Di: Matteo Bernabei, www.rinascita.infoSale la tensione in Palestina. Un ragazzo di 15 anni è stato ucciso ieri durante le manifestazioni organizzate a Gaza per il “Giorno della terra”, la commemorazione nella quale da ormai 34 anni la popolazione della Striscia ricorda le sei persone massacrate dalle forze armate israeliane nel 1976 mentre protestavano ad al Jalil contro il furto delle loro terre. Il giovane è stato ucciso da alcuni colpi d’arma da fuoco esplosi dai militari di Tel Aviv mentre, alla testa di un corteo pacifico, si avvicinava alla barriera che separa il territorio dell’enclave palestinese da quello dell’entità sionista nei pressi del valico di Rafah. Le autorità israeliane non si sono ancora pronunciate ufficialmente sulla vicenda ma, come spesso accade in questi casi, è probabile che la scelta di non confermare quanto accaduto sia voluta e finalizzata a non alimentare la tensione fra i manifestanti. Tuttavia episodi simili si sono registrati anche ad est di Khan Younis e nel campo profughi di al Maghazi situato nel sud di Gaza, sarà quindi molto difficile per la censura di Tel Aviv mettere a tacere tutto. “Mi trovavo con un gruppo di manifestanti - ha spiegato ieri Vittorio Arrigoni, attivista dell’International Solidarity Movement, all’agenzia Infopal - quando i soldati israeliani hanno preso a spararci contro. Ora stiamo andando all’ospedale Europeo di Rafah per accertarci delle condizioni in cui si trovano i feriti. In questi giorni, è in corso un’escalation israeliana contro la Striscia di Gaza: sono aumentati gli attacchi israeliani contro i cittadini e i contadini, e gli scontri contro i resistenti che giustamente si difendono”. A tutto questo si aggiunge la decisione del governo israeliano di chiudere per tutta la durate delle festività della pasqua ebraica i valichi con la Cisgiordania e quelli con la Striscia di Gaza. La municipalità di Gerusalemme, inoltre, seguendo le indicazioni dell’esecutivo di Netanyahu, ha invece limitato per lo stesso periodo l’accesso alla spianata delle moschee ai soli arabi con più di 50 anni e alle donne. Una prassi che Tel Aviv attua ormai da quando nel 2003 è stata ultimata la costruzione del muro che soffoca la Cisgiordania. Tuttavia la polizia della Città Santa non è stata in grado domenica scorsa di impedire ad un gruppo di ebrei estremisti di fare irruzione nel luogo sacro per i musulmani, dove hanno causato alcuni danni agli edifici e provocato qualche piccolo scontro con i presenti. Tel Aviv si ostina a coprire dietro la definizione di “motivi di sicurezza” quella che di fatto è una violazione delle libertà fondamentali del popolo palestinese. Violazione che, purtroppo, è tollerata e giustificata dalla maggior parte dei Paesi occidentali.
Sono arrivati alle 16.30 nel villaggio di Kaw Hta, distretto di Nyaunglebin. Non li chiameremo soldati, perché indegni di tale qualifica. Non si sono battuti contro un nemico armato. Gli assassini del battaglione 369 hanno sparato soltanto su donne e bambini. Hanno ucciso Naw La Pwey, 37 anni, Naw Paw Bo, una bimba di 5 anni, e Saw Hta Pla Htoo, di appena 5 mesi. Anche la madre dei piccoli, Naw Pah Lah, è stata colpita, ed ora viene soccorsa in un luogo nascosto della giungla, dove tutti gli abitanti del villaggio hanno cercato riparo. Le loro case sono in fiamme. Mentre i loro sgherri massacrano civili inermi, i generali birmani si danno un gran daffare in cerca di legittimazione internazionale. Vorrebbero che le elezioni/farsa, promesse entro la fine del 2010, ottenessero il sostegno delle diplomazie. Ci saranno a breve incontri tra inviati dell'Unione Europea e rappresentanti del regime di Rangoon. Ribadiamo che non è possibile trattare con chi colpisce donne e bambini. L'unico atto concreto che dovrebbe precedere ogni ipotesi di negoziato tra regime, organismi internazionali, forze di opposizione e gruppi etnici, è la cessazione da parte birmana di ogni attività bellica nelle aree abitate dai popoli che reclamano autonomia. L'Esercito di Liberazione Karen continuerà fino ad allora la sua lotta in difesa della popolazione, e ovviamente colpirà le truppe birmane e i partigiani collaborazionisti, spregevoli traditori del proprio popolo, ogniqualvolta se ne presenterà l'occasione. In accordo con la Karen National Union, lanciamo un appello al Governo Italiano per una decisa azione volta all'ottenimento di un cessate il fuoco effettivo nella regione Karen.
La crisi del debito pubblico della Grecia sta provocando lo sconquasso dell’eurocrazia. Su Bruxelles in panne fioccano infatti le analisi soddisfatte d’Oltremanica e i continui rimbrotti su e contro i “PIGS”. (Abbiamo già accennato al significato di “pigs”. Come si sa gli anglosassoni e i loro cortigiani hanno il debole per gli acronimi: così il termine non certo “neutrale “pigs” (porci nella lingua d’Albione) accomuna le nazioni Ue “deboli” o inadempienti ai parametri di Maastricht sul rapporto debito-pil e sulla “stabilità forzata” decretata dalle elites burocratiche nell’articolo 125 del trattato di Lisbona: p come Portogallo, i come Italia, g come Grecia, s come Spagna, oltre al corollario di una possibile doppia i per includere anche l’Irlanda).
I marines statunitensi e le truppe britanniche che si sono insediate nel distretto di Nad Alì e nella città di Marjah dopo l’imponente offensiva di febbraio – la più grande dall’invasione dell’Afghanistan nel 2001 – non contrasteranno la produzione di oppio e, anzi, impediranno alle autorità di Kabul di distruggere le piantagioni di papaveri nella regione appena conquistata. Dopo diverse indiscrezioni in proposito, la conferma è giunta dai reportage da Marjah del New York Times e del Miami Herald. “Noi non siamo venuti qui per sradicare i papaveri”, ha dichiarato il maggiore dei marines David Fennell al Miami Herald. Mentre il comandante Jeffrey Eggers, membro del gruppo di consulenza strategica del generale McChrystal, ha confermato al New York Times che “Marjah è un caso speciale. Noi non calpestiamo i mezzi di sostentamento di coloro che stiamo cercando di battere”.
Con la relazione della commissione parlamentare in merito alla morte in carcere di Stefano Cucchi si cerca di squarciare il velo d’ipocrisia e di omertoso silenzio attorno ad una vicenda scandalosa.Un ragazzo che finisce in galera per pochi grammi di hashish e che subisce violenza da parte di chi doveva garantire sulla sua incolumità non può passare sotto silenzio e rimanere impunito.
Sabato 13 Marzo alle ore 17.00, nella sala della Vaccara, in piazza IV Novembre a Perugia, l´Associazione Culturale Tyr ha organizzato un evento verità presentando il libro "11 Novembre 2007 l'uccisione di Gabriele Sandri, una giornata buia della repubblica" con Maurizio Martucci, l´autore del libro e Giorgio Sandri, il padre di Gabriele. Più di cinquanta persone sono intervenute all´evento, a significare che neanche a Perugia si è disposti a dimenticare quello che è accaduto quella tragica domenica dell´11 Novembre 2007. Dopo una breve introduzione di Fabio Polese per l'Ass. Cult. Tyr, Maurizio Martucci ha iniziato subito la presentazione del libro, esponendo i fatti avvenuti e soprattutto sviscerando le dinamiche messe in atto dai mass-media nelle prime ore dell´accaduto per deformare gli avvenimenti. Subito dopo ha preso la parola Giorgio Sandri che ci ha spiegato di come il processo d´appello sarà ulteriormente rinviato - doveva presumibilmente essere fatto entro Maggio 2010 -
Si è conclusa da poche ore una nuova missione congiunta di "Popoli" e "L'Uomo Libero" nella regione Karen. I volontari riportano buone notizie, dopo un anno e mezzo in cui avevamo dovuto registrare numerosi avvenimenti drammatici. Dopo essere stati testimoni della rioccupazione di diverse aree nel distretto di Dooplaya, avvenuta nelle prime settimane di febbraio da parte degli uomini del colonnello Nerdah Mya, abbiamo potuto assistere alla toccante scena di numerosi profughi interni che, lasciati i loro ripari di fortuna e i nascondigli in cui si erano rifugiati dopo l'arrivo delle truppe birmane e dei partigiani collaborazionisti del DKBA, chiedevano di potersi stabilire nelle vicinanze del campo militare allestito dal Karen National Liberation Army, per poter godere della protezione della resistenza patriottica. Così, mentre un medico di "Popoli" visitava i profughi sotto una tenda, i responsabili del Dipartimento della Sanità e del Welfare dell'Unione Nazionale Karen raccoglievano i dati delle famiglie in cerca di una sistemazione. Grazie al generosissimo e immediato intervento di una coppia di amici italiani che hanno preso a cuore la sorte di questi profughi e hanno chiesto di non essere menzionati, i lavori di ricostruzione di un villaggio che era stato bruciato dai birmani diversi mesi fa sono iniziati lo stesso giorno, precisamente il 3 marzo. Questi amici hanno donato una cifra che copre l'intera spesa della realizzazione dell'insediamento e della riattivazione di un pozzo per l'acqua. Gli uomini delle "Special Black Forces" hanno ripulito la zona dalle mine antiuomo che i soldati di Rangoon avevano lasciato attorno ai resti del villaggio per impedire il ritorno degli abitanti, e hanno iniziato a lavorare per realizzare le prime delle 12 abitazioni previste nella fase uno del progetto. Contemporaneamente, i guerriglieri hanno affisso nella zona e in diversi villaggi del distretto dei manifesti che inneggiano all'unità del popolo Karen e alla doverosa resistenza contro l'invasore birmano a difesa dei civili. La presenza dell'Esercito di Liberazione (che sta prendendo posizione in diversi punti strategici del distretto) ha quindi dato coraggio ai profughi che fino a pochi giorni fa non avevano alcuna speranza di tornare ad una vita normale: ora invece si apre anche la possibilità di lavorare dei terreni per procurarsi il cibo e rendersi autosufficienti. Nello stesso villaggio, sul quale al momento non forniamo informazioni più precise per ragioni di sicurezza, entro qualche settimana risorgerà una clinica dedicata alla memoria di Carlo Terracciano, come avevamo annunciato poco dopo la distruzione della precedente struttura intitolata all'amico e maestro. L'assistenza ai profughi della zona non era mai venuta meno del tutto: anche durante l'occupazione birmana dell'area, i team formati dagli infermieri di "Popoli", dotati di zaini riempiti di farmaci e strumenti, hanno cercato per quanto possibile di raggiungere il maggior numero di civili nascosti nella giungla. Adesso il lavoro dei "medics" potrà svolgersi con più continuità, e soprattutto con una maggiore sicurezza, garantita dai volontari dei corpi franchi di Nerdah Mya. Buone notizie, quindi, anche se, come ben sappiamo, la situazione nella regione Karen resta di estrema gravità. L'esercito birmano non ferma gli attacchi contro gli obiettivi civili: una pratica infame che dovrebbe imporre alle diplomazie una intransigente presa di posizione nei confronti della giunta militare con cui si sta trattando in vista delle annunciate ma ancora non programmate elezioni. Proprio ieri, l'Unione Nazionale Karen ha chiesto al Segretario Generale dell'O.N.U. di porre come condizione alla continuazione di un dialogo con il regime di Rangoon la cessazione immediata da parte dei Generali di ogni attività militare contro la popolazione civile. Una richiesta che sarà a breve inoltrata anche all'inviato speciale per la Birmania dell'Unione Europea.
Un’azienda agricola italiana su tre potrebbe essere costretta a chiudere l’attività a causa delle grandissime difficoltà che da tempo attanagliano il settore. Si tratta di una vera e propria emergenza. Da un lato ci sono costi produttivi, contributivi e burocratici in aumento, costi fissi e ineludibili. Dall’altro ci sono i bassissimi prezzi di vendita che agli agricoltori sono imposti dai grandi commercianti o dalla grande distribuzione e che non permettono di sopravvivere. Si tratta di una questione antica che adesso si evidenzia in tutta la sua drammaticità. I prezzi sui campi sono infatti in caduta libera e questo ha provocato un crollo record dei redditi. Di conseguenza sei aziende su dieci lavorano in perdita e il 96,3% ritiene totalmente insufficienti i provvedimenti varati negli ultimi due anni per l'agricoltura. Il grave è che il 34,8% degli imprenditori sia scoraggiato e abbia manifestato l’intenzione di abbandonare addirittura l'attività produttiva.
Una pericolosa deriva – tra le tante – caratterizza la nostra società. Parliamo di quella sorta di giustizialismo preventivo che nasce sui media e finisce per veicolare l’opinione pubblica. Tale deriva possiede i tratti tipici che contraddistinguono il colpevole ruolo svolto dal giornalismo nel mondo moderno: si fonda sull’approssimazione, sulla spettacolarizzazione di ogni evento, sull’omissione e sulla parzialità nell’esposizione dei fatti, si sviluppa infine colpendo l’emotività dei fruitori e rifuggendo ogni tentativo più profondo d’analisi. E’ ormai un metodo giornalistico largamente diffuso, che si tratti di cronaca nazionale o di geopolitica. Si insinua laddove una certa lobby di potere che tira i fili dell’informazione desideri colpire un obiettivo, pronunciandogli contro una sentenza di condanna anticipata e crudele. Si insinua in Italia avvalendosi del diabolico, ormai palese connubio magistratura-informazione: la prima si occupa di avviare inchieste verso persone già fatte preventivamente oggetto di campagne giornalistiche diffamanti, la seconda si prodiga nel demolire definitivamente il profilo pubblico di costoro trasformando l’avviso di garanzia in condanna incontrovertibile, traducendo l’ipotesi di reato in criminalizzazione preventiva, in modo tale da rendere vana ogni successiva eventuale pronuncia d’assoluzione. Questa marcia struttura mediatica italiana è pertanto il riflesso di quanto avviene in ambito geopolitico, con la differenza che gli oggetti di questo sciacallaggio non sono singoli uomini bensì interi governi. In tal senso l’esempio oggi più attuale è relativo alla campagna dei media all’indirizzo dell’Iran, ferocemente colpito dall’odio quotidiano vomitatogli addosso da giornali e TV occidentali. Se fossimo dei fruitori d’informazione approssimativi, che considerano verità incontestabile ogni notizia elargita dai media di massa, saremmo convinti di trovarci al cospetto di una tirannia efferata, oltre che di un minaccioso Stato bellico che sta ultimando una bomba atomica da lanciare addosso a noi, pacifici ed inoffensivi cittadini del mondo occidentale. Ma, graziaddio, non riteniamo di essere approssimativi e rifiutiamo categoricamente ogni “verità” che ci viene imposta attraverso questo metodo. La sete di ricerca, dunque il rifiuto di attenerci a quanto propinato dai media di massa, ci fa affermare con convinzione questo postulato: le “verità” relative all’Iran si fondano principalmente su calunnie e ipocrisia. Innanzitutto va sgomberato il campo dalla favola dei brogli elettorali e del mancato consenso popolare, sfociato in quella cosiddetta “rivoluzione verde” che la polizia iraniana reprime nel sangue. Ebbene, credere che eventuali brogli possano aver spostato una mole di voti pari al 62,64% (tale è la percentuale di consenso elettorale di Ahmadinejad) è un insulto all’intelligenza umana, peraltro nessun osservatore internazionale ha potuto registrare con tanto di prove movimenti rilevanti in questo senso. L’Iran sottaciuto, la maggioranza del paese, è quello della gente semplice, radicalmente legata a valori che noi consideriamo vetusti (e questa presunzione è la nostra condanna a scomparire come popolo, fondendo l’ordine nel caos del melting pot); questa gente non persegue il consumismo ma l’armonia spirituale, non adora il danaro ma Dio. Ma questa gente non è neanche stupida, tutt’altro. La propria osservanza religiosa non la irrigidisce in modo ottuso, anzi gli concede una serenità di giudizio scevra da condizionamenti superflui: essa non apprezza l’impostazione occidentale, costruita, di un politico; essa rifugge l’uso smodato dei mezzi tecnologici. Al contrario, essa apprezza il proprio leader Ahmadinejad poiché ne comprende l’autenticità, la capacità di saper comunicare anche col popolo delle campagne con schiettezza e senza snobismi. Apprezza i fatti, la politica sociale dell’attuale governo che consiste, per esempio, nell’accesso alle cure mediche gratuite, nell’aumento degli stipendi e delle pensioni. Il vero Iran, celato agli occhi di noi occidentali, cioè la maggioranza del paese, sta dalla parte del suo governo e lo dimostra attraverso oceaniche adunate - sapientemente ignorate dalle telecamere dei nostri TG e dall’inchiostro dei nostri giornali - in favore del proprio governo e del proprio Ayatollah Khamenei, una sorta di guida suprema di carattere spirituale. Gli Iraniani sono entusiasti ed orgogliosi del proprio governo, a parte una minoranza di essi, seppur rumorosa e distruttrice, reale minaccia dell’ordine sociale e per questo perseguitata dagli organi di polizia (uno Stato che si difende possiede l’imprimatur della legittimità soltanto quando i pericoli interni si chiamano ultras, brigate rosse, eversivi neri? Quando orde di verdi fanatici bruciano moschee, spaccano vetrine ed automobili a Teheran lo Stato non deve forse intervenire in modo netto?). Quella minoranza ci viene fatta passare dai media, attraverso la tendenza ad alterare la veridicità degli eventi, per voce di popolo e per vittima del sistema. Sciolto ogni dubbio relativo alle questioni interne iraniane, va fatto altrettanto riguardo le questioni esterne o, per meglio dire, riguardo la questione esterna per antonomasia: l’ipotetica minaccia nucleare, presumibilmente avvalorata dalle solenni accuse di Ahmadinejad verso Israele. E’ bene fornire un’essenziale informazione che vergognosamente nessun giornalista rileva, facendoci così pensare che l’Iran, se non domani, al massimo dopodomani avrà pronta la bomba atomica. La notizia consiste nel fatto che per avviare la costruzione del nucleare militare è necessario un arricchimento dell’uranio all’80%, mentre l’Iran non è ancora in grado nemmeno di arricchirlo al 20%, limite indispensabile per gli usi civili. E di sviluppare un nucleare civile l’Iran ha diritto, in quanto paese firmatario del trattato di non-proliferazione (Il trattato proibisce agli stati firmatari "non-nucleari", ovvero che non possiedono armi nucleari, di procurarsi tali armamenti e agli stati "nucleari" di fornir loro tecnologie nucleari belliche). Ricordiamo che Israele, l’agnellino vittima delle minacce di lupo Ahmadinejad, non ha invece voluto firmare questo trattato (ma quali sarebbero poi queste pericolose minacce, a parte i travisamenti giornalistici? La denuncia dell’ipocrisia di uno stato confessionale, perennemente in guerra, fondato sull’etnocrazia, per giunta arrecante il diritto di dare lezioni di moralità? Beh, minacce sacrosante allora!). Del resto l’Iran ha recentemente consegnato all’AIEA (autorità internazionale nucleare) una proposta flessibile e ragionevole, tale da garantire la propria volontà ad arricchire uranio per fini esclusivamente civili. Eppure gli USA (influente paese membro dell’AIEA) hanno già bollato come “non interessante” questa proposta, senza degnare l’Iran di alcuna spiegazione né dimostrandosi minimamente propensi al dialogo ed alla ricerca di una soluzione pacifica della questione. Ai media nostrani basterebbe riportare queste brevi ma indicative notizie sull’Iran, basterebbe descrivere dunque l’oggettività, per evitare di comportarsi, loro sì, da stampa di regime. Ma un simile atteggiamento presuppone una condizione necessaria che evidentemente latita: il coraggio. La mancanza di coraggio può costar cara: nel 2003, prima dell’attacco all’Iraq, quasi nessuno, dato il quotidiano lavaggio del cervello dei media, osava pensare che Saddam Hussein non possedesse in realtà armi di distruzioni di massa, che quella fosse soltanto una campagna mediatica americana per giustificarne l’imminente attacco militare. Poi, un bel giorno, a guerra in Iraq ormai iniziata da un bel pezzo e a Saddam Hussein ucciso, il Segretario di Stato Americano Colin Powell fu costretto a fare ciò che gli americani amano chiamare outing: privo di uno straccio di prova, ammise esplicitamente che le scrupolose ricerche delle autorità internazionali non avevano portato al ritrovamento di alcuna arma di distruzione di massa in possesso del regime iracheno, di conseguenza ammettendo, stavolta implicitamente, che le presunte prove sbandierate dai media occidentali erano dei falsi grotteschi e - dati gli effetti: centinaia di migliaia di morti - criminali. Ecco, auspichiamo che questa recente vicenda, sempre legata al binomio Occidente-Medio Oriente e sempre fondata sulle menzogne, non venga imitata. Gli effetti di una nuova “missione di pace” potrebbero essere catastrofici, anche perché USA ed Israele, loro sì, hanno in serbo armi atomiche (Do you remember Enola Gay?). E noi non perseguiamo alcuno scenario apocalittico che faccia da preludio all’avvento del messia…
Villaggio di Ta U Plaw, distretto di Papun. 353 abitanti, tutti civili fuggiti dai loro originari insediamenti per non essere deportati dall'esercito birmano in aree controllate dal regime di Rangoon. Una scelta difficile. Una scelta di libertà che implica una vita sul filo del rasoio: famiglie pronte in ogni momento a lasciare anche queste capanne di corsa, all'arrivo dei soldati, una dieta alimentare basata su riso e sale e qualche verdura raccolta nella foresta, il rischio quotidiano rappresentato dai sentieri minati, dalle malattie endemiche, malaria in primis. Sono moltissimi i Karen che compiono questa scelta. Quasi mezzo milione di persone che preferiscono affrontare la dura vita della foresta piuttosto di consegnarsi all'invasore, ed essere assimilati in una “nuova società” o, come la chiamano i ricchi generali birmani, in una “fiorente democrazia disciplinata”. Sono le 9.00 del mattino del 19 febbraio. Roe Bee Moo, 16 anni, è nella piccola scuola di bambù assieme ad altri ragazzini impegnati negli esami. Perché i Karen, anche in condizioni di estrema difficoltà ed emergenza, cercano di mantenere una vita normale, e per il loro rigoroso senso etico l'educazione dei più giovani è considerata una priorità. La scuola trasmette valori tradizionali, fa capire ai più giovani cosa significa appartenere al loro popolo e cerca inoltre di dotarli di conoscenze che forse un domani, se il paese sarà libero, consentiranno loro di accedere a studi superiori. Sulle colline circostanti il villaggio arrivano i soldati del 7° Military Operation Command, gli sgherri che hanno il compito di terrorizzare i Karen per indurli alla resa. Oggi hanno un lavoro di routine: un colpo di mortaio, magari due, nei villaggi che visitano, così, tanto per “tenere sulla corda” quei cocciuti selvaggi, così attaccati alla loro terra. Il proiettile fora il tetto di foglie della scuola, tocca il terreno ed esplode. Molti alunni sono ancora fuori, in attesa del loro turno di interrogazione. Le schegge feriscono tre ragazzini. Vengono trasportati alla clinica della Comunità Solidarista Popoli di Kay Pu, dopo un viaggio in amache legate a grossi bambù sostenuti da portatori, le Jungle Ambulances. Per due di loro non ci sono grossi problemi: vengono visitati e soccorsi dai “medics.” quella via di mezzo tra infermieri e dottori che cerchiamo di formare grazie ai training che i nostri medici tengono durante le missioni. Eh Kaw Thaw, 12 anni, e Ree Re, 10, hanno ferite alla mano e alla gamba destra. Sono ora ricoverati. Per Roe Bee Moo (nella foto) la situazione è più grave. Una scheggia di metallo è entrata nel fianco destro, in profondità, e la clinica non ha strumentazione adeguata per poterla localizzare con sicurezza. Impossibile intervenire: i medici decidono di trasferirlo in un'altra struttura, dove, pare, ci siano mezzi più adeguati. Ma nella giungla è così. Strumenti che da noi sono di uso comune, qui devono riuscire a passare inosservati dai controlli di polizia di frontiera tailandese, percorrere per giorni e giorni i sentieri, guadare fiumi e torrenti, e una volta giunti a destinazione affrontare le dure condizioni ambientali, polvere nella stagione secca, umidità continua in quella dei monsoni. Così, anche nella seconda clinica Roe Bee Moo non può essere aiutato. La macchina non funziona. All'arrivo alla terza clinica, un giorno e mezzo dopo essere stato ferito, è già in condizioni disperate. Muore alle 3 del mattino del 21 febbraio.