mercoledì 27 ottobre 2010

Serbia: orgoglio nazionalpopolare .


Tanto poté la propaganda d’occidente – frammista ad alcuni sdruciti scampoli di socialismo reale - che alla fine gli jugoslavi quasi ci crederono di vivere sotto un “regime”. Chi ha avuto la ventura di trovarsi a Belgrado una decina di anni or sono ricorderà: la voce bassa con cui si parlava di politica nei bar, o al ristorante; la presenza discreta della polizia in borghese, tradita solo da qualche presenza più nera del nero, scarpe nere, pantaloni neri, maglia nera, giacca nera, occhiali neri, pistola nera alla cintura; i necrologi a pagina intera per i dirigenti pubblici, con la loro foto listata a lutto sulle vetrine dei negozi; i ristoranti di Stato, i grandi magazzini di Stato, le cabine telefoniche di Stato; la cattedra di economia socialista all’università, poche canzoni in inglese, le cravatte regimental; carta da parati pastello, velluto sdrucito, stampe propagandistiche di bagni termali dismessi; qualche sparo in aria per la partita, la borsa nera, le banconote a nove zeri, i manifesti antiamericani stampati a milioni dalle tipografie dello Stato, altro che ciclostile; un poliziotto alticcio, qualche cingolato, tante bandiere; qui non si può fotografare, qui sì ma è meglio di no; le cose dai nomi semplici: la fabbrica della birra di Belgrado si chiamava “Fabbrica della birra di Belgrado”, la fabbrica delle sigarette di Vranje si chiamava “Fabbrica delle sigarette di Vranje”; niente foto a colori sui giornali, anzi: niente foto del tutto; l’obbligo di registrarsi alla polizia, il lasciapassare turistico, la sacrosanta diffidenza per lo straniero; marmo e cemento prefabbricato, poco spazio alle architetture progressiste; il ristorante cinese col ritratto di Mao, le piante d’appartamento, il verdino, il marrone, l’azzurrino, il nero, e poco spazio al rosso: giusto qualche adesivo Coca-Cola sbiadito dal sole in memoria di qualche prurito moderno dei primi anni Novanta.



Košava è il nome che i serbi hanno dato a un vento che soffia sul loro Paese, un vento che nasce dai Carpazi, segue il corso del Danubio, investe Belgrado e, in inverno, si infila come una lama di ghiaccio nel cuore della Serbia centrale. Talvolta, per particolari occasioni, capita che questo vento non scorra solo sulle invisibili direttrici atmosferiche, ma si sposti sulle trasmissioni dei radio-telegiornali, valichi l’Adriatico s’insinui nelle redazioni della grande informazione nazionale che si accorge quindi ancora dell’esistenza della disgraziata nazione balcanica, si ricorda dell’esistenza di quel “buco nero d’Europa” che diventa via via sempre più grigio. E i titoli a tutta pagina, le notizie d’apertura, gli editoriali dei grandi opinionisti diventano per un po’ un grido unanime, un “mamma li serbi!” urlato a gran voce. La riscoperta della Serbia da parte della nostra grande informazione segue una tempistica e delle regole a dir poco originali. Per anni, ad esempio, c’è stato chi ha denunciato la barbarie giuridico-internazionale dell’autoproclamata indipendenza kosovara, che – incrinando l’ordine di Vestfalia – avrebbe condotto all’anarchia i rapporti tra Stati e tra Stati e regioni; eppure la nostra stampa non ha reputato di dover spendere inchiostro per la questione: congiura del silenzio. Oppure, c’è stato chi reiteratamente ha denunziato la menzogna su cui si fondava la propaganda euro-occidentale-statunitense della “pulizia etnica” messa in atto dalla Serbia nei confronti delle minoranze nazionali, opponendo prove scientifiche di indubbia veridicità, ma anche qui nulla: ferme le rotative, silenti gli autorevoli commentatori, al massimo qualche accusa di complottismo. O ancora: esperti e studiosi d’ogni sorta, civili e militari, hanno svelato la natura terroristica delle operazioni militari Nato del 1999, che hanno distrutto l’ecosistema locale, inquinato per secoli l’acqua, l’aria e il terreno fino al punto da colpire con morbi letali gli stessi soldati degli eserciti occupanti; chi ne ha fatto menzione? Rinascita, d’accordo. E poi? La Repubblica e Il Corriere? Finito lo spazio? Troppo presi a pontificare tra arguzia e morale? Oppure avevano paura di essere confusi con quei giornalisti della radiotelevisione jugoslava che erano stati maciullati da un missile? Tanto non erano neanche giornalisti veri, erano “gli strombazzatori di Milošević”, che proprio Milošević aveva messo lì come bersaglio umano. Poi: quanti hanno sentito parlare della situazione socioeconomica nella Serbia del decimo anno dell’Era Democratica? Dello stato sociale estirpato, della disoccupazione incontrollata, della dismissione del patrimonio pubblico, della povertà e dell’emarginazione? Senz’altro in pochi: di queste cose i nostri informatori non fanno menzione; ci sono temi più importanti da trattare: “dove si nasconderà Mladić?”, ad esempio. Oppure, ad esempio, un’analisi della società belgradese alla luce delle ultime dichiarazioni del portavoce della Lega per i diritti degli omosessuali di Salt Lake City.



Oppure, come in questi giorni è capitato, basta un tafferuglio in uno stadio, uno striscione irriverente, un coro fuori dal coro, e tutti giù a riscoprire la questione serba.



Che i serbi devono ancora uscire dal purgatorio, che è ancora un Paese arretrato, che chiamano ancora “milicija” la polizia; e si mandano dieci inviati a Belgrado che – a caccia di scoop – scoprono che l’uomo nero dello stadio Marassi in patria ha stretti contatti con gli ambienti ultras e non, che so, con gli avventisti del settimo giorno o coi bieticoltori.



Altro evento dimenticato dalla nostra grande informazione è stato il decennale degli eventi dell’ottobre 2000, quando un colpo di stato diretto dall’estero ribaltò la volontà popolare e rovesciò il legittimo presidente Slobodan Milošević. Un colpo di stato edulcorato dalla terminologia con cui è stato in séguito definito, “rivoluzione colorata”, ma che è stato caratterizzato – come tutte le manovre politiche orchestrate a Washington – dalla violenza e dalla prevaricazione. Questa dimenticanza ha senz’altro i suoi perché: non si sarebbe trovato il coraggio di constatare quali sono state le reali conseguenze dell’instaurazione di un governo filo-occidentale a Belgrado: la definitiva morte di una nazione. La Serbia è infatti oggi, a dieci anni di distanza, un Paese umiliato da una classe politica inetta e serva degli input atlantici, costretta a barattare la sovranità di una parte fondamentale del proprio territorio in cambio di una sedia di terza fila in qualche consesso internazionale, in cui lo Stato non ha più un sistema sociale e previdenziale, in cui non esiste più un barlume di patrimonio pubblico, in cui ogni impresa, azienda o sistema produttivo è stato gettato nella vasca di squali chiamata “Agenzia per le privatizzazioni” in cui potentati economici non autoctoni si accaparrano per cento lire interi settori di economia pubblica. E’ una nazione in cui la stampa e la televisione hanno cominciato a torturare le coscienze coi messaggi di Radio Free Europe, in cui le telenovele di quarta mano hanno soppiantato la scarna ma pur dignitosa programmazione precedente, in cui il nuovo Verbo e in lingua inglese, come se “il giorno della fine” si allontanasse, anziché avvicinarsi. Un Paese che emigra in massa a cercare l’America, quando non si ha la fortuna di fare in casa il trimestrale per Marchionne a trecento euro al mese. Gli stessi operai che dieci anni fa, dopo il bombardamento della già nazionalizzata industria dell’auto socializzarono la fabbrica e la rimisero in funzione; non si poteva mica permetterglielo: c’era Milošević, e la democrazia era in pericolo. Una Nazione, insomma, che – come il resto d’Europa – più Europa non è.



Dove va la Serbia? Forse il processo di dissoluzione è in una fase troppo avanzata, e i margini di restaurazione si affievoliscono. O forse no: i Balcani ci hanno abituato a conferire alla recente storia europea il buio del baratro ma anche le più alte vette di orgoglio nazionale e popolare. Certo è che la strada va invertita. Ricordiamo, nell’ottobre di dieci anni fa, la mattina successiva al colpo di stato. La teppa del giorno prima aveva sciolto i cortei e pagato i mazzieri, e di facce contente in giro se ne vedevano poche: gli sguardi che si incrociavano trasmettevano quello stato d’animo peculiarmente balcanico, quella indefinibile mistione di rassegnazione, arrabbiatura e timore. “Politika”, giornale governativo fino al giorno precedente e la cui redazione era stata democraticamente epurata, titolava “La Serbia sulla strada della democrazia”.



Proprio di fronte la redazione del giornale c’era un sobrio ma elegante ristorante tradizionale, in cui ogni sera, prima del golpe, una composta nomenklatura si mostrava fiera della nazione che dirigeva, libera e caparbia. Come da consuetudine secolare, prima di pranzo veniva servita una rakija, un forte distillato balcanico. Dopo tre anni ci siamo tornati, e c’era una sorta di imitazione di fast-food, ove anziché offrirti una rakija tentavano di avvelenarti con un milk-shake, dove veniva somministrato il cibo uniformato del progresso a stelle e strisce e dove – quantomeno – si può vagheggiare la speranza che almeno dallo stomaco parta l’impulso di ribellione al nuovo disordine. Perché finalmente la Serbia comprenda che quella “strada della democrazia” imboccata dieci anni or sono altro non è che il piano inclinato che la sprofonderà nell’abisso e nell’annullamento di sé.



Di Fabrizio Fiorini, www.rinascita.eu


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