giovedì 7 ottobre 2010

Chi ha scagliato la prima pietra?


Questo interrogativo dagli echi biblici ha trovato risposta lo scorso 23 settembre nello stato americano della Virginia, nove di mattina dell’ora locale. A scagliare la prima, mortale pietra verso la propria condannata a morte resa famosa da risonanze mediatiche e scambi d’accuse tra vertici politici sono stati gli Stati Uniti d’America. Già, proprio il faro universale della civiltà occidentale ha smesso i panni edulcorati del supremo paladino della democrazia per indossare quelli sporchi di sangue del solenne boia assassino. Nessuna clemenza ha impedito al giudice di comminare l’estrema condanna, sebbene l’imputato (accusato di aver ucciso circa otto anni fa suo marito ed il suo figliastro, con la complicità dell’amante, per scopi economici) fosse una donna disabile, risultata palesemente psicolabile a seguito di diverse e particolareggiate perizie. Il suo nome era Teresa Lewis. Se non fosse per le accuse di ipocrisia rivolte al mondo occidentale dal presidente iraniano Ahmadinejad da un pulpito di grande richiamo mediatico (l’assemblea generale dell’ONU), alla gran parte dei fruitori di notizie ufficiali non sarebbe neanche giunta la notizia.


Il leader iraniano ha denunciato il silenzio dei media internazionali, ponendo la questione del “due pesi, due misure”: basti accostare il caso della Virginia a quello di Sakineh Ashtiani, donna iraniana condannata a morte a Teheran per adulterio e omicidio del marito (anche lei con la complicità di un amante) per avere un’idea precisa di questo ipocrita atteggiamento su cui ha posto le attenzioni Ahmadinejad. Diverse settimane fa l’opinione pubblica è stata investita da un’ondata di compassione talmente intensa, trasversale e mobilitante da illudere qualche animo innocente che fosse giunta l’ora in cui le ingiustizie che ci dilaniano venissero spazzate via. Quell’atmosfera cosmopolita e sdolcinata da “We are the world” e da “Image” sembrava forse volersi imporre e sancire l’inizio di una nuova epoca arcobaleno. Le immagini di Sakineh, questo primo piano di un volto un po’ sbiadito dal quale si percepiscono, comunque chiaramente, dei lineamenti gradevoli, viso femminile avvolto da un velo che lo rende avvilito agli occhi dell’osservatore occidentale, sono immagini quasi eteree che hanno raggiunto lo scopo di colpire le sensibilità. Immagini con cui hanno tappezzato le nostre città, i nostri TG e i nostri giornali quasi si trattasse di un martire, patrona di tutto l’occidente civile minacciato dalla ferocia islamica. Anatemi del mondo intellettuale, della politica e dei media sono giunti all’Iran; petizioni, staffette, marce di solidarietà sono state organizzate per costruire un ideale ponte di vicinanza a Sakineh. Per giorni non s’è parlato d’altro, come se l’ingiustizia e lo spregio della vita umana non fossero qui di casa, come se parole quali aborto, guerra, fame, emergenza carceraria e - in ultimo, ma non ultimo - proprio la pena di morte non abbiano cittadinanza nel migliore dei mondi possibili, nel faro universale della civiltà. Le immagini tutt’altro che eteree di quella donna delle periferie americane (realtà estranee alle rappresentazioni di Holywood di un’America efficiente e lussuriosa, ricca e libera) colpiscono meno le sensibilità che agiscono solo per riflessi condizionati. Innanzitutto non v’è alcun velo ad avvolgerle un volto contraddistinto da tratti somatici affatto sbiaditi: nerboruti e carichi di rughe, insieme allo sguardo inflessibile ad ogni forma di distensione, rendono il viso di un’immediatezza aggressiva. I suoi capelli crespi, corti e non curati, insieme alla camicia verde di quelle dei detenuti americani che le scippa anche quell’ultima stilla possibile di femminilità non colpiscono allo stesso modo di un innocuo velo. Nessuna mobilitazione, nonostante esistessero per giunta i presupposti per applicare una circonvenzione di incapace in sede processuale, trattandosi di persona disabile di cui, per sua stessa confessione, ha approfittato l’amante. Teresa Lewis è una vittima; sì, proprio così, una vittima di un sistema liberista che produce e si nutre di diseguaglianze sociali, relegando i suoi “rottami” ai margini della società: quei negri dei ghetti o quei white trash (mondezza bianca) del Sud del paese che rappresentano i diseredati, i miserabili, gli ultimi vivono come bestie in contesti in cui latitano presenza dello Stato e la benché minima prospettiva gratificante, l’unica alternativa al suicidio è la criminalità e la tutela legale è una chimera. Insomma, la vita di questa vittima delle contraddizioni dell’american way of  life non vale quella di una donna iraniana, vittima invece (a parer dei fautori del laicismo occidentale) del maschilismo e del fondamentalismo religioso di un regime dispotico. Ma laddove regnano questi “principi retrogradi” Sakineh è ancora viva, la pena è sospesa; mentre laddove svetta il “faro delle nazioni” la sedia elettrica ha già adempiuto al proprio efferato compito. In realtà l’epoca arcobaleno esiste già: il mondo vive sotto la minaccia di un boia arrogante che però, anziché indossare l’inquietante cappuccio, veste da bonario clown esperto nel raccontar menzogne ed a distogliere l’attenzione mentre commina pene capitali (d’altronde, Teresa Lewis è solo l’ennesimo cadavere che va ad accatastarsi dentro l’armadio della storia della giustizia americana). A scagliare dunque la prima pietra - ma l’ennesima di una lunga costellazione che ripercorre una scia di sangue disseminata lungo quei “migli verdi” delle carceri statunitensi - un pericoloso ed ingannevole clown, più simile ad It che non a Sbirulino…

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