Bisogna salire il sentiero alle undici del mattino, fra i pioppi, le vigne e i castagni, per capire quale sarà la musica della giornata. Nessuno slogan, neanche un coro. Solo passi in fila indiana sulle foglie secche e un silenzio pesante, quasi funereo. Mentre i caschi da motociclista ciondolano appesi alle cinture.
Stanno andando ad attaccare le reti del cantiere. Nonostante il divieto di avvicinarsi firmato dal prefetto di Torino. Nei giorni scorsi hanno chiamato questa iniziativa in tanti modi. Girotondo. Assedio. Logoramento delle forze di occupazione. Adesso sono in mille, tirano fuori dagli zaini panini, cioccolata e pasta fredda. Si accampano con le facce al sole. Un’ora, non di più. Poi Lele Rizzo del centro sociale Askatasuna, uno dei portavoce del comitato No Tav, spiega al megafono il programma della giornata: «Dobbiamo fare pressione, avere coraggio, essere coordinati. Avviciniamoci tutti alle reti. A un segnale preciso, proveremo a fare qualcosa di più…». Applauso.
I pochi sorrisi si spengono in faccia. È il momento della vestizione. Maschere antigas, occhialini da nuoto, cappucci, foulard, sciarpe alte sulla bocca e limoni in tasca. Di colpo, telecamere e macchine fotografiche non sono più gradite. È chiaro a tutti, in quel momento, che si sta per passare il confine della legalità.
Adesso si sparpagliano lungo il perimetro del cantiere. Un gruppo di cento – molti ragazzi del Veneto e di Milano – si inerpica per un sentiero ripidissimo. Vogliono raggiungere le recinzioni sul versante opposto, nella zona dove sono posteggiati i mezzi delle forze dell’ordine. Ma appena spuntano in cima al costone, piovono i primi lacrimogeni. Grappoli dal cielo. La nebbia urticante nel chiaroscuro del bosco, fiammate fra le sterpaglie. I ragazzi con i caschi raccolgono le cartucce, provano a spegnerle, sopra c’è scritto: «Calibro 40 a frammentazione, lacrimogeno al CS». Urlano: «Ci stanno gasando!». Chi è senza maschera, sputa, piange e scappa. Una signora bionda si accascia contro il tronco di un albero, in preda a un attacco di tachicardia. Due squadre di poliziotti si avvicinano a passo di marcia. Mentre il fumo biancastro si diffonde ovunque.
Stefano Rogliatti è un cameraman della Rai, ha appena filmato un lacrimogeno sparato ad altezza uomo. Ha colpito un ragazzo che voleva spegnere un principio di incendio, lo portano via a braccia. Ora Rogliatti vuole documentare la distanza che ancora rimane prima dalla recinzione del cantiere. Incrocia dieci poliziotti su un sentiero alto. Urla tre volte: «Sono della Rai!». Ma viene colpito da una pietra al polso che arriva dalla parte degli agenti. A quel punto volano pietre in tutte le direzioni e i manifestanti cercano di centrare gli agenti. Alcuni vigili del fuoco portano gli estintori per spegnere i focolai. Si sentono urla e insulti. La radio della polizia gracchia un nuovo ordine nel bosco: «Basta con i lacrimogeni».
Giù, vicino al cantiere, la situazione non è migliore. Un gruppo di ragazzi incappucciati prova a tagliare le reti. Qualcuno lancia una bomba carta. La polizia risponde con gli idranti. Poi ancora lacrimogeni. Cadono dal viadotto dell’autostrada, filano dallo schieramento a guardia della recinzione. Ed è in quel parapiglia di urla, maledizioni e paura, che incrociamo Yuri, 16 anni, di Venaus. Lo sorreggono due amiche. Ha l’occhio sinistro tumefatto, vomita e sta per svenire. Un ragazzo, vicino a lui, grida: «Gli hanno sparato un lacrimogeno in faccia, aiutateci, abbiamo bisogno di un’autoambulanza». Arriva un altro ferito. Si chiama Ruggero Martorana, 19 anni, scappando si è spaccato la caviglia. Urla, le ossa del piede formano una specie di zeta. Lo stendono, lo soccorrono. Mentre contano altri quattro feriti più lievi.
Yuri sta male, ha le vertigini. Non riesce a parlare. Le sue amiche piangono di rabbia. Chiedono di passare. Lo portano verso l’autostrada. Suo fratello gli sta sempre accanto. Dopo un’ora, finalmente, lo caricano su un’autoambulanza della polizia.
Di, NICCOLÒ ZANCAN
Inviato a Chiomonte (TO), La Stampa
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