mercoledì 20 ottobre 2010

Sagome e "spezzatino".


Anche se ormai fuori moda, relegato al collezionismo e annichilito da una pletora di videogame di argomento calcistico, il Subbuteo – il calcio “in punta di dito” – è stato uno dei passatempi più diffusi e apprezzati dalle generazioni nate a cavaliere fra gli anni Settanta e Ottanta. Il gioco, semplice e sempre vario, riproduceva il football in tutto e per tutto: dal campo – un tessuto verde fissato su un piano – alle panchine, dai calciatori – riproduzioni in plastica appoggiate su una base semisferica – ai riflettori, dai tifosi – miniature umane atte a decorare gli spalti – alla pubblicità.

Se prima era il Subbuteo ad imitare il calcio, ora sembra che sia il calcio, sempre più finto e malandato, ad imitare il Subbuteo. Dopo il ricorso ai campi in erba sintetica si è arrivati addirittura a dipingere il pubblico sugli spalti: è quanto è accaduto a Trieste, dove in occasione dell’incontro di serie B tra la squadra giuliana e il Pescara, la gradinata Colaussi del “Nereo Rocco” – un moderno impianto con quasi 30mila posti per un pubblico abitualmente esiguo – è stata coperta con un “back drop”, un’enorme drappo disegnato, uno sfondo artificiale, una gigantografia raffigurante i tifosi di casa in condizioni di massimo afflusso. Umberto Saba – poeta triestino, amante del calcio, profondo ammiratore dell’atmosfera “che si forma intorno a quegli undici fratelli che difendono la madre” – inorridirebbe. Ma non potrebbe fare altro che rassegnarsi a quella che pare ormai una metamorfosi ludica e sociale tristemente ineluttabile.

Il ricorso al pubblico virtuale non deve infatti sorprendere. Le sagome disegnate all’interno di uno stadio desolatamente semivuoto sono l’epifenomeno di un processo, in atto da tempo, finalizzato alla trasformazione del tifoso da stadio in cliente televisivo. Nel nostro Paese, i provvedimenti più recenti sembrano andare tutti nella stessa direzione: “americanizzare” i calciofili italiani, cercando di convincerli che il salotto di casa – magari ben fornito di birra e leccornie – rappresenti la postazione migliore per godersi la partita in tranquillità.

Andare allo stadio – un rito collettivo a lungo semplice e diffuso -  può risultare quasi proibitivo. Gli ostacoli sono divenuti tanti e tali da scoraggiare anche i più appassionati. Non bastasse la continua erosione di fascino che da tempo investe il football – i cui protagonisti arrivano a minacciare scioperi come gli operai della Fiom -, l’ottusa burocrazia del calcio italiano continua ad arricchirsi di divieti ed impedimenti. Dopo le perquisizioni sfiancanti, le file interminabili, i tornelli e i biglietti nominali – che invece di avvicinare le famiglie hanno reso ostico anche l’accesso dei bambini -, è stata la volta dell’inopportuna “tessera del tifoso”: una “confessione d’impotenza”, come l’ha definita Zeman, che costringe migliaia di persone a pagare per pochi teppisti (come quelli che hanno cercato di aggredire il ministro Maroni ad Alzano Lombardo); un prodotto bancario multiuso che accresce il formalismo del calcio; un obbligo senza il quale non si può fare l’abbonamento né seguire la squadra in trasferta; una sostanziale schedatura che lascia dubbi sulla tutela della privatezza; uno strumento – molto diverso dalle “priority card” inglesi – incapace di garantire la fine della violenza negli stadi (tanto che si continuano a disputare partite a “porte chiuse”).

Il messaggio è chiaro: meglio stare in poltrona; meglio rassegnarsi alle partite a ciclo continuo del piccolo schermo. Sempre meno a misura di tifoso – gli impianti sono per lo più vecchi e inospitali – e sempre più a misura di televisione, il calcio propone incontri a tutti gli orari: il pallone televisivo non risparmia neppure il pranzo domenicale, irrompendo nelle case di molti italiani con una diretta alle 12,30. Non importa che anche nello sport il virtuale prenda il sopravvento sul reale. Non importa che un’abitudine sociale e collettiva diventi privata e solitaria. Non importa che tanto la tessera quanto l’offerta spezzatino costituiscano un passo ulteriore verso il solipsismo, verso l’a-socialità, verso l’atrofizzazione delle emozioni. Quello che conta è avere abbonati. Televisivi. Mentre ai nostalgici del calcio che fu non resta che l’immarcescibile “Tutto il calcio minuto per minuto”.

Nella poesia “Goal”, Saba esalta la folla da stadio, “unita ebbrezza” che al momento della rete – “pochi momenti come questo belli” – “par trabocchi in campo”. Ma quell’“unita ebbrezza” rischia di diventare solo un ricordo letterario, schiacciato dalla televisione e soppiantato dai tifosi virtuali.



Leonardo Varasano, Il Giornale del'Umbria del 20-10-2010


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