Andy Capp: calcio e birra.
Sono 10 anni. Tanti ne sono trascorsi da quando Reginald Smythe - Reg per gli amici - se n’è andato: era il 13 giugno del 1998. Il nome non vi dice granché? Irriconoscenti, ecco cosa siete. Perché dobbiamo a lui uno dei personaggi più amati - dal pubblico - e odiati - dalle femministe e dai benpensanti di ieri e di oggi - delle nuvolette parlanti.
No, non ha bisogno di presentazioni, Andy Capp. Figuriamoci. E poi non è tipo da prestarsi a formalità e convenzioni sociali. Non ci degnerebbe di uno sguardo. Rimarrebbe, c’è da scommetterci, con l’inseparabile berretto da portuale calcato sugli occhi, sorpreso quanto infastidito dalle nostre attenzioni. Si limiterebbe a un’alzata di spalle e poi tornerebbe a sedersi al bancone del suo bar preferito, a sorseggiare birra e a sbirciare le cameriere. Non per portarsele a letto, badate bene, ma per scroccare qualche bevuta gratis. Malgrado sia spesso e volentieri, molto volentieri, ubriaco, non dimentica che Flo (la moglie brontolona con la quale forma una coppia perennemente in crisi ma irriducibilmente indissolubile) potrebbe piombare lì da un momento all’altro, afferrarlo per il bavero della giacca e riportarselo a casa prima che ne combini qualcuna delle sue. È lei a tirare la carretta, sempre pronta ad accudire quel marito sciagurato e irresponsabile, di cui è - nonostante tutto - innamorata e gelosa.
«Il mio migliore amico», lo definiva il fumettista inglese e non solo perché l’aveva reso ricco. C’era un bel po’ di se stesso in quella canaglia indolente e burbera: «Mi piace tornare a casa e non fare nulla» diceva, quasi a giustificare anche quel suo figliolo di china così ostinatamente sfaccendato. Aveva penato, Reg, prima di riuscire a fare del talento per il disegno una professione sufficientemente stabile. Era nato nel 1917 a Hartlepool, la città dell’Inghilterra settentrionale dove il 28 giugno dell’anno scorso, a riconoscimento dell’opera del suo celebre concittadino, è stata inaugurata una statua dedicata a Andy Capp. Predilezione per lo studio non ne aveva mai avuta. A quattordici anni già lavorava come garzone in una macelleria e la seconda guerra mondiale ne aveva fatto un mitragliere dell’esercito inglese in Africa del Nord. Congedato con il grado di sergente, aveva iniziato come disegnatore free-lance. Raccontava di aver inviato circa 6000 bozzetti a giornali e riviste prima di vedersi offrire, nel 1954, un posto fisso da vignettista al quotidiano londinese Daily Mirror. Rispetto al suo precario status di impiegato delle poste si trattava già di un bel salto in avanti. Ma la fama gliela diede qualche anno dopo - paradossalmente - proprio quello sfaticato di Andy, il personaggio meno ambizioso dell’intero universo dei fumetti. In confronto a lui persino Paperino è un arrivista. E abbiamo detto tutto.
Per sdebitarsi nei confronti della sua gallina dalle uova d’oro, Smythe, ammalato di cancro ai polmoni, negli ultimi tempi tolse di mano a Andy l’immancabile mozzicone “salvandolo” da analogo destino e rendendolo immortale. Sì, perchè - cosa abbastanza rara per un autore, per definizione “geloso” delle proprie creature - acconsentì a che altri dopo di lui continuassero a disegnarne le storie. Esaurite le cospicue scorte di strips inedite - con le quali l’editore è andato avanti per oltre un anno - nessun diluvio, ma tante strisce ancora, curate da Roger Mahoney e Roger Kettle e da chissà chi altro. Oltre a Andy, Smythe ha lasciato altri “eredi”: Buster, il figlio di Andy Capp, creato nel 1960 per una rivista per ragazzi, e Mandy, “nata” sul Daily Millor nel 1997 e presentata dall’editore - se non altro perché il “papà” non è Smythe - come «figlia illegittima di Andy Capp». Diventerà anch’essa una striscia quotidiana ma niente di lontanamente paragonabile al successo intramontabile di Andy Capp, che negli anni Ottanta conoscerà una nuova stagione di popolarità, tanto da diventare personaggio televisivo e ispirare uno spettacolo musicale itinerante che da Manchester arriverà sino in Finlandia.
Icona tipicamente britannica per humor ma nello stesso tempo universale - tanto da essere stato paragonato ai Beatles e ai Rolling Stones e persino, lui così insofferente a ogni dovere, al cambio della guardia di Buckingham Palace - Andy è un ambasciatore alquanto irregolare del made in England: esperto solo in scommesse, corse dei cani, biliardo, lancio delle freccette e piccioni viaggiatori, ama soprattutto starsene a poltrire sull’amato divano offrendo le spalle ai milioni di lettori che fanno di lui uno dei miti più popolari del secolo. Senza esagerazione. Basta scorrere i numeri: dal lontanissimo esordio - nell’agosto del 1957 sull’edizione locale (nord) del Daily Mirror (pochi mesi di “gavetta” per poi essere lanciato, il 14 aprile dell’anno successivo, su quella nazionale) - le strisce di Andy e Flo (Carlo e Alice nella versione italiana, dal 1960 ospitata da La settimana enigmistica) sono state pubblicate su 1.700 giornali in 48 paesi. Un successo internazionale: nel 1963 la coppia sbarca negli States - sul Chicago Sun Tribune - e, per tornare a noi, dal 1967 anche sulla prestigiosa rivista Eureka della editoriale Corno diretta da Luciano Secchi-Max Bunker, a cui hanno fatto seguito le raccolte nei caratteristici brossurati dall’elegante formato, i Comics Box.
Una cosa è certa, Andy Capp ha rappresentato l’altro ‘68, quello anglosassone: niente dialettica, nessuna velleità ideologica di stampo marxista, neanche una briciola di luoghi comuni. Bandita ogni retorica. Non c’è in lui rabbia né frustrazione. La lotta di classe non lo sfiora. Della società se ne frega e ne è ricambiato con reciproca soddisfazione. A modo suo è felice, un po’ come Fantozzi, il simpatico travet degli anni Settanta interpretato da Paolo Villaggio.
Ivo Germano, sociologo dell’immaginario, lo descrive così: «Di professione “fancazzista”, scettico per vocazione, Andy Capp insegna come a zero ore lavorative corrispondano miliardi di secondi di buona vita. Come illustra un vecchio albo del 1968, il cui titolo recita “Andy Capp il disoccupato più felice al mondo”, Andy fugge il lavoro piuttosto che cercarlo. Ancora oggi è antipedagogico e impolitico, rappresentando sempre e solo se stesso. Maestro di nessuno, è a mezza via fra Ernst Jünger e Antonio Pennacchi, fra l’anarca e il “fasciocomunista”. Uno come lui sarebbe di casa a un bar sport di Latina scalo, perché lì ci si accapiglia, spezzando il pane e il companatico della diatriba, ma fottendosene bellamente dei dibattiti sull’egemonia culturale e sul peso delle ideologie. Lì si vive e basta: in bella o brutta copia». Sostanzialmente d’accordo anche Filippo Rossi: «Andy Capp ha rappresentato la coscienza critica della cultura dominante degli anni Settanta - ci dice il coordinatore editoriale della Fondazione FareFuturo - la sua popolarità nel periodo in cui “tutto era politico” ci dà la misura di quanto l’egemonia culturale della sinistra scricchiolasse e come la divisione tra cultura alta, ideologica, e bassa, popolare, fosse artificiale. Come altri personaggi dell’immaginario di quegli anni, ad esempio i super eroi, disconosciuti e snobbati dalla cultura ufficiale, Andy Capp è un ribelle anarco-individualista: se Capitan America portava in dote il valore dell’eroismo, Andy esaltava l’eroismo della normalità, l’elogio del vivere tranquillo e disincantato, senza troppi impicci moralistici. Oggi però - avverte Rossi - il “bipolarismo” tra cultura alta e bassa. Persino la Repubblica riscopre Rambo mentre negli anni Settanta qualsiasi fumetto di guerra era considerato fascista. Ma oggi basta con le icone che potrebbero relegare di nuovo la destra negli stereotipi: quindi si ricominci proprio da Andy Capp, la libertà prima di tutto…».
Una raccomandazione forse superflua, almeno a giudicare dall’autoironia di un giovanissimo blogger di destra, Simone Migliorato (classe 1986, a sottolineare la longevità di Andy): «Anche i miti hanno dei difetti - osserva - però alla fine sono tutti migliori di noi. Hanno coraggio, senso dell’onore, poteri incredibili e una grande resistenza alla mazzate dell’esistenza. Tintin gira il mondo e non capiamo dove prenda tutti quei soldi, Capitan Harlock è un pirata dello spazio invincibile e gli spartani di Leonida sono talmente belli e muscolosi che combattonoin mutande senza problemi. Ma c’è un mito che amiamo e invece è peggio di noi: si chiama Andy Capp!».
Un adorabile cialtrone, ecco cos’è. Al pari di altri personaggi letterari e cinematografici come l’Arturo Bandini di John Fante, l’Henry Chinaski di Charles Bukowski, il giovane Holden di J. D. Salinger, l’Alex Portnoy di Philip Roth, il Barney Panofsky di Mordecai Richler e, perché no?, di Homer Simpson, Peter Griffin e persino di Shrek, che non si vergogna di essere un orco, anzi emette peti e rutti a tutto spiano. E irriverente è anche Andy, almeno quanto inaffidabile. Ma prima di farlo innervosire, irascibile com’è, diciamolo chiaramente: quando il gioco si fa duro, Andy gioca. A calcio. Perché fuggire le responsabilità è un conto, fuggire le passioni un altro. Partite che durano pochissimo. Troppo insofferente, il nostro, per rispettare le regole. Si arrabbia ogni volta e finisce per prendersela con l’arbitro, che è la stessa persona che riscuote la pigione del suo appartamento. Lo insulta, lo insegue, sino a stenderlo e a farsi espellere. E altrettanto vivace è come spettatore. Non si sottrae se c’è da menare le mani, salvo tornarsene sconsolato e sbronzo dopo una sconfitta. Per questo Andy è il beniamino dalle tifoserie, senza distinzione di fede: l’amore genuino quanto sfegatato per il pallone fa sì che il suo nome sia spesso presente su stendardi e striscioni issati nelle curve italiane. Un cattivo maestro? Un agitatore? Un naziskin ante litteram?
È la tesi sostenuta da Valerio Marchi - sociologo di sinistra scomparso prematuramente nel 2006 - che al nostro ha dedicato un libro velenoso: La sindrome di Andy Capp ((Nda press, 2004). Non sarà certo un campione di bon ton, Andy, ma prenderlo «ad allarmante modello di una vera e propria sindrome paranoide collettiva dei giovani marginali per lo stile di vita aggressivo, maschilista, sciovinista, qualunquista, tendenzialmente xenofobo, cosmicamente alieno da ogni forma di acculturazione» ci appare un tantino esagerato.
«Ma quale cattivo maestro - tuona Antonio Pennacchi, chiamato in causa da Ivo Germano - Andy Capp è un finto burbero ma ha un cuore d’oro, un po’ come l’Accio Benassi del mio romanzo Il fasciocomunista. Per vent’anni ho portato il suo stesso cappello, poi l’ho cambiato con uno a tesa larga ma gli resto fedele come a un vecchio amico».
Già, come non immedesimarsi in lui? Chi di noi non ha mai provato insofferenza per la “suocera” urlante, non a caso mai disegnata in viso e mai gratificata con un nome. Chi di non passerebbe volentieri la vita comodamente sdraiato su un divano? Chi dice il contrario o mente o - per dirla con Pennacchi - «è un sociologo, la cui unica ragion d’essere è trovare impedimenti alla vita degli altri».
Di: Roberto Alfatti Appetiti, tratto da www.mirorenzaglia.org