Giornalista freelance collaboratore de Il Sito di Perugia e di Agenzia Stampa Italia, Fabio Polese è da anni impegnato nel sociale insieme alla Comunità Solidarista Popoli. In questa duplice veste – di giornalista e di volontario – si è più volte recato in Birmania, l’attuale Myanmar, per sostenere il popolo Karen. Il suo ultimo viaggio nel Sud Est asiatico è ancora in corso: Fabio sta svolgendo la sua attività umanitaria corredandola con un diario e con un reportage fotografico (anche la foto qui proposta è di questi giorni, le altre potete richiederle contattando Polese all’indirizzo info@fabiopolese.it). Malgrado la distanza e le non facili comunicazioni, siamo riusciti a rivolgergli qualche domanda sul suo difficoltoso viaggio attraverso un paese affascinante e antimoderno. Che, a quanto racconta Fabio, ha molto da insegnarci.
Perché questa passione per la Birmania? Cosa ti spinge ad affrontare un viaggio lungo, dispendioso e non privo di pericoli?
Ho iniziato ad interessarmi della Birmania perché sono sempre stato affascinato dalle popolazioni che sono in lotta per il mantenimento della propria cultura e identità. In particolar modo sono rimasto molto colpito dal popolo Karen che combatte incessantemente dal 1949, quando il Trattato di Panglong, che avrebbe dovuto garantire l’autonomia delle varie etnie, non fu rispettato. Sono stato subito affascinato dalla loro perseveranza nel rispetto dei principi fondamentali come la tradizione, la terra, gli antenati e la voglia di libertà. Ho deciso così di prendere un aereo e partire per conoscere di persona quello che fino a prima avevo solo potuto leggere ed immaginare. Poi tutto il resto è venuto da sé. Quando si ha la fortuna di conoscere i bambini dei villaggi o i volontari dell’Esercito di Liberazione Karen, le altre cose passano in secondo piano. Dieci giorni dentro Kaw Thoo Lei(la terra senza peccato), riescono a darti emozioni che difficilmente si possono spiegare ma che sicuramente ripagano il tutto il resto.
Qual è la situazione attuale della Birmania? Quanto è diversa la realtà Birmana dall’immagine che se ne ha in Occidente?
Molto probabilmente, se pensiamo alla Birmania, la prima cosa che ci viene in mente è il Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. Oppure, per gli amanti dei viaggi, può venire in mente quello che le agenzie turistiche nostrane mostrano nei propri depliant: l’immagine magica di un paese congelato nel tempo con ancestrali culture non contaminate dal mondo moderno, monaci buddisti e mille pagode. Purtroppo, la Birmania, non è solo questo. Il governo di Rangoon è retto da una giunta militare secondo quella che loro chiamano “la via birmana al socialismo” ma, oltre al sostegno che ottengono dalla Cina, basano buona parte del bilancio statale sugli accordi milionari ottenuti da multinazionali occidentali. Sono forti i rapporti anche con la Russia, la Corea e la Thailandia. Soprattutto nel settore energetico. La Repubblica Popolare Cinese – tra falce e capitale – è interessata ai ricchi giacimenti di gas, ai porti sull’Oceano Indiano, agli oleodotti verso lo Yunnan, ma anche a un mercato strategico nei mari del sud-est asiatico per le proprie merci. Il tutto è reso ancora più “attraente” dal fatto che la Birmania si trova nel “triangolo d’oro” ed è tra le principali produttrici di stupefacenti del mondo. Nelle raffinerie e nei laboratori che stanno nelle zone controllate dai militari della giunta, vengono prodotte ogni anno tonnellate di anfetamina e di eroina. In questo contesto geostrategico ed economico, molte delle diverse etnie che compongono il mosaico birmano sono costantemente chiamate ad imbracciare le armi per difendere i propri figli dalla brutalità degli attacchi dell’esercito regolare e per mantenere le proprie specificità di popolo. Proprio in questi giorni è previsto l’arrivo, dopo più di cinquant’anni, del segretario di stato Hillary Clinton per “incoraggiare” le presunte riforme democratiche che il Myanmar sembrerebbe portare avanti con il presidente Thein Sein. Il governo birmano, però, mentre annuncia negoziati per un cessate il fuoco, rinforza gli avamposti nelle vicinanze dei villaggi Karen. Insomma, la posta in gioco per il futuro del Myanmar è più alta che mai e i numerosi investimenti stranieri che ammontano a diversi miliardi di euro ogni anno, potrebbero essere fondamentali per il futuro politico del paese e per la libertà delle diverse etnie.
Cosa provi nello stare a contatto con i Karen?
E’ davvero difficile cercare di trasmettere almeno un po’ dell’emozioni che si provano a stare a stretto contatto con i Karen. E credo sia anche difficile da far percepire nel “civilizzato” occidente, dove siamo abituati quasi esclusivamente al culto del superfluo. Lì tutto diventa ancestrale. I giorni vengono scanditi solamente dalla luce e dal buio e anche le piccole cose quotidiane hanno un sapore speciale. L’atmosfera, la calma, il cielo che sembra possibile sfiorare con un dito e la fortissima indole di questo popolo, determinato alla lotta per la libertà, riescono a farmi vivere davvero e sono una speranza affinché anche da noi ci possa essere un ritorno alla visione più tradizionale della società.
Quale sarà la tua prossima iniziativa con Popoli?
Spero di riuscire ad organizzare una mostra fotografica di questa missione, magari con il patrocinio del Comune di Perugia, per sensibilizzare la lotta Karen e per raccogliere fondi fondamentali affinché i progetti per aiutare la popolazione, aumentino sempre di più. La Comunità Solidarista Popoli ha dato inizio ad un impegno che non può essere interrotto; molta gente Karen ottiene fondamentali cure sanitarie soltanto grazie al nostro intervento e molti bambini riescono a studiare perché “Popoli” è riuscita a finanziare, in diversi villaggi, delle scuole. Inoltre, proprio nell’ultima missione di novembre, sono state allargate le attività nel distretto di Dooplaya, zona Karen al confine con la Thailandia, con un nuovo progetto per la piantagione di campi di riso che serviranno per soddisfare diversi villaggi, la costruzione di un pozzo che permette l’arrivo dell’acqua nel villaggio di Ookray Khee e il mantenimento della scuola del villaggio di Kaw Hser che conta ben 150 bambini. Sempre “Popoli”, in collaborazione con l’Associazione Orfani Palestinesi, sta adottando piccoli orfani palestinesi che si trovano nei campi profughi in Libano. Chi vuole aiutarci, può contattarci ainfo@comunitapopoli.org, con la garanzia che tutto il denaro raccolto finisce direttamente nei progetti, dal momento che tutti i membri della Comunità Solidarista sono volontari al cento per cento e nessuno di noi percepisce uno stipendio.
Intervista di Leonardo Varasano, http://www.ilsitodiperugia.it/content/316-birmania-una-terra-dove-il-tempo-si-%C3%A8-fermato-e-dove-i-karen-lottano-ancora
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