(ASI) PRIMA PARTE - Saranno circa le sei di mattina e le luci del sole iniziano a filtrare dentro la zanzariera, è arrivata l’ora di alzarsi. I volontari del Karen National Liberation Army (KNLA), sono stati svegli tutta la notte e, a turno, hanno pattugliato il perimetro del villaggio di Ookray Khee, nel distretto di Dooplaya. Nonostante il governo del Myanmar, guidato dal presidente Thein Sein, parli di riforme democratiche e di fantomatici cessate il fuoco con le diverse etnie, la guardia è alta e proprio in questo distretto, negli avamposti militari birmani, stanno arrivando armi e munizioni. I giovani volontari Karen, guidati dal Colonnello Nerdah Mya, sono pronti. E’ la prima notte che trascorro dentro il villaggio, insieme ad altri volontari della Comunità Solidarista Popoli che dal 2001 porta aiuto concreto all’etnia Karen soprattutto attraverso la costruzione e il mantenimento di cliniche mediche e scuole. Ieri siamo partiti da Mae Sot, una piccola cittadina thailandese al confine con Birmania. Il fiume Moei è il confine naturale che, in questa zona, divide Thailandia e Myanmar. In questi giorni, il ponte “Friendship Bridge”, che collega Mae Sot alla Birmania, è aperto, solo in entrata, con permessi di durata giornaliera. Abbiamo trascorso un paio di giorni a Mae Sot, giusto il tempo per organizzarci e comprare le cose necessarie per entrare nella giungla. Poi, percorrendo per alcune ore una parte della “strada della morte”, abbiamo attraversato illegalmente il confine e siamo entrati nei territori controllati dai Karen. Il villaggio di Ookray Khee è un posto incontaminato dal virus moderno, la natura che lo circonda è qualcosa di incantevole come lo è la forza di volontà di ogni volontario dell’esercito di liberazione. Dopo una colazione veloce fatta con un caffè americano, siamo pronti per partire alla ricerca di una fonte per riuscire a portare l’acqua sia al campo militare che al villaggio. Un soldato è intento ad intercettare via radio le conversazioni dell’esercito birmano per monitorare i loro spostamenti; la situazione sembra tranquilla e, scortati da una diecina di volontari Karen, ci mettiamo in marcia nelle colline vicino al villaggio. In ogni momento la situazione potrebbe cambiare e potremmo essere attaccati dai pattugliamenti birmani. Il conflitto del popolo Karen è, di fatto, il conflitto più lungo al mondo; dal 1949 nei territori della Birmania Orientale è in atto una sanguinosa guerra che la giunta militare birmana conduce contro questa etnia. Il governo di Rangoon si arricchisce grazie agli ottimi rapporti con le lobby economiche planetarie e grazie al narcotraffico. Intanto, il popolo Karen, prosegue la sua difficile vita senza cedere un passo nei numerosi villaggi tra le montagne impervie della giungla e combattendo per ottenere ciò che gli era stato promesso alla fine del secondo conflitto mondiale: una forma di autonomia e il rispetto delle proprie tradizioni e identità. La Birmania, dopo aver ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna, con il governo post-coloniale guidato da Aung San, aveva firmato, in accordo con i capi della comunità Shan, Chin, Kachin e di altre etnie, il Trattato di Planglong che offriva a ciascun gruppo etnico la possibilità di scegliere, in dieci anni, il proprio destino politico. Ma dopo un colpo di stato, con l’uccisione di Aung San, il potere è passato alla dittatura militare di stampo socialista del generale Ne Win. Stiamo marciando, a rompere il silenzio sono solo i rumori dei nostri scarponi e della natura che ci circonda. Davanti a noi ci sono i volontari della KNLA che controllano il percorso, dove potrebbe nascondersi qualche mina. Bisogna fare massima attenzione. Camminiamo per qualche ora su e giù per le colline e riusciamo a trovare diverse fonti che, grazie al nuovo progetto di Popoli, serviranno a portare l’acqua nel villaggio di Ookray Khee. Nelle prime ore del pomeriggio, facciamo ritorno, alcuni soldati della KNLA stanno cucinando la cena. Gli odori sono intensi, quasi tutto viene cucinato con del peperoncino fortissimo. Approfitto del tempo libero per passare un po’ di tempo con i bambini del villaggio. Sono bambini dolcissimi e incuriositi nel vedermi con la macchina fotografica in mano, gli faccio vedere alcune foto che gli ho appena scattato. Sorridono. Si è fatta sera, le porte di Ookray Khee vengono chiuse, i militari si radunano nel piazzale del campo militare dove, il Colonnello Nerdah Mya, gli comunica la parola d’ordine per far rientrare i soldati che sono usciti in pattuglia. Ormai è buio e, dopo la cena, ci riuniamo su un tavolo per scambiare quattro chiacchiere prima di andare a dormire. Mentre mi infilo nel mio sacco a pelo, prima di chiudere gli occhi, penso alla straordinaria forza di volontà dei combattenti Karen che sono determinati alla lotta per la loro la libertà.
Di Fabio Polese,
http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6305%3Areportage-con-letnia-karen-che-da-oltre-60-anni-e-in-lotta-contro-il-regime-birmano&catid=49%3Aspeciale&Itemid=145
mercoledì 28 dicembre 2011
Reportage. Con l’etnia Karen che da oltre 60 anni è in lotta contro il regime birmano.
SOSTENIAMO RINASCITA.
Cari Lettori, Abbonati, Sodali.
Purtroppo, come dono natalizio di questo fine anno, il governo della miseria che dalla cittadella del potere usuraio detta legge al popolo italiano, ha deciso di sospendere il pagamento dei contributi all’editoria – benché “in bilancio per il 2010” - a venti-trenta quotidiani italiani, Rinascita inclusa. Un’altra strage simile è stata compiuta tra i periodici (no… non quelli del clero: quelle ottanta testate circa sono intoccabili, si sa; come pure preservati sono stati gli organi di associazioni misteriose e di partiti clandestini…). Alla settantina di voci residue hanno applicato comunque cospicue “detrazioni” non certo previste dalla legge, promettendo un qualche prossimo intervento “caso per caso”. E ai media “maggiori” hanno fatto finta di decurtare un po’ di “contributi indiretti”: che verranno però rinsanguati, “indirettamente”, per altri canali.
Certo: sappiamo che un giorno o l’altro, una volta percorso e superato l’iter burocratico pubblico al quale ci hanno assoggettato per ottenere la nostra scomparsa, qualcosa si aggiusterà, almeno parzialmente. Una legge è una legge: si dice anche che eventuali norme nuove non possano contemplare penalizzazioni retroattive… Ma l’accettata a tradimento l’hanno comunque già sferrata e le ferite inferte non si rimargineranno facilmente.
Sic stantibus rebus, per Rinascita è stato confezionato il seguente aut-aut: o spegnere la nostra voce stampa, seguendo il “disinteressato consiglio” della cittadella di limitare la nostra presenza alla rete internet, o stringere i denti, aggregando ogni limatura di residua forza, e andare avanti.
Voi ci conoscete. Ovviamente la prima ipotesi, umiliante e degna dei Lor Signori, è stata da noi totalmente rigettata.
Tuttavia non ci (e Vi) nascondiamo le difficoltà insite nella decisione di resistere. Un agguato ad ogni svolta d’angolo, un andare a vento, un fidarsi su deboli autonome certezze.
Bando alle analisi negative. Per andare avanti abbiamo bisogno del sostegno di chi ci è più vicino.
Quello dei Lettori che acquistano il quotidiano in città lontane da quello che è l’unico centro-stampa (Roma) utilizzato da questo gennaio: saremo costretti a sospendere, infatti, dal 1 febbraio 2012, la diffusione in varie piazze nazionali (attualmente raggiungiamo a macchia di leopardo tutta l’Italia, salvo la Val d’Aosta, il Trentino Alto Adige, la Sardegna).
Chiediamo loro di abbonarsi al quotidiano cumulativamente tramite web e tramite poste (spedizioni, quest’ultime, mal-eseguite, lo sappiamo: ma non è nostra colpa).
Quello degli Abbonati che, pur maltrattati dalle consegne postali, ci hanno sempre seguito e spronato ad andare avanti.
Chiediamo loro un rinnovo straordinario dell’abbonamento al quotidiano in tempi stretti (e l’uso, anche, della consultazione in internet).
E quello dei Sodali.
Ai quali chiediamo un nuovo sforzo politico ed economico: contrarre uno o più abbonamenti (carta-web) a prezzo pieno o sostenitore.
A tutti invieremo, gravati esclusivamente dalle spese postali, gli inserti che via via produrremo o che abbiamo già prodotto in questi recenti anni.
Cari Lettori, Abbonati, Sodali.
Tutti Voi sapete che “Rinascita” non è soltanto un quotidiano; non è solamente una serie di fogli di carta più o meno collegati; tutti Voi sapete che Rinascita è, al tempo stesso, analisi, memoria e speranza.
E’ per questo che Rinascita non intende affatto farsi da parte: è la nostra, come anche la Vostra, voce.
Quello che adesso occorre è un nuovo contributo di partecipazione attiva. Non andrà di sicuro perso. Anzi: servirà a noi tutti per trasformare questo quotidiano in un ancora più graffiante, comunitario e socializzato, organo di battaglia contro la dittatura democratica.
Credetemi. E ancora grazie per la Vostra attenzione, per la Vostra solidarietà, per le Vostre idee, per la Vostra opera.
Un patrimonio comune che ha permesso l’ esistenza di un quotidiano totalmente controcorrente.
Di Ugo Gaudenzi, http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=12308
martedì 27 dicembre 2011
Solstizio d’Inverno 2011, Monti Sibillini.
Ogni anno il 21 dicembre accade che ci sono uomini che decidono di fuggire dalla quotidianità per mettersi in marcia, con zaino in spalla, verso una vetta e lì affrancarsi dalla pesantezza della vita moderna e della vuota vita borghese. In questa data, ogni anno, alcune anime inquiete trovano rifugio nel silenzio assordante della natura che allieva le loro sofferenze patite durante tutto l’arco dell’anno a causa della routine della vita metropolitana e cittadina che sono costretti a vivere. Questi uomini sentono un richiamo irrefrenabile per l’avventura, la sfida, la lotta, i sogni ma l’epoca in cui oggi vivono non consente loro simili slanci e ciò nuoce al loro spirito e le loro anime ne soffrono quasi in maniera irreprensibile. Per questo motivo quando arriva il 21 dicembre, questi uomini non riescono a frenarsi dinanzi al richiamo del sole, unico vero motore spirituale e unica vera tensione verticale delle loro vite. Il freddo che patiscono salendo verso la meta sembra scaldare più di qualsiasi affermazione individuale che hanno nelle loro vite di tutti i giorni. La soddisfazione di ascoltarsi e di dar voce al proprio spirito, mentre si sale in silenzio senza distrazioni e provando la fatica fisica del peso del proprio zaino imbottito di legna, cibo e letture, va al di là di qualsiasi spiegazione razionale. In queste situazioni ricominci a dialogare con te stesso, con il tuo essere e ricominci ad imparare a vivere senza i contorni inutili di questa società artificiale ritornando almeno per una notte all’essenza. Ecco anche quest’anno ci siamo messi in marcia per raggiungere la nostra vetta e lì accendere il nostro fuoco per affrontare la notte più lunga dell’anno e salutare l’alba di una nuova stagione dove il festeggiato è il sole ma i protagonisti torniamo ad essere noi. Tra canti, bevute, letture, confronti e riflessioni, il nostro fuoco arde per tutta la notte e brucia con sè le insofferenze della grigia società materialistica a cui noi proprio non sappiamo adattarci. Il nostro è un levare al cielo un grido di cocente riscatto ed un bruciare una preghiera di elevazione per vincere le tenebre e spezzare le catene della mortale vita terrena. Quindi come tutti gli anni anche quest’anno abbiamo scelto di sfidare noi stessi sui Monti Sibillini, innevati e gelidi, ma dove ormai sembra essersi creato un legame forte per cui recepiamo istintivamente di essere in questo suggestivo luogo un posto famigliare e nonostante la stanchezza e il freddo il sorriso non ci abbandona per tutto il tragitto. Come sempre, la salita, ha un significato molto diverso della discesa. Salendo i momenti in cui si è soli con se stessi sono accompagnati tra di noi da scambi di vedute e riflessioni seriose quasi a dover gettare un seme da far crescere dopo il Solstizio, i momenti di silenzio servono invece a domandarsi come e cosa far nascere mentre ci si interroga sui problemi che affliggono le nostre esistenze. La natura ci mette alla prova, la neve non permette una salita agevole, i pensieri affaticano il passo, il freddo e il vento fanno il resto. Il mattino seguente la discesa ha un sapore diverso a significare che questa notte passata con i tuoi fratelli accanto al fuoco, ha lasciato dentro di noi una traccia importante. Il passo è leggero ma dopo alcuni momenti di silenzio in cui racchiudiamo in noi la consapevolezza di ciò che abbiamo promesso a noi stessi, si ricomincia a ridere e scherzare, felici di aver rafforzato le nostre convinzioni e il nostro spirito senza dimenticare la sana goliardia a riprova della piena giovinezza ritrovata. Torniamo in macchina e ci accingiamo a tornare nelle nostre città ma in cuor nostro portiamo un fuoco interiore che arderà ancora fino al prossimo Solstizio.
Associazione Culturale Zenit Roma
associazioneculturalezenit.wordpress.com
Associazione Culturale Tyr Perugia
www.controventopg.splinder.com
venerdì 23 dicembre 2011
Italia-Israele: 'prove generali di guerra' nei cieli palestinesi.
Sotto, i Territori Palestinesi Occupati. Sopra, nei cieli, delle 'prove generali di guerra', con voli acrobatici e simulazioni di scontri aerei.
Nei panni del nemico, questa volta, il “team rosso” italiano, con Tornado ed Eurofighter, che ha simulato operazioni di attacco contro l'avversario israeliano, per mettere alla prova l’efficacia di quelle missioni definite, in gergo militare, “Composite air operation” (Comao), e che vedono la collaborazione di diverse forze aeree per interventi “nel corso di crisi internazionali”.
L’operazione “Desert Dusk” è un’esercitazione che rientra nel programma di collaborazione militare e coordinamento tra l’aeronautica italiana e quella israeliana, finalizzata a mettere a punto procedure e tecniche di azione congiunta per l’intervento in zone di crisi, e che si è svolta nella base militare di Ovda, nel deserto del Neghev, solitamente utilizzata come scalo di charter turistici verso le località del Mar Rosso.
Venticinque i velivoli impegnati, tra cui gli F15 e gli F16 dell’Aeronautica israeliana, oltre a quelli di Grosseto, del 36° Stormo di Gioia del Colle e del 50° di Piacenza, per un totale di 100 missioni di volo e 150 militari impegnati.
Duelli nei cieli, lanci di missili, bombardamenti e inseguimenti che hanno costituito, secondo il Generale di divisione aerea italiano Enzo Vecciarelli, “un’ottima opportunità addestrativa, perché condotta in un paese che vanta eccellenze nel campo della Difesa”.
Che Israele sia in cerca di nuove alleanze nell’area, con lo spettro della guerra contro l’Iran sempre più tangibile, non è cosa nuova.
A fine ottobre era stata la Turchia a negare l’autorizzazione a sorvolare il proprio spazio aereo alle esercitazioni militari israeliane, portando la I.A.F. a chiedere la disponibilità, subito accordata, della base militare di Decimomannu, in Sardegna.
In quell’occasione la regione, la cui area corrisponde a quella di Israele, è stata sorvolata in lungo e in largo dai velivoli militari israeliani nell’operazione di addestramento “Vega 2011”, nella quale per la prima volta sono stati utilizzati gli “Eitam”, aerei radar impiegati nella simulazione di operazioni di intercettazione nemica.
Da parte sua, l’aviazione militare italiana ha messo a disposizione i propri Eurofighter Tornado, gli stessi di cui è dotata anche l’Arabia Saudita.
Il quotidiano israeliano The Jerusalem Post, in quella occasione, aveva commentato che “di fronte alla minaccia iraniana l’aviazione israeliana ha intensificato le proprie esercitazioni all’estero”, sin dall’attacco “Piombo Fuso” su Gaza (2008 – 2009).
Un’alleanza antica, quella con l’Italia, che sin dal secondo dopoguerra ha stretto i legami con un’aviazione militare israeliana tutta da creare.
È il 1948 quando nell’aeroporto romano dell’Urbe viene istituita una base di formazione e addestramento per i piloti che comporranno la nuova aviazione ebraica, come racconta Eric Salerno nel suo “Mossad base Italia”.
E una ricerca di alleanze strategiche nell’area Nato, per Israele, alle cui forze di aviazione ha chiesto a più riprese una collaborazione strategica, sperando di potersi esercitare nei cieli di altri paesi e di ospitare battaglioni nel proprio territorio. Uno scambio andato a buon fine, per ora, con l’Italia e con la Grecia, ospitata nella base di Ovda lo scorso novembre.
Esercitazioni che, per quanto riguarda il nostro paese, fanno solo da sfondo a un altro genere di collaborazione.
Nel corso del 2011 infatti, sono stati diversi gli incontri al vertice tra i massimi rappresentanti delle due aviazioni militari. Gli “Air-to-Air Talks”, che hanno visto a febbraio l’incontro a Roma tra il Sottocapo di stato maggiore israeliano Nimrod Sheffer e il Generale Maurizio Ludovisi, e a giugno la visita ufficiale nella capitale del Comandante delle forze aeree israeliane, Ido Nehusthan.
Colloqui che, come riportato dal portale dell’Aeronautica militare, “hanno riguardato i principali programmi di cooperazione in atto, con particolare riferimento all’uso degli Uav (i velivoli a pilotaggio remoto, ndr)”.
Secondo il quotidiano israeliano Ha’aretz, ci sarebbe da parte israeliana l’interesse all’acquisto di nuovi mezzi prodotti da Alenia Aermacchi, e Finmeccanica avrebbe già firmato accordi quadro per rifornire l’Italia di aerei senza pilota e nuovi radar.
http://www.osservatorioiraq.it/italia-israele-prove-generali-di-guerra-nei-cieli-palestinesi
Bolivia: McDonald’s chiude tutto per disinteresse clienti
Bolivia – Dopo 14 anni nel paese sudamericano, McDonald’s chiude. Nonostante tutte le campagne pubblicitarie, la McDonald’s e’ stata costretta a chiudere anche gli otto ristoranti che erano rimasti aperti nelle tre principali citta’: La Paz, Cochabamba e Santa Cruz de la Sierra.
Bolivia e’ il primo paese latinoamericano che restera’ senza la catena McDonald’s. Il primo paese al mondo in cui l’azienda McDonald’s chiude per avere il bilancio in rosso da oltre un decennio.
L’impatto per i manager “creativi” e il marketing e’ stato cosi’ forte che e’ stato girato un video documentario dal titolo “Perche’ McDonald’s ha fallito in Bolivia“, nel quale i vertici della catena statunitense, cercano di spiegare in qualche modo le ragioni che hanno portato i boliviani a preferire “las empanadas” (pane di farina o mais con ripieno dentro) agli hamburger Made in USA.
Il video documentario include interviste a cuochi, sociologi, nutrizionisti, educatori, storici e altro ancora, dove tutti concordano su un fatto generale: il rifiuto non e’ verso l’hamburger e neanche al suo gusto, il rifiuto e’ nella mente di tutti i boliviani. Tutto dimostra che il “fast food” e’ letteralmente l’opposto della concezione che ha un boliviano nel preparare il mangiare.
In Bolivia, il cibo per essere buono, ha bisogno, oltre al gusto, di essere preparato con molta piu’ attenzione, e con tempi di preparazione molto piu’ lunghi. Questa e’ la qualita’ che un consumatore, in Bolivia, necessita per il mangiare che andra’ a finire nel suo stomaco. Il video documentario si conclude dicendo che la cucina “Fast food” non e’ adatta per queste persone.
http://notiziefresche.info/bolivia-mcdonalds-chiude-tutto-per-disinteresse-clienti_post-144766/
martedì 20 dicembre 2011
NATALE SOLARE E ANNO NUOVO
Vi sono riti e feste, sussistenti ormai quasi solo per consuetudine nel mondo moderno, che si possono paragonare a quei grandi massi che il movimento delle morene di antichi ghiacciai ha trasportato dalla vastità del mondo delle vette giù, fin verso le pianure.
Tali sono, ad esempio, le ricorrenze che come Natale e anno nuovo rivestono oggi prevalentemente il carattere di una festa familiare borghese, mentre esse sono ritrovabili già nella preistoria e in molti popoli con un ben diverso sfondo, compenetrante da un significato cosmico e universale.
Di solito, passa inosservato il fatto che la data del Natale non è convenzionale e dovuta solo ad una particolare tradizione religiosa, ma è determinata da una situazione astronomica precisa: è la data del solstizio d’inverno. E proprio il significato che nelle origini ebbe questo solstizio andò a definire, attraverso un adeguato simbolismo, la festa corrispondente. Si tratta, tuttavia, di un significato che ebbe forte rilievo soprattutto in quei progenitori delle razze indoeuropee, la cui patria originaria si trovava nelle regioni settentrionali e nei quali, in ogni caso, non si era cancellato il ricordo delle ultime fasi del periodo glaciale.
In una natura, minacciata dal gelo eterno l’esperienza del corso della luce del sole dell’anno doveva avere un’ importanza particolare, e proprio il punto del solstizio d’inverno rivestiva un significato drammatico che lo distinguerà da tutti gli altri punti del corso annuale del sole. Infatti, nel solstizio d’inverno, il sole, essendo giunto nel punto più basso dell’ eclittica, la luce sembra spegnersi, abbandonare le terre, scendere nell’abisso, mentre ecco che invece essa di nuovo si riprende, si rialza e risplende quasi come in una rinascita. Un tale punto valse, perciò, nei primordi, come quello della nascita o della rinascita di una divinità solare.
Nel simbolismo primordiale il segno del sole come “Vita”, “Luce delle Terre”, è anche il segno dell’Uomo. E come nel suo corso annuale il sole muore e rinasce, così anche l’Uomo ha il suo “anno”, muore e risorge. Questo stesso significato fu suggerito, nelle origini, dal solstizio d’inverno a conferirgli il carattere di un “mistero”. In esso la forza solare discende nella “Terra”, nelle “Acque”, nel “Monte”, (ciò in cui, nel punto più basso del suo corso, il sole sembra immergersi), per ritrovare nuova vita. Nel suo rialzarsi il suo segno si confonde sia con quello dell’ ”albero” che sorge (l’ “albero della vita”, la cui radice è nell’abisso), sia dell’ “Uomo cosmico con le braccia alzate”, simbolo di resurrezione. Con ciò prende anche inizio un nuovo ciclo, l’ “anno nuovo”, la “Nuova Luce”.
Per questo, la data in quistione sembra aver coinciso anche con quella dell’inizio dell’anno nuovo (del capodanno). Questa è la tesi, fra l’altro, di un ardito studioso dell’alta preistoria nordico-atlantica, H. Wirth. Al segno del solstizio, del natale solare, avrebbero fatto seguito quelli della cosiddetta “serie sacra”, che scandiva i diversi periodi dell’anno.
E’ da notare che anche Roma antica conobbe un “natale solare”: proprio nella stessa data, ripresa dal cristianesimo del 24-25 dicembre essa celebrò il Natalis invicti, o Natalis Solis invicti (natale del Sole invincibile). In ciò si fece valere l’influenza dell’antica tradizione irànica, da tramite avendo fatto il mithracismo, la religione cara ai legionari romani, che, per un certo periodo, si disputò col cristianesimo il dominio spirituale dell’ Occidente. E qui si hanno interessanti implicazioni, estendendosi fino ad una concezione mistica della vittoria e dell’Imperium. Come invincibile vale il sole per il suo ricorrente trionfare sulle tenebre. E tale invincibilità, nell’antico Iran, fu trasferita ad una forza dell’alto, al cosiddetto “hvareno”. Proprio al sole e ad altre entità celesti, questo “hvareno” scenderebbe sui sovrani e sui capi, rendendoli parimenti invincibili e facendo sì che i loro soggetti in essi vedessero uomini che erano più che semplici mortali.
Ed anche questa particolare concezione prese piede nella Roma imperiale, tanto che sulle sue monete spesso ci si riferisce al “sole invincibile”, e che gli attributi della forza mistica di vittoria dinanzi accennata si confusero non di rado con quelli dell’Imperatore.
Tornando al “natale solare” delle origini, si potrebbero rilevare particolari corrispondenze in ciò che ne è sopravvissuto come vestigia, nelle consuetudini della festa moderna. Fra l’altro, una eco offuscata è lo stesso uso popolare di accendere sul tradizionale albero delle luci nella notte di Natale. L’albero, come abbiamo visto, valeva, infatti, come un simbolo della resurrezione della Luce di là dalla minaccia della notte: donde anche le luci da accendere in esso. Anche i doni che il Natale porta ai bambini (spesso appesi, tali doni, all’Albero illuminato) costituiscono una eco remota, un residuo morenico: l’idea primordiale era il dono di luce e di vita che il Sole nuovo, il “figlio”, dà agli uomini. Dono, da intendersi in un senso sia materiale, sia spirituale, il convergere dei due significati essendo una conseguenza dell’accennata situazione dell’alta preistoria, per via della quale il rialzarsi della luce valse come una liberazione dall’incubo di una gelida notte per la terra e per la vita degli uomini. Avendo ricordato tutto ciò, sarà bene rilevare che batterebbe una strada sbagliata chi volesse vedere, qui, una interpretazione degradante, tale da trascurare il significato religioso e spirituale che il Natale da noi conosciuto, riportandolo all’eredità di una religione naturalistica e, per ciò stesso, primitiva e superstiziosa. Si tratta, invece, di un ampliamento degli orizzonti e dell’integrazione di alcuni significati fondamentali in uno sfondo cosmico.
D’altronde, una “religione naturalistica” vera e propria non è mai esistita, se non nella incomprensione e nella fantasia di una certa scuola di storia delle religioni in auge nel secolo scorso ma ormai del tutto discreditata. Oppure è esistita in qualche tribù di selvaggi tra i più primitivi. L’uomo delle origini di una certa levatura non “adorò” mai i fenomeni e le forze della natura semplicemente come tali, egli li adorò solo in quanto, e per quel tanto, che essi valevano per lui come delle “teofanie” e delle “ierofanie”, vale a dire come manifestazioni del sacro, del divino in genere.
Come un noto storico contemporaneo delle religioni ha detto efficacemente, la natura per lui non era mai “naturale”. Essa, nell’insieme dei suoi fenomeni e dei suoi aspetti – sole, astri, anno, luce, cielo, acque, ecc. – rimandava ad “altro”; direttamente, e non per una interpretazione artificiosa, essa presentava per lui, i caratteri di un “simbolo sensibile del soprasensibile”, per usare le parole di Olimpiodoro. Già un Aristotele, aveva accusato coloro che pensavano che le entità del cielo, che figuravano in diversi culti antichi, fossero quali le poteva vedere “un bestiame bovino al pascolo”.
Una volta riconosciuto ciò, è evidente che la conoscenza dell’accennata “preistoria”, dell’arcaicità e della relativa universalità di quel che corrisponde alle feste di fin dell’anno non equivale per nulla a ricondurre il superiore all’inferiore e al profano. Al contrario, semmai, perché, spesso, si è riportati ad una spiritualità della quale era espressione la stessa lingua delle cose; a miti, che pur assumendo come base i fenomeni della natura, si indirizzavano all’interiorità umana. Un mondo di una primordiale grandezza non chiuso in una particolare credenza, che doveva offuscarsi quando quel che vi corrispose assunse un carattere puramente soggettivo e privato, sussistendo soltanto sotto le specie di feste convenute del calendario borghese che valgono soprattutto perché si tratta di giorni in cui si è dispensati dal lavorare e che al massimo offrono occasioni di socievolezza e di divertimento nella “civiltà dei consumi”.
J. Evola
venerdì 16 dicembre 2011
La mU.S.A. del terrore di Marco Managò.
(ASI) “In questo teatro dalla regia occulta (il terrore ndr) ci muoviamo noi cittadini divenuti ormai delle marionette nelle mani di false democrazie, e ad orchestrare l’allarmismo a carattere mondiale ricorre quasi sempre la stessa mano, quella degli Stati uniti e dei grandi gruppi di potere”.
Si vis pace para bellum, sostenevano quei fini oratori che erano gli antichi romani.
La fine del mondo classico ha però cambiato questo assunto ed ha fatto sì che i potenti di turno anziché perdere tempo in lunghi preparativi abbiano iniziato ad usare l’arma del terrore preventivo per tenere sotto scacco gli altri e mantenere le posizioni di potere acquisite.
Ripercorre in modo quanto mai completo ed esaustivo l’evolversi di questo stato di cose il giornalista Marco Managò nel suo ultimo saggio, edito dalla Sankara, dal titolo “La mU.S.A. del terrore – origini, sviluppi, strategie e processi dell’allarmismo reale e indotto”.
Nel suo libro lo scrittore romano analizza questo fenomeno a 360 gradi, dando la giusta importanza anche a tutti gli allarmismi creati ad arte, anche quelli a prima vista secondari, come quello alimentare o quello informatico, senza trascurare il ruolo e l’evoluzione storica di questo fenomeno dai tempi antichi a quelli moderni passando per il terrore giacobino e quello russo.
Il libro si divide infatti in due parti distinte ma ovviamente legate tra loro: nella prima, introduttiva, si illustra la storia del terrore, con la connessione tra religione e superstizione; nella seconda invece si parte dal caso italiano e si allarga sempre più l’orizzonte; in questo modo l’autore porta avanti la propria tesi volta a dimostrare come gli Usa siano diventati i grandi protagonisti dello sfruttamento del terrore per il proprio tornaconto.
Oggi però il terrore, rispetto al passato, è più subdolo e pericoloso visto che abitualmente chi detiene il potere, mediatico o politico che sia, sovente lo utilizza per diffondere paura nella popolazione e riuscire così a mantenere le proprie posizioni. Classico esempio il terrore del nucleare, abilmente agitato per i propri scopi dalle grandi potenze.
Gli Usa, unico paese al mondo ad aver utilizzato la bomba atomica su una popolazione civile seminando non poco terrore, ed Israele, uno stato che possiede testate nucleari, minacciano quasi quotidianamente l’Iran colpevole di voler portare avanti lo sviluppo di energia nucleare a scopi civili, in questo modo si inculca nella mente delle popolazioni quasi l’esistenza di un nucleare buono, quelle delle “democrazie” e quello cattivo degli “stati canaglia”.
Secoli di terrore abilmente inculcato nelle menti umani hanno ormai manipolato e condizionato il nostro modo di pensare e sfuggire alle tante paure che ci circondano diventa sempre più complicato, ma è indubbio che il sapere, anche e soprattutto attraverso libri come questo, possono fornire una valida difesa alla politica del terrore imposto.
Marco Managò “La mU.S.A del terrore – Origini, sviluppi, strategie e processi dell’allarmismo reale e indotto” Sankara edizioni 130 pagine, €8,00
di Fabrizio Di Ernesto,
http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6175%3Ala-musa-del-terrore-di-marco-manago&catid=3%3Apolitica-estera&Itemid=35
giovedì 15 dicembre 2011
Eulex si vendica sui serbi del nord del Kosovo.
Eulex si vendica e non fa consegnare aiuti umanitari per i serbi del Kosovo. Martedì manifestanti serbi non avevano permesso ad un convoglio della missione civile dell’Ue di avvicinarsi al posto di frontiera di Jarinje mentre dallo stesso valico era stato permesso l’accesso nel Kosovo settentrionale di un convoglio di mezzi russi che trasportava aiuti umanitari ed era guidato dall’ambasciatore russo in Serbia. A bordo dei mezzi dell’Eulex, come denunciato dal sindaco di Kosovska Mitrovica, c’erano poliziotti e doganieri albanesi e giornalisti dei media di Pristina. Un atto apertamente provocatorio da parte della missione europea, apertamente schierata con gli albanesi del Kosovo. Così ieri è arrivata la ritorsione: dopo l’ingresso di due mezzi, il resto del convoglio di 24 camion che trasporta aiuti umanitari provenienti dalla Russia per gli abitanti serbi del nord del Kosovo è stato fermato, secondo quanto affermato dall’ambasciatore russo in Serbia, Aleksandar Konuzin, dai funzionari Eulex. L’ambasciatore Konuzin, che era in testa alla colonna delle autovetture, ha comunicato che ai camion è stato impedito di proseguire senza una scorta di uomini di Eulex. L’alternativa era che i mezzi pesanti tornassero indietro e passassero attraverso il valico di Merdare, guarda caso proprio dove il controllo viene effettuato dalle autorità di Pristina, che non sono considerato legittime né dalla Russia né dalla Serbia. L’ambasciatore russo ha quindi rifiutato entrambe le richieste dell’Eulex, visto che a suo parere non era necessario nessun tipo di accompagnamento né sarebbe stato opportuno passare per il valico doganale di Merdare. Dunque due camion sono riusciti ad entrare in Kosovo, uno è rimasto bloccato al valico di Jarinje e i restanti 21 automezzi sono dovuti restare fuori dal Kosovo. “Con questo ricatto Eulex ha travalicato i limiti del proprio mandato”, ha affermato l’ambasciatore Konuzin. Eulex, dal canto suo, tramite la portavoce Irina Gudeljevic, ha dichiarato di avere inizialmente ha ricevuto da parte russa la richiesta di scortare il convoglio, poi successivamente ritirata. “Per questo si sta analizzando la nuova situazione”, ha detto la Gudeljevic. Il presidente serbo, Boris Tadic, nel ringraziare i russi per gli aiuti umanitari ha dichiarato che “nessun convoglio che sta trasportando aiuti umanitari per i serbi del Kosovo dovrebbe essere fermato, perché rappresentano la comunità che attualmente in Europa si trova in maggiori difficoltà”. Un problema che interessa ben poco sia Eulex che la Kfor (la forza multinazionale a guida Nato in Kosovo) nei fatti i gendarmi dello staterello illegittimo kosovaro-albanese. Pristina, tra l’altro, sa bene come trarre il massimo profitto dalla presenza internazionale nella zona mettendo i contingenti internazionali in competizione. Ieri il quotidiano Koha Ditore ha pubblicato presunte rivelazioni di fonti anonime della Kfor nelle quali la forza Nato accusa Eulex di incapacità per non avere ancora arrestato serbi responsabili degli attacchi ai propri soldati schierati nel Nord del Kosovo iniziati la scorsa estate. In un clima così teso a Belgrado c’è chi, come Tadic, continua a premere perché i negoziati con Pristina proseguano, temendo un definitivo allontanamento dell’ingresso nell’Ue dopo il rinvio della scorsa settimana. Non basta aver negoziato il controllo congiunto dei posti di frontiera con la Serbia nel nord del Kosovo e aver adempiuto all’ordine internazionale di consegnare i “criminali di guerra” al Tpi. L’ingresso nell’Unione europea, che visti i recenti accadimenti in materia economica sarebbe più saggio schivare come la peste, è diventato il paravento degli amministratori serbi per giustificare l’abbandono della sovranità nazionale e di una parte della popolazione serba. I negoziati sui quali vigila l’Ue, comunque, riprenderanno solo dopo la pausa natalizia. Al di là della data nella quale riprenderanno i colloqui , qualunque risultato che riconosca come legittimo il Kosovo albanese sarebbe lesivo dei diritti della Serbia. Chiaramente è un particolare che poco interessa a chi ha favorito e auspicato la predazione della terra serba a favore della comunità albanese. Ragione per la quale, in sede di co0lloqui, Belgrado pretende che il Kosovo, qualora possa agire nei consessi regionali, lo faccia linea con la risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che pone la regione sotto amministrazione controllata delle Nazioni Unite. “Il Kosovo rifiuta una simile soluzione, perché un paese indipendente” ha invece affermato ieri il capo negoziatore di Pristina nel dialogo con Belgrado, la vicepremier kosovaro-albanese Edita Tahiri. Dal canto suo, Borislav Stefanovic, il negoziatore serbo, ha replicato che “è necessario che la comunità internazionale intervenga molto di più sull’atteggiamento assunto da Pristina, che non è per niente costruttivo: massimalistico e si preoccupa solo di fare propaganda per uso interno”.
Di Alessia Lai, www.rinascita.eu
Lorenzo Contucci: “non si può costringere il tifoso a sottoscrivere una carta di credito”
In pratica, con la decisione del Consiglio di Stato, cosa è accaduto?
E’ accaduto quel che dicevamo da sempre: non si può costringere il tifoso, giocando sulle sue passioni, a sottoscrivere una carta di credito. E’ una pratica commerciale scorretta e Codacons con Federsupporter hanno fatto bene ad insistere sul punto. Il Consiglio di Stato ha ritenuto che il tifoso, pur di seguire la sua squadra, potrebbe accettare una carta che – se libero di scegliere – non sottoscriverebbe.
Il Tar deve riunirsi di nuovo per discutere nel merito il ricorso presentato da Codacons e Federsupporter. Cosa potrebbe succedere se ci fosse realmente l’illegittimità denunciata dai due enti?
Le società dovrebbero consentire di fare una tessera del tifoso che non sia necessariamente carta di credito. Ciò svuoterebbe di contenuto la vera ragione per cui la tessera è stata introdotta: un modo di far soldi speculando sulla passione del tifoso.
I tifosi potrebbero davvero tornare ad affollare i settori ospiti degli stadi?
Lo auspico. Gli stadi italiani sono una tristezza e i tifosi in trasferta non vanno più. Perché questo avvenga è necessaria la modifica dell’art. 9.
Anche nel suo sito, invita a riflettere non tanto sulla tessera del tifoso, ma sull’articolo 9 che viene applicato a prescindere dalla tessera del tifoso, sui singoli biglietti. Cosa significa?
Significa che già quando acquisto un singolo biglietto, la Questura controlla se ho il diritto di accedere in uno stadio. E ciò rende la tessera inutile. Ciò che ora chiedono i tifosi è di rivedere l’art. 9 della legeg Amato, che attualmente vieta a vita la possibilità per una persona che ha scontato la sua condanna per reati da stadio, anche minimali, di avere un biglietto per qualsiasi manifestazione sportiva, anche di hockey su prato, per tutta la vita.
Intervista di Fabio Polese,
http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6158:lorenzo-contucci-non-si-puo-costringere-il-tifoso-a-sottoscrivere-una-carta-di-credito&catid=16:italia&Itemid=39
lunedì 12 dicembre 2011
Catastrofe in Occidente? Impariamo dagli indigeni delle Isole Andemane
Questa settimana voglio raccontare degli indigeni delle Isole Andamane. Che c’importa di costoro, dirà il lettore, nel momento in cui l’Occidente attraversa una crisi che potrebbe farlo crollare da un momento all’altro? Ci può interessare come utile confronto con una comunità che ha preso una strada opposta alla nostra.
Le Andamane sono divise in due parti. Una turisticizzata, «civilizzata», con tutto ciò che ne consegue. In altre, poche, isole vivono indigeni che non hanno mai voluto integrarsi, scientemente, nel modello egemone. Appartengono alla categoria, ormai in via di estinzione, di quei popoli che noi chiamiamo presuntuosamente «primitivi» e i tedeschi, più correttamente "naturvolker" (popoli della Natura). Questi andamanensi non sono affatto scorbutici, semplicemente non vogliono che qualche rompiscatole arrivi con la pretesa di cambiare i loro equilibri millenari. I pochi che sono riusciti ad avvicinarli li descrivono «sereni, allegri, socievoli, miti» e, poiché le loro donne hanno natiche belle e protuberanti, con una certa predilezione per gli scherzi osceni, che a me è sempre sembrato un segno di buona salute.
Durante lo tsunami del 2004 le Isole Andamane erano, dopo Sumatra, le più vicine all’epicentro del maremoto. In quelle «civilizzate» c’è stata la consueta strage, le altre non hanno avuto né un morto né un ferito. Quando un elicottero dell’esercito indiano (formalmente dipendono da New Dehli) sorvolò le loro isole per vedere cos’era successo trovò gli indigeni seduti in cerchio sulla spiaggia che suonavano e cantavano. Per buona misura l’elicottero fu preso a frecciate perché si togliesse di torno. Il fatto è che gli andamanensi conoscono il mare, lo sanno guardare ancora con occhi umani, ascoltare con orecchie umane, sentire con cuore umano e non hanno bisogno di sofisticate apparecchiature per capirlo e per capire la natura. Hanno conservato quegli istinti che noi, completamente in balia della tecnologia, abbiamo perduto. Hanno compreso che qualcosa non andava quattro o cinque ore prima che il mare, che appariva tranquillissimo, si ritirasse. Si era fatto un improvviso, impressionante, silenzio. Gli uccelli avevano smesso di cinguettare, le antilopi avevano drizzato le orecchie e dopo un attimo tutti gli animali correvano verso le colline. Probabilmente quel silenzio si era creato anche sulle altre coste colpite dallo tsunami ma c’era troppo fracasso perché chi vi si trovava in quel momento potesse sentirlo. E anche quando il mare cominciò a ritirarsi nessuno tra i bagnanti, completamente instupiditi, e non solo gli occidentali ma nemmeno gli indigeni, a tal punto li abbiamo ibridati, capì che se il mare si ritrae, e non per un fenomeno conosciuto, c’è da aspettarsi una formidabile onda di ritorno. Rimasero tutti inebetiti a guardare i granchi e gli altri animaletti che l’acqua che rifluiva aveva scoperto.
Gli andamanensi hanno anche un’altra caratteristica singolare. Secondo Mircea Eliade (rumeno), il più grande studioso delle religioni, sono l’unico popolo al mondo che non ha né un dio né un culto. Per la verità in tempi remotissimi un dio ce l’avevano, si chiamava Peluga. Ma si accorsero ben presto che non si occupava affatto di loro e finirono per dimenticarselo. Ciò non gli ha impedito di vivere sereni per millenni come tutt’ora vivono mentre il resto del mondo trema (a loro dello spread, del futsi mib, del downgrading non può fregar di meno). E quando il mondo dell’industria e del denaro crollerà, implodendo su se stesso, saranno probabilmente fra i pochissimi a salvarsi. Anche questo dovrebbe indurci a qualche riflessione.
Di Massimo Fini,
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=41482
Un’Unione è Nata: America Latina in Rivoluzione.
La Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (CELAC)
Eva Golinger Global Research, 8 dicembre 2011 – Chavezcode.com
Mentre gran parte del mondo è in crisi e le proteste erompono in tutta Europa e negli Stati Uniti, le nazioni dell’America Latina e dei Caraibi costruiscono l’accordo consenso, promuovono la giustizia sociale e una crescente positiva cooperazione nella regione. Trasformazioni sociali, politiche ed economiche hanno avuto luogo attraverso i processi democratici in paesi come Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Uruguay, Argentina e Brasile in tutto il decennio, portando ad una massiccia riduzione della povertà e disparità di reddito nella regione, e a un notevole aumento nei servizi sociali, qualità della vita e partecipazione diretta nel processo politico.
Una delle principali iniziative dei governi progressisti latino-americani di questo secolo, è stata la creazione di nuove organizzazioni regionali che promuovono l’integrazione, la cooperazione e la solidarietà tra le nazioni vicine. Cuba e Venezuela ha iniziato questo processo nel 2004 con la fondazione dell’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (ALBA), che ora include Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Dominica, St. Vincent e Grenadine e Antigua e Barbuda. ALBA è stata inizialmente lanciata in risposta al fallito tentativo del governo statunitense di imporre il suo accordo di libero scambio delle Americhe (ALCA) in tutta la regione. Oggi ALBA è una prospera organizzazione multilaterale in cui i paesi membri condividono simili visioni politiche per i loro paesi e per la regione, e comprende numerosi accordi di cooperazione negli ambiti economico, sociale e culturale. La base fondamentale del commercio tra le nazioni ALBA è la solidarietà e il mutuo beneficio. Non c’è competizione, sfruttamento o tentativo di dominare tra gli stati ALBA. ALBA conta anche su una propria moneta, il Sucre, che consente il commercio tra stati membri, senza la dipendenza dal dollaro americano.
Nel 2008, l’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR) è stata formalmente istituita come un organismo regionale che rappresenta gli stati del Sud America. Mentre ALBA è molto più consolidata come voce politica unificata, UNASUR rappresenta una diversità di posizioni politiche, modelli economici e visioni per la regione. Ma i membri UNASUR condividono l’obiettivo comune di lavorare verso l’unità regionale e per garantire la risoluzione dei conflitti attraverso mezzi pacifici e diplomatici. UNASUR ha già giocato un ruolo chiave nella pacifica risoluzione delle controversie in Bolivia, in particolare durante un tentato colpo di stato contro il governo di Evo Morales nel 2008, e ha anche moderato con successo un grave conflitto tra Colombia e Venezuela, conducendo al ristabilimento delle relazioni nel 2010.
Duecento anni fa, eroe dell’indipendenza sudamericana Simon Bolivar, nativo del Venezuela, sognava di costruire l’unità regionale e la creazione di una “Patria Grande” in America Latina. Dopo aver ottenuto l’indipendenza per il Venezuela, Bolivia, Ecuador e Colombia, e la lottato contro i colonialisti in diverse nazioni caraibiche, Bolivar ha cercato di trasformare questo sogno dell’unità latino-americani in realtà. I suoi sforzi furono sabotati da potenti interessi contrari alla creazione di un solido blocco regionale, e alla fine, con l’aiuto degli Stati Uniti, Bolivar è stato estromesso dal suo governo in Venezuela e morì isolato in Colombia diversi anni dopo. Nel frattempo, il governo statunitense aveva proceduto ad attuare la sua Dottrina Monroe, un primo decreto dichiarato dal presidente James Monroe nel 1823 per assicurare il dominio degli Stati Uniti e il controllo delle neo-liberatesi nazioni dell’America Latina e dei Caraibi.
Quasi duecento anni di invasioni, interventi, aggressioni, colpi di Stato e di ostilità condotti dal governo degli Stati Uniti contro le nazioni dell’America Latina all’ombra dei secoli 19.mo e 20.mo. Entro la fine del 20.mo secolo, Washington aveva imposto con successo i governi ad ogni nazione dell’America Latina e dei Caraibi che erano subordinati alla sua agenda, con l’eccezione di Cuba. La Dottrina Monroe era stato raggiunta, e gli Stati Uniti si sentivano fiducioso del loro controllo sul loro “cortile”.
La svolta inaspettata all’inizio del 21° secolo in Venezuela, in passato uno dei partner più stabili e servili di Washington, fu uno shock per gli Stati Uniti. Hugo Chavez è stato eletto presidente e una rivoluzione era cominciata. Un tentativo di colpo di stato nel 2002 non è riuscito a sovvertire il progresso della Rivoluzione Bolivariana e la diffusione della febbre rivoluzionaria in tutta la regione. Presto Bolivia e poi Nicaragua ed Ecuador seguirono. Argentina, Brasile e Uruguay elessero dei presidenti socialisti, due dei quali ex-guerriglieri. I mutamenti maggiori iniziarono a verificarsi in tutta la regione, mentre i popoli di questo vasto continente vario e ricco, assunsero il potere e fecero sentire la loro voce.
Le trasformazioni sociali in Venezuela, che ha dato voce al potere della gente, divennero esemplari per gli altri nella regione, mentre il presidente Chavez sfidava l’imperialismo statunitense. Un forte sentimento di sovranità e d’indipendenza latinoamericana cresceva, raggiungendo anche quelli con i governi allineati agli interessi degli USA e al controllo delle multinazionali.
Il 2-3 dicembre 2011, la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (CELAC) è nata e la travolgente forza di un continente di quasi 600 milioni di uomini ha realizzato un sogno di unità vecchio di 200 anni. Le 33 nazioni che fanno parte della CELAC sono tutte d’accordo sulla necessità indiscutibile di costruire una organizzazione regionale che rappresenti i loro interessi, e che escluda la prepotente presenza di Stati Uniti e Canada. Se alla CELAC ci vorrà del tempo per consolidare l’impegno eccezionale evidenziato dai 33 stati presenti al suo lancio a Caracas, in Venezuela, non può essere sottovalutata.
La CELAC dovrà superare i tentativi di sabotaggio e neutralizzazione della sua espansione e della sua resistenza, e le minacce contro di essa e gli intenti di dividere i paesi membri saranno numerosi e frequenti. Ma la resistenza dei popoli dell’America Latina e dei Caraibi, che hanno ripreso questo cammino di unità e indipendenza dopo quasi duecento anni di aggressione imperialista, dimostra la forza potente che ha portato questa regione a diventare una fonte di ispirazione per coloro che cercano la giustizia sociale e la vera libertà in tutto il mondo.
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
domenica 11 dicembre 2011
Tav, i manifestanti: “Una pioggia di lacrimogeni Hanno colpito gente inerme”
Bisogna salire il sentiero alle undici del mattino, fra i pioppi, le vigne e i castagni, per capire quale sarà la musica della giornata. Nessuno slogan, neanche un coro. Solo passi in fila indiana sulle foglie secche e un silenzio pesante, quasi funereo. Mentre i caschi da motociclista ciondolano appesi alle cinture.
Stanno andando ad attaccare le reti del cantiere. Nonostante il divieto di avvicinarsi firmato dal prefetto di Torino. Nei giorni scorsi hanno chiamato questa iniziativa in tanti modi. Girotondo. Assedio. Logoramento delle forze di occupazione. Adesso sono in mille, tirano fuori dagli zaini panini, cioccolata e pasta fredda. Si accampano con le facce al sole. Un’ora, non di più. Poi Lele Rizzo del centro sociale Askatasuna, uno dei portavoce del comitato No Tav, spiega al megafono il programma della giornata: «Dobbiamo fare pressione, avere coraggio, essere coordinati. Avviciniamoci tutti alle reti. A un segnale preciso, proveremo a fare qualcosa di più…». Applauso.
I pochi sorrisi si spengono in faccia. È il momento della vestizione. Maschere antigas, occhialini da nuoto, cappucci, foulard, sciarpe alte sulla bocca e limoni in tasca. Di colpo, telecamere e macchine fotografiche non sono più gradite. È chiaro a tutti, in quel momento, che si sta per passare il confine della legalità.
Adesso si sparpagliano lungo il perimetro del cantiere. Un gruppo di cento – molti ragazzi del Veneto e di Milano – si inerpica per un sentiero ripidissimo. Vogliono raggiungere le recinzioni sul versante opposto, nella zona dove sono posteggiati i mezzi delle forze dell’ordine. Ma appena spuntano in cima al costone, piovono i primi lacrimogeni. Grappoli dal cielo. La nebbia urticante nel chiaroscuro del bosco, fiammate fra le sterpaglie. I ragazzi con i caschi raccolgono le cartucce, provano a spegnerle, sopra c’è scritto: «Calibro 40 a frammentazione, lacrimogeno al CS». Urlano: «Ci stanno gasando!». Chi è senza maschera, sputa, piange e scappa. Una signora bionda si accascia contro il tronco di un albero, in preda a un attacco di tachicardia. Due squadre di poliziotti si avvicinano a passo di marcia. Mentre il fumo biancastro si diffonde ovunque.
Stefano Rogliatti è un cameraman della Rai, ha appena filmato un lacrimogeno sparato ad altezza uomo. Ha colpito un ragazzo che voleva spegnere un principio di incendio, lo portano via a braccia. Ora Rogliatti vuole documentare la distanza che ancora rimane prima dalla recinzione del cantiere. Incrocia dieci poliziotti su un sentiero alto. Urla tre volte: «Sono della Rai!». Ma viene colpito da una pietra al polso che arriva dalla parte degli agenti. A quel punto volano pietre in tutte le direzioni e i manifestanti cercano di centrare gli agenti. Alcuni vigili del fuoco portano gli estintori per spegnere i focolai. Si sentono urla e insulti. La radio della polizia gracchia un nuovo ordine nel bosco: «Basta con i lacrimogeni».
Giù, vicino al cantiere, la situazione non è migliore. Un gruppo di ragazzi incappucciati prova a tagliare le reti. Qualcuno lancia una bomba carta. La polizia risponde con gli idranti. Poi ancora lacrimogeni. Cadono dal viadotto dell’autostrada, filano dallo schieramento a guardia della recinzione. Ed è in quel parapiglia di urla, maledizioni e paura, che incrociamo Yuri, 16 anni, di Venaus. Lo sorreggono due amiche. Ha l’occhio sinistro tumefatto, vomita e sta per svenire. Un ragazzo, vicino a lui, grida: «Gli hanno sparato un lacrimogeno in faccia, aiutateci, abbiamo bisogno di un’autoambulanza». Arriva un altro ferito. Si chiama Ruggero Martorana, 19 anni, scappando si è spaccato la caviglia. Urla, le ossa del piede formano una specie di zeta. Lo stendono, lo soccorrono. Mentre contano altri quattro feriti più lievi.
Yuri sta male, ha le vertigini. Non riesce a parlare. Le sue amiche piangono di rabbia. Chiedono di passare. Lo portano verso l’autostrada. Suo fratello gli sta sempre accanto. Dopo un’ora, finalmente, lo caricano su un’autoambulanza della polizia.
Di, NICCOLÒ ZANCAN
Inviato a Chiomonte (TO), La Stampa
Notizie da Gaza.
Gaza: padre e figlio, vittime del raid israeliano
(ASI) Si sono svolti ieri i funerali di Ramadan Bahjat Zalan, il bambino dodicenne palestinese ucciso nel raid israeliano condotto a Gaza. Una folla commossa e, tanti coetanei, hanno preso parte al funerale. Da quanto riferisce l’agenzia giornalistica giordana Petra, il bambino sarebbe morto in seguito alle gravissime ferite riportate dopo l’incursione aerea israeliana. Nel raid è rimasto ucciso anche il padre e altre dodici persone sono state ferite. Un altro attacco, nella mattinata di ieri, è stato condotto dall’aeronautica militare israeliana nel sud della Striscia di Gaza.
http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6103:gaza-padre-e-figlio-vittime-del-raid-israeliano&catid=4:politica-nazionale&Itemid=34
Apache israeliani bombardano la Striscia di Gaza: feriti un padre e sua figlia
Gaza - InfoPal. Questa notte, l'aviazione israeliana ha nuovamente bombardato la Striscia, colpendo il quartiere di az-Zaytun, nel sud-est della città di Gaza: un padre, Imad Aqil, e una figlia sono rimasti feriti.
Il nostro corrispondente ha raccontato che oggi all'alba, Apache israeliani hanno sganciato diversi missili contro l'abitazione di Imad 'Aqil, distruggendola completamente e danneggiando quelle vicine.
Il portavoce del servizio di emergenze del ministero della Sanità di Gaza, Adham Abu Silmiya, ha confermato al nostro corrispondente il trasferimento in ospedale dell'uomo e della figlia. La bambina è ferita gravemente.
In un comunicato stampa, l'esercito israeliano ha giustificato l'attacco aereo sostenendo di aver preso di mira "un sito per la produzione di armamenti" e "in risposta al lancio di missili dalla Striscia di Gaza".
La Striscia di Gaza è oggetto di bombardamenti israeliani che durano da giorni e che hanno provocato 5 morti e molti feriti.
http://www.infopal.it/leggi.php?id=20087
sabato 10 dicembre 2011
DETERMINAZIONE.
Dicembre 2011, di Franco Nerozzi, Comunità Solidarista Popoli
“Non l’impegno di un giorno o di un anno, ma la determinazione di tutta una vita”. La frase di Carlo Terracciano è riportata nelle insegne delle cliniche di “Popoli” che sorgono (e risorgono dopo essere state distrutte dall’esercito birmano) nello Stato Karen. Una frase che noi della Comunità dovremmo sempre cercare di portare nel cuore, promemoria granitico di una promessa fatta dieci anni fa.
L’esempio di chi ha saputo fare della sua vita una barricata contro la decadenza, il conformismo, l’omologazione, il mondialismo, dovrebbe accompagnarci quotidianamente, aiutandoci a superare i piccoli e grandi ostacoli che si presentano sulla via. Non sempre accade. E’ umano. A volte veniamo distratti ad opera di quelli che ci circondano, ingannati dai numerosi trucchi che la vita, per sua natura, mette in campo. Quasi a testare la nostra forza, a saggiare la sincerità delle nostre intenzioni.
Per chi come me ha il privilegio di visitare con una buona frequenza il teatro dell’attività di “Popoli”, le cose sono più facili. Quando si conclude una missione come quella appena terminata (45 giorni lungo il confine birmano-thailandese) ci si porta a casa la solida convinzione che ciò che è stato realizzato finora abbia una dignità e una organicità che fanno sentire più vicine le parole di Carlo. Nei dieci anni appena trascorsi la determinazione ha avuto la meglio sul mare di incertezza, dubbio, timore, pigrizia e stanchezza che la nostra imbarcazione ha dovuto attraversare, e possiamo tranquillamente affermare che nei territori da cui ora rientriamo la promessa è stata mantenuta. L’azione della Comunità Solidarista Popoli ha avuto carattere di continuità e stabilità, al punto da non essere nemmeno più considerata “un intervento” nel campo umanitario, bensì “un fattore” (un piccolo fattore beninteso) nell’ambito del processo di ricostruzione di una società tradizionale che cerca di risorgere dopo più di sessanta anni di una guerra non ancora conclusa.
Non solo le cliniche che forniscono assistenza sanitaria, non solo le scuole che accolgono alunni dai 3 a i 12 anni, non solo i villaggi ricostruiti per accogliere i profughi interni e per ridare una prospettiva di attività agricola a quelli che rientrano dai campi tailandesi, non solo la fornitura di generi di prima necessità in occasione di emergenze e gli interventi di primo soccorso durante le operazioni militari.
In questi dieci anni la Comunità ha affiancato il Popolo Karen cercando di dare un contributo anche nel campo “diplomatico”, rappresentando, su incarico ufficiale, le istanze della Karen National Union presso il Governo Italiano e presso istituzioni nazionali ed europee, e ricoprendo a volte un ruolo di “consigliere speciale” in occasione di momenti particolarmente critici. Volontari di “Popoli” hanno seguito le truppe dell’Esercito di Liberazione Nazionale sulla linea del fronte, per documentare i diversi aspetti del conflitto e per mostrare concretamente ai Karen che la nostra solidarietà vuol dire anche condivisione fisica di situazioni difficili e sostegno morale e politico ad una lotta che ha come obiettivo finale la sconfitta dell’occupante straniero e la fine dello sfruttamento del territorio da parte delle fameliche compagnie multinazionali, dei trafficanti di stupefacenti, dei businessmen legati al governo birmano.
Continua la lettura su:
http://www.comunitapopoli.org/uploads/determinazione.pdf
venerdì 9 dicembre 2011
La Clinton in Birmania stringe la mano al capo degli stupratori.
A pranzo con i tiranni, a cena con i perseguitati. La visita di Hillary Clinton in Birmania, la prima di un segretario di stato americano dal 1955 è un ossimoro della geopolitica, un salto tra gli opposti, un viaggio dall’Olimpo della tirannia, al desco della democrazia.
Difficile definire diversamente una missione aperta la mattina dalle strette di mano con Thein Sein, il generale fattosi presidente, e conclusa ieri sera dalla semplice cena a due con Aung San Suu Kyi, la paladina della democrazia prigioniera del regime per 15 degli ultimi 21 anni. Un viaggio dalla notte al giorno, un viaggio di cui si stentano a comprendere motivazioni e obbiettivi.
A guidare Hillary nei misteri di Naypidaw, la capitale fortezza creata dal nulla nel cuore della giungla sei anni fa, non è certo l’entusiasmo per le riforme. Nelle segrete del regime, dopo la strombazzata liberazione di 300 attivisti, languono più di mille prigionieri. Le elezioni dell’agosto 2010 sono state una ben organizzata finzione inscenata per consentire ai capi della giunta militare una discreta ritirata dietro le quinte e preparar l’avvento di una classe di potere meno compromessa. Ai quattro angoli del paese i militari continuano indisturbate le operazioni di pulizia etnica ai danni di Kachin, Karen, Shan e tutte le altre miriadi di minoranze che da sessant’anni reclamano qualche autonomia.
Agli orrori consueti di una guerra condotta bruciando villaggi e uccidendone o deportandone le popolazioni s’è aggiunto da qualche mese, come denuncia Human Right Watch, l’inedito orrore degli stupri di massa. Le violenze sistematiche contro le donne, iniziate nei territori dell’etnia Kachin, si sono progressivamente estese anche alle zone degli Shan e dei Karen facendo temere l’utilizzo su larga scala di quella che anche Aung San Suu Kyi definisce una «nuova arma da guerra».
Non a caso Hillary Clinton dopo aver stretto la mano al presidente Thein Sein e alla sua corte di ministri e generali ricorda che «anche un solo prigioniero politico è troppo».
Non a caso sottolinea che la Birmania è solo all’inizio di un lungo cammino. «Le misure attuate sono sicuramente senza precedenti e benvenute, ma sono solo il principio. Al momento non pensiamo certo di togliere le sanzioni perché permangono le preoccupazioni nei confronti di un processo politico che deve ancora cambiare».
Dunque che bisogno c’era di andare in Birmania? L’America non poteva incominciare con una visita di più basso profilo? Certo la cena di Hillary, immagine al femminile di Washington, con Aung San Suu Kyi, Nobel per la pace e paladina della democrazia è altamente evocativa, ma basta a giustificare l’apertura? Forse no e allora a pensar male si rischia d’azzeccarci.
Ma anche sul fronte del cinismo politico le congetture si rivelano un salto fra due sponde opposte con un solo comune denominatore chiamato Cina.
Per alcuni il drammatico riavvicinamento è un contentino a Pechino. Secondo questa interpretazione il viaggio di Hillary non legittima solo i nuovi capi birmani, ma anche la grande madrina cinese accusata da due decenni di concedere protezione politica ai generali di Rangoon per sfruttare in regime di assoluto monopolio le immense ricchezze del paese.
Un monopolio esercitato saccheggiando gas, legnami pregiati e pietre preziose e ripagandoli con manodopera e manufatti di scarso valore. In cambio di questa indiretta legittimazione americana la Cina avrebbe garantito a Washington un via libera in ambito Onu all’intervento in Siria o a nuove durissime sanzioni all’Iran.
Secondo altre interpretazioni il vero motivo della visita è, invece, esattamente l’opposto. Aprendo le braccia alla Birmania e ai suoi generali gli Stati Uniti cercano nuovi spazi in Asia nel disperato tentativo di contenere l’inarrestabile e debordante potenza del grande nemico cinese.
Di Gian Micalessin
http://www.ilgiornale.it/esteri/la_clinton_birmania_stringe_mano_capo_stupratori/02-12-2011/articolo-id=560043-page=0-comments=1
Birmania, una terra dove il tempo si è fermato. E dove i Karen lottano ancora.
Giornalista freelance collaboratore de Il Sito di Perugia e di Agenzia Stampa Italia, Fabio Polese è da anni impegnato nel sociale insieme alla Comunità Solidarista Popoli. In questa duplice veste – di giornalista e di volontario – si è più volte recato in Birmania, l’attuale Myanmar, per sostenere il popolo Karen. Il suo ultimo viaggio nel Sud Est asiatico è ancora in corso: Fabio sta svolgendo la sua attività umanitaria corredandola con un diario e con un reportage fotografico (anche la foto qui proposta è di questi giorni, le altre potete richiederle contattando Polese all’indirizzo info@fabiopolese.it). Malgrado la distanza e le non facili comunicazioni, siamo riusciti a rivolgergli qualche domanda sul suo difficoltoso viaggio attraverso un paese affascinante e antimoderno. Che, a quanto racconta Fabio, ha molto da insegnarci.
Perché questa passione per la Birmania? Cosa ti spinge ad affrontare un viaggio lungo, dispendioso e non privo di pericoli?
Ho iniziato ad interessarmi della Birmania perché sono sempre stato affascinato dalle popolazioni che sono in lotta per il mantenimento della propria cultura e identità. In particolar modo sono rimasto molto colpito dal popolo Karen che combatte incessantemente dal 1949, quando il Trattato di Panglong, che avrebbe dovuto garantire l’autonomia delle varie etnie, non fu rispettato. Sono stato subito affascinato dalla loro perseveranza nel rispetto dei principi fondamentali come la tradizione, la terra, gli antenati e la voglia di libertà. Ho deciso così di prendere un aereo e partire per conoscere di persona quello che fino a prima avevo solo potuto leggere ed immaginare. Poi tutto il resto è venuto da sé. Quando si ha la fortuna di conoscere i bambini dei villaggi o i volontari dell’Esercito di Liberazione Karen, le altre cose passano in secondo piano. Dieci giorni dentro Kaw Thoo Lei(la terra senza peccato), riescono a darti emozioni che difficilmente si possono spiegare ma che sicuramente ripagano il tutto il resto.
Qual è la situazione attuale della Birmania? Quanto è diversa la realtà Birmana dall’immagine che se ne ha in Occidente?
Molto probabilmente, se pensiamo alla Birmania, la prima cosa che ci viene in mente è il Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. Oppure, per gli amanti dei viaggi, può venire in mente quello che le agenzie turistiche nostrane mostrano nei propri depliant: l’immagine magica di un paese congelato nel tempo con ancestrali culture non contaminate dal mondo moderno, monaci buddisti e mille pagode. Purtroppo, la Birmania, non è solo questo. Il governo di Rangoon è retto da una giunta militare secondo quella che loro chiamano “la via birmana al socialismo” ma, oltre al sostegno che ottengono dalla Cina, basano buona parte del bilancio statale sugli accordi milionari ottenuti da multinazionali occidentali. Sono forti i rapporti anche con la Russia, la Corea e la Thailandia. Soprattutto nel settore energetico. La Repubblica Popolare Cinese – tra falce e capitale – è interessata ai ricchi giacimenti di gas, ai porti sull’Oceano Indiano, agli oleodotti verso lo Yunnan, ma anche a un mercato strategico nei mari del sud-est asiatico per le proprie merci. Il tutto è reso ancora più “attraente” dal fatto che la Birmania si trova nel “triangolo d’oro” ed è tra le principali produttrici di stupefacenti del mondo. Nelle raffinerie e nei laboratori che stanno nelle zone controllate dai militari della giunta, vengono prodotte ogni anno tonnellate di anfetamina e di eroina. In questo contesto geostrategico ed economico, molte delle diverse etnie che compongono il mosaico birmano sono costantemente chiamate ad imbracciare le armi per difendere i propri figli dalla brutalità degli attacchi dell’esercito regolare e per mantenere le proprie specificità di popolo. Proprio in questi giorni è previsto l’arrivo, dopo più di cinquant’anni, del segretario di stato Hillary Clinton per “incoraggiare” le presunte riforme democratiche che il Myanmar sembrerebbe portare avanti con il presidente Thein Sein. Il governo birmano, però, mentre annuncia negoziati per un cessate il fuoco, rinforza gli avamposti nelle vicinanze dei villaggi Karen. Insomma, la posta in gioco per il futuro del Myanmar è più alta che mai e i numerosi investimenti stranieri che ammontano a diversi miliardi di euro ogni anno, potrebbero essere fondamentali per il futuro politico del paese e per la libertà delle diverse etnie.
Cosa provi nello stare a contatto con i Karen?
E’ davvero difficile cercare di trasmettere almeno un po’ dell’emozioni che si provano a stare a stretto contatto con i Karen. E credo sia anche difficile da far percepire nel “civilizzato” occidente, dove siamo abituati quasi esclusivamente al culto del superfluo. Lì tutto diventa ancestrale. I giorni vengono scanditi solamente dalla luce e dal buio e anche le piccole cose quotidiane hanno un sapore speciale. L’atmosfera, la calma, il cielo che sembra possibile sfiorare con un dito e la fortissima indole di questo popolo, determinato alla lotta per la libertà, riescono a farmi vivere davvero e sono una speranza affinché anche da noi ci possa essere un ritorno alla visione più tradizionale della società.
Quale sarà la tua prossima iniziativa con Popoli?
Spero di riuscire ad organizzare una mostra fotografica di questa missione, magari con il patrocinio del Comune di Perugia, per sensibilizzare la lotta Karen e per raccogliere fondi fondamentali affinché i progetti per aiutare la popolazione, aumentino sempre di più. La Comunità Solidarista Popoli ha dato inizio ad un impegno che non può essere interrotto; molta gente Karen ottiene fondamentali cure sanitarie soltanto grazie al nostro intervento e molti bambini riescono a studiare perché “Popoli” è riuscita a finanziare, in diversi villaggi, delle scuole. Inoltre, proprio nell’ultima missione di novembre, sono state allargate le attività nel distretto di Dooplaya, zona Karen al confine con la Thailandia, con un nuovo progetto per la piantagione di campi di riso che serviranno per soddisfare diversi villaggi, la costruzione di un pozzo che permette l’arrivo dell’acqua nel villaggio di Ookray Khee e il mantenimento della scuola del villaggio di Kaw Hser che conta ben 150 bambini. Sempre “Popoli”, in collaborazione con l’Associazione Orfani Palestinesi, sta adottando piccoli orfani palestinesi che si trovano nei campi profughi in Libano. Chi vuole aiutarci, può contattarci ainfo@comunitapopoli.org, con la garanzia che tutto il denaro raccolto finisce direttamente nei progetti, dal momento che tutti i membri della Comunità Solidarista sono volontari al cento per cento e nessuno di noi percepisce uno stipendio.
Intervista di Leonardo Varasano, http://www.ilsitodiperugia.it/content/316-birmania-una-terra-dove-il-tempo-si-%C3%A8-fermato-e-dove-i-karen-lottano-ancora