ad assumere un ruolo centrale in tutta la sua riflessione. Al di là dei legami più o meno veritieri e più o meno sostanziali tra il Nazionalsocialismo ed Heidegger, l’influenza che Egli esercitò su tutto il pensiero contemporaneo è evidente anche ai nostri giorni. La spersonalizzazione (“La persona umana è fondamentalmente un errore… un’unità che non regge”, F.Nietzsche) dell’individuo in quello Stato Nazionale conseguito dalla volontà popolare del voelks (categoria politicamente proveniente dagli ambienti del socialismo tedesco tra XIX e XX sec.), il recupero della tradizione esoterica germanica, la fascinazione per l’acume teoretico della Grecia antica, la rivolta contro il mondo borghese e le sue affezioni sociali ed economiche (plutocrazia, tecnocrazia, profitto), sono istanze che hanno contraddistinto la dottrina e la prassi del Terzo Reich.



Lo Stato è da qui concepito come frutto di una volontà comune e comunitaria, fusione di intenti in un’unità giustificata dalla realtà sociale; proprio quella realtà, cui all’inizio facevamo richiamo, è la stessa osservazione della realtà, nella consapevolezza dell’ontogenetico carattere intepretativo ed ermeneutico della comprensione umana, cioè rifuggendo ogni alienazione razionalista ed oggettivante: errori che ad esempio costarono cari al socialismo scientifico di Karl Marx. Tenendo presenti i concetti di realtà e origine, il carattere biologico che si presenta come il tratto più fondamentale è quello della razza. Le razze, studiate da moltissimi nomi illustri, spesso con discorsi prolungatamente esasperati e a volte pretestuosi (si legga in tal proposito la Filosofia dello Spirito di Hegel o il Trattato sulle Razze di De Gobineau), paiono intimamente imprescindibili da una seria analisi antropologico-scientifica. Pur nella sua gratuità a volte perfino odiosa, la disamina hegeliana (la cui influenza sulla cultura tedesca era, nonostante tutto, ancora forte in ogni ambiente teoretico), ha forse, tra le tante tesi opinabili, il merito di individuare un punto fondamentale: l’esistenza di tre ceppi generali (indo-europeo, asiatico, negroide) che sono alla base delle differenze razziali. Il Nazionalsocialismo porterà l’idea della razza a livello dello Stato, anzi fondendo addirittura la razza, la comunità e lo Stato, in una specie di unificazione tra bio-genetica, storia e politica riassunta nel motto ‘Sangue e Suolo’. La razza appare nelle parole di Hitler come qualcosa che dovrebbe essere connesso alla civiltà, ma che ne è comunque ben distinto. Il suo attacco alla Chiesa e ai missionari, rei di imbastardire le tribù africane, è un chiaro sviluppo di ciò che emerge: pur ribadendo l’impossibilità dell’esistenza di razze assolutamente pure (che al piu’ comparvero all’origine del mondo, ma poi progressivamente sparirono), la razzialità intesa come purezza identitaria e somatica va difesa il più possibile, attraverso un’inversione di tendenza rispetto a ciò che accade nella società.



Il ruolo guida che la Germania avrebbe potuto avere grazie ad una presunta maggiore presenza di caratteristiche originarie, si prefigurava all’interno di una coesistenza gerarchica tra razze relativamente pure. Il vero fulcro del problema pare essere l’imbastardimento e l’incrocio tra razze: questo affiora come l’unico parametro per stabilire inferiorità e superiorità. Dunque, niente affatto una selezione naturale, calata dall’alto da un qualche feticcio divino inesistente ed alienante, ma una chiara e posteriore volontà umana, detterebbe purezze o meno. Un individuo bastardo, frutto di una mescolanza (in ogni caso voluta e posta dall’uomo) tra razze diverse, sarebbe deficitario dell’unità di sangue e, dunque, dell’unità di volontà. L’incrocio tra razze diverse sarebbe quindi alla base della decadenza della civiltà europea e la sede della paradossalità che contraddistingue il sedicente civile modello americano. Più che di un razzismo – categoria,questa, oramai distorta e degenerata a posteriori, tramutata dai mass media nel concetto, questo sì davvero inaccettabile, di ‘odio cieco o assolutismo bianco’ – sarebbe più giusto parlare di un razzialismo, inteso quale ‘esaltazione della razzialità’, della razzialità in generale, come ‘ciò-che-concerne-una-razza’: dunque affermazione-esaltante di tutte le razze. La controprova storica che conforta il carattere razzialista così inteso, peculiare al Nazionalsocialismo, ci è consegnata da due dati incontrovertibili:



l’anticolonialismo del Terzo Reich, soprattutto dacchè inquadrato in un periodo in cui tantissime delle nazioni democratiche e liberali facevano man bassa delle povere popolazioni nere;



le numerose alleanze strette dal Terzo Reich con i paesi arabi (ricordiamoci le SS algerine o palestinesi che difesero Berlino fino all’ultimo minuto), con gli Stati asiatici del Giappone, del Tibet, dell’India e dello Sri-Lanka, con le popolazioni indigene dell’America Latina (chi si sorprenderebbe nel guardare quella nota foto con l’indios sulla barchetta nelle acque del Rio delle Amazzoni, su cui batteva bandiera svasticata?), ed il fascino per la tradizioni dell’Africa più misteriosa e millenaria che molti esponenti della cultura del Terzo Reich nutrivano.



Possiamo dunque ricondurre tutto ciò ad una visione che poneva quale obiettivo destinale/originario una generale coesistente ed ascoltante presenza delle razze: una sorta di heideggeriano ‘leghein’ quale ‘posare-raccogliente’ o ‘lasciar-stare-dinnanzi-insieme’, traslato da un piano linguistico-ermeneutico ad un piano antropologico-culturale, nella cui ottica lo stesso concetto di libertà torna alle origini e si rivela positivamente come ‘libertà-per’ (libertà di esprimere la propria identità, libertà di realizzare sé-stessi, attraverso e dentro lo Stato-Nazione) in contrapposizione alla degenerazione liberale/liberista culminante nella negativa ‘libertà-da’, tipica dell’individualismo borghese del mondo moderno, in cui le smanie e le perversioni del soggetto insorto contro la sua condizione necessaria/naturale, hanno compimento in deleteri fenomeni quali uso di droghe, materialismo sfrenato, edonismo e mescolanza razziale.



In questo tornare alle origini sta la volontà di tutti noi, in questo distruggere la modernità sta la nostra lotta, in questo affermare-noi-stessi per ciò-che-siamo-da-sempre sta il nostro parlare, e l’unica ‘violenza’ o ‘follia’ per cui potremmo mai essere accusati è quella di proporre la degenerazione di una degenerazione. Ma appare chiaro che sarebbe un’autorete per i nostri nemici ed un vanto per noi stessi.


 


Associazione Culturale TYR - Comunità Militante Perugia

2 commenti:

  1. Le belle parole non fanno la serietà di un argomento. Su quali tesi scientifiche si basano le opinioni di Hitler? Quanto queste basi scientifiche sono attendibili?

    I fatti parlano più delle parole, senza un riscontro autorevole queste sono solo chiacchere tese a giustificare un movimento politico criminale.

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  2. Forse ti sfugge che è solo una analisi...

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