Zipporah Sein, Segretario Generale dell’Unione Nazionale Karen, invita alla prudenza gli osservatori internazionali, che fanno a gara nel descrivere “il nuovo corso birmano” come un processo irreversibile e un cammino che punta dritto alla pacificazione nazionale. Ma si sa, quando la macchina mediatica è in marcia lungo una direzione stabilita (dai soliti ignoti?), essa non può certo essere fermata da insignificanti leader di Popoli in lotta, ne’ da sconosciuti guerrieri che da oltre sessanta anni versano sudore e sangue per ottenere il rispetto della propria gente. Le mezzemaniche sedute alle scrivanie di televisioni e di giornali mondialisti hanno sempre la meglio. Così, mentre i portavoce di almeno venti milioni di persone invocano sostegno diplomatico e scongiurano i governi stranieri di non correre troppo sulla pista degli investimenti economici (oramai le sanzioni contro Rangoon sono definite “anacronistiche” dai guru della finanza internazionale), la stampa titola i suoi resoconti dalla Birmania con frasi cariche di mielosa accondiscendenza per i Generali in abiti borghesi, che dispensano sorrisi e pacche sulle spalle a destra e a manca come fanno i politici nostrani in periodo di campagna elettorale, giacca sulla spalla e dito puntato verso gli elettori. Sfacciati come venditori di auto usate del Texas o come galoppini di partito di ogni democrazia, i Ministri birmani parlano oscenamente di pace pur non avendo ancora firmato un vero cessate il fuoco con le principali etnie del Paese. I Karen, ai quali i furbacchioni di Rangoon hanno già prospettato la fusione tra l’Esercito di Liberazione Nazionale e il Tatmadaw (le Forze Armate birmane) sono tenuti in stato di totale ambiguità (nessun ritiro di truppe è avvenuto, al contrario le postazioni birmane sono state rifornite e rinforzate nelle ultime settimane), una situazione che consente ai soldati birmani di scorrazzare per i territori Karen senza rischiare di venir presi a fucilate dai guerriglieri. Per non parlare dei Kachin, vittime di una violentissima offensiva iniziata lo scorso giugno, che ha già provocato la fuga dalla regione di 75.000 persone.
Il 25 aprile Piero Fassino e il Ministro degli Esteri Terzi, hanno guidato una delegazione di imprenditori italiani che ha incontrato le autorità birmane allo scopo di stringere accordi commerciali con uno dei Paesi più corrotti al mondo, infischiandosene ovviamente degli stupri etnici e delle esecuzioni sommarie in corso nella regione Kachin.Nessun effetto hanno inoltre avuto le parole di Zipporah Sein, che ha ricordato come attualmente nel territorio Karen i militari birmani approfittino dell’ambiguo stato di guerra- non guerra per imporre ai contadini il lavoro forzato e per mettere in pratica rappresaglie contro i villaggi che rifiutano di prestare manodopera gratuita per la costruzione di piste e di postazioni fortificate dell’esercito. Il Segretario Generale dell’Unione Nazionale Karen, così come il Vice Presidente della stessa organizzazione, David Thackrabaw, non smettono di sottolineare che ancora non è stato fatto alcun passo concreto verso una soluzione dei reali problemi che interessano i gruppi etnici, ovvero quelli riguardanti la fine dell’occupazione birmana e il raggiungimento dell’autonomia. Ma a Fassino, a Terzi e a tutti gli altri politici che accorrono alla corte dei Generali “trans”, non può certo interessare la rivendicazione che arriva dalle nazionalità che abitano l’Oriente birmano. E’ notorio infatti come i gruppi etnici abbiano uno spiccato attaccamento verso la propria specificità culturale. Un difetto che mal si concilia con la visione mondialista di cui tutti questi politici sono invece interpreti e servitori. La guerra, che fino a qualche mese fa era aperta, chiara, senza gli equivoci e gli inquinamenti introdotti da sedicenti organizzazioni umanitarie che hanno lo scopo di convincere i movimenti autonomisti a consegnare le armi per far partire allegramente gli affari nei territori dell’est, rimaneva l’unico strumento in mano alla resistenza per costringere il governo di occupazione a trattare un accordo onorevole. Le nazionalità che abitano il Myanmar sono pronte a far parte di un Paese organizzato e governato sulla base di un modello federale. Una soluzione sensata, per nulla estremista. Ma le volpi di Rangoon fanno orecchie da mercante: sorridono, abbracciano, stringono mani e offrono pranzi e cene sfarzose alle delegazioni che vanno a negoziare. Non cedono nulla, vendono fumo, sbandierano l’entrata in Parlamento di Aung San Suu Kyi ma si guardano bene dall’ipotizzare un ritiro di truppe dalle regioni orientali. La società civile birmana denuncia, nella migliore delle ipotesi, ingenuità. A Rangoon si sono formati gruppi che fanno pressione sul governo affinché questo acceleri il processo di privatizzazioni già iniziato da tempo, illudendosi che la futura competizione capitalistica risolverà i nodi politici del Paese. Anche tra i Karen c’è qualche politico che è rimasto abbagliato dai sorrisi birmani e dai retorici discorsi delle Organizzazioni Non Governative sullo “sviluppo luminoso” che attende il loro Paese se non faranno troppo i difficili sulle questioni legate all’autonomia e alla specificità culturale. Ma per fortuna c’è ancora chi capisce che è meglio godersi la guerra, finché dura, poiché la pace, alle condizioni dei birmani, sarà terribile. Il Colonnello Nerdah Mya, come altri comandanti dell’Esercito di Liberazione Nazionale, è estremamente preoccupato per le mosse dei Birmani. “Il nemico sta approfittando della situazione, si prende gioco di noi” – dice con voce seria – “Soldati birmani fraternizzano con volontari del KNLA e intanto prendono informazioni sulle nostre linee di difesa. Riempiono di munizioni le loro roccaforti e noi non possiamo nemmeno bloccare i loro rifornimenti.” Le preoccupazioni di Nerdah Mya sono giustificate: se il governo del Myanmar volesse veramente la pace dovrebbe ritirare almeno una parte delle truppe sparse in territorio Karen, a dimostrazione della genuina intenzione di non ricorrere più alla guerra per risolvere la questione delle nazionalità. “Una cosa è certa” – prosegue il Colonnello – “il mio reparto, le Special Black Forces, non permetterà a nessun birmano di avvicinarsi al territorio sotto il suo controllo. I miei ragazzi non hanno nessuna voglia di fraternizzare con gli occupanti. Tengono il dito sul grilletto. Mio padre mi ha insegnato che al nemico si può stringere la mano solo quando ha dimostrato di non voler più nuocere. E questo non è certo il caso dei birmani. Combatteremo, anche se dovessimo essere i soli a farlo nell’intero Stato Karen”. Il nobile intento di Nerdah, così come la cristallina resistenza di David Thackrabaw in seno al Comitato Centrale della K.N.U. (in cui si batte per giungere alla creazione di un esercito comune con tutte le altre etnie in lotta contro il governo del Myanmar), rischiano di rappresentare battaglie perse in partenza. Lo schieramento avversario può contare non soltanto su figure come quelle sbarcate a Rangoon il 25 aprile (compiacendosi della coincidenza di data con altro sciacallesco avvenimento), ma anche su ben più potenti alleati, rappresentati da quei consigli di amministrazione vogliosi di liberare le loro fameliche multinazionali nella corsa allo sfruttamento delle risorse naturali del Paese. Figure scomode come Nerdah, come gli altri comandanti pronti a difendere il sogno di un Paese autonomo, come David Thackrabaw che non vuol vedere la sua Terra violentata da compagnie senza scrupoli, potrebbero ben presto essere additati come pericolosi estremisti, “signori della guerra”, magari finendo in qualche lista di “ricercati”, con una taglia posta sulla loro testa non più solo dai gangster di Rangoon, ma questa volta anche dai gangster delle “Corporation”. Le mezzemaniche saprebbero, anche questa volta, scrivere la storiella secondo il volere dei Padroni.
Franco Nerozzi, www.comunitapopoli.org
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