lunedì 1 settembre 2008

Il lavoro rende liberi?

La parola lavoro deriva dal latino labor, fatica. Suo sinonimo era opus, diventato poi opera. Lavorare è dunque faticare per raggiungere uno scopo o per costruire qualcosa. Nell’accezione moderna il lavoratore è colui che fa qualcosa ed è stipendiato per farlo. Adoperarsi per sviluppare attività di cui possa la società goderne senza avere un datore di lavoro è invece volontariato.



Ora lo scopo del lavoro è il guadagno, ma ancor prima del guadagno è la sopravvivenza. Chi non lavora non fa soldi e chi non fa soldi non ha da vivere. Si sacrifica, dunque, parte della giornata per metterla a disposizione di un datore, ottenendo in cambio il denaro per procurarsi i beni primari o di prima necessità: casa, alimenti, etc. Lavorare e cercare di progredire nel proprio lavoro diventa assieme mezzo e scopo della vita. Così, tutti trovano un impiego, a seconda delle richieste di ogni settore, del proprio percorso di studi e della fortuna.



Nelle società arcaiche divise in caste, i lavoratori intesi come al giorno d’oggi erano la maggior parte delle persone, ma erano ben divisi da guerrieri e sacerdoti (anch’essi lavoratori secondo il vecchio significato, in quanto faticavano per raggiungere obiettivi e per il bene della comunità) e sapevano già da giovani quale sarebbe stato, probabilmente, il loro futuro. Niente scuole a metà tra il generico e lo specialistico, niente agenzie interinali e niente code di disoccupazione. Ognuno faceva quello che da piccolo aveva imparato, poiché dall’infanzia veniva insegnato il lavoro che la famiglia portava avanti. Guerrieri e sacerdoti potevano invece godere dell’otium per studiare o apprendere un’arte, mettendo così a frutto la propria indole. Cosa che ora è impossibile, se non sotto corpi speciali o gruppi scientifici che non puntano certo alla ricerca. Se al giorno d’oggi può sembrare assurdo che poche persone possano sviluppare le loro facoltà mentre i molti lavorano è perché siamo abituati ad avere in vista soltanto il massimo guadagno e perché bruciamo di invidia. I lavoratori sono sufficienti a mantenere tutti e ogni casta contribuisce a modo suo, organizzando la vita politica, difendendo i confini, esplorando le vie del divino, ricercando la conoscenza nella materia. Ma tutti cooperando per il bene comune.



Nel mondo delle grandi fabbriche tutto questo è andato distrutto, l’operaio deve compiere un lavoro, di cui probabilmente non ha interesse, che produrrà un pezzo destinato a finire sul mercato, senza portare giovamento se non ad una persona o ad un gruppo ristretto. Non diventerà certo un esperto in un mestiere, ma si accontenterà magari di passare di grado o prendere qualche soldo in più.



Si instaura così un rapporto di dipendenza, per il quale la persona non può fare a meno del lavoro e ha difficoltà a costruirsi obiettivi diversi e seguire altri interessi. L’unico interesse che conta è quello dell’azienda, mentre quello personale o della comunità passa in secondo piano.



Una forma più sana di lavoro è quello svolto per il raggiungimento di un obiettivo, per costruire qualcosa per una comunità. Questo lavoro, privo di interessi malati e alienanti, se ben realizzato, può portare alla crescita sia personale che comunitaria e permettere di spezzare la suddetta dipendenza.



Nella difficoltà di riuscire a mantenersi con questo metodo, la cosa più intelligente da farsi è costruirsi una forte esperienza in un determinato campo e portarla in seguito all’interno della comunità, quando la situazione lo richiede. Approfittare, quindi, del mondo del lavoro, apprendere le tecniche e riportarle “in famiglia” per costruire qualcosa di solido.



Solo così si può veramente diventare liberi, poiché maggiore è il potenziale della comunità e maggiore è il potenziale di ogni singolo al suo interno, e si sa che la libertà esiste soltanto in base alla potenza.





Di Daniele Pastori, www.oriononline.info

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